04. L'Impresa
𝐏𝐄𝐍𝐄𝐋𝐎𝐏𝐄
SEDEVA CON LA SCHIENA POGGIATA contro il tronco del pino di Talia, nell'erba profumata che ricopriva il terreno. Il cielo ed il mare, in quel punto lontanissimo, si toccavano e parevano mescolarsi. Si strinse nella felpa che aveva indosso e il cui tessuto portava l'odore fin troppo conosciuto di suo fratello. Era una mattina frizzante e fresca, fatta di rugiada e sole freddo. In lontananza, sul mare, nuvoloni neri avanzavano verso la valle, portatori di umidità e tempesta.
Immobile lì seduta sarebbe potuta passare tranquillamente per una statua. Ma la sua mente correva, a differenza delle sue membra. Correva, correva e correva; non riusciva a smettere di pensare a quel sogno, al viso di quel ragazzo, che piangeva.
No, non era lui a piangere. Era lei.
Lei era lui e lui era lei. Aveva sentito ogni sua emozione, dalla prima all'ultima. Dentro al petto, annidate nella gola e sotto la lingua. La cupa tristezza, la sua malinconia e il suo male. La rabbia ardente, la sua follia di vendetta e la sua disperazione celata e pressata sotto cumuli di rocce. V'aveva visto tanto dolore, in quel viso per metà celato in liquide tenebre. Un dolore sordo e greve, che pesava sul petto e toglieva il respiro.
Non era più riuscita a dormire, dopo quel sogno. Aveva sentito l'imminente bisogno di prendere aria ed era corsa fuori dalla Casa Undici, incurante delle arpie e della notte troppo fresca per il suo pigiama estivo. Ogni volta che chiudeva gli occhi vedeva il viso di quel giovane, simile ad un dio, rigato dalle lacrime. Tanto era forte il dolore che provava e che si era sentita montare dentro, che sentiva il forte bisogno di piangere ogni volta che il suo pensiero tornava a quel volto.
Lo conosceva. Sapeva bene chi era, anche fin troppo bene. Conosceva quello scudo, che con tanta forza e violenza aveva scagliato via, portatore di pensieri che facevano troppo male.
Guardò le proprie scarpe, quelle vecchie Converse rosse e rovinate dalle troppe corse alle quali le sottoponeva. Soffocò un grido nelle proprie mani, nascondendo poi il viso tra le ginocchia che si era portata al petto.
«Ciao, Penelope»
Drizzò di scatto la testa, la mano che s'era già fiondata in tasca alla ricerca della spada. Ma non ce ne sarebbe comunque stato bisogno.
Tirò un sospiro di sollievo nel riconoscere il volto di una driade, Juniper, che le sorrideva con dolcezza. La ninfa la guardava stando a testa in giù, le gambe piegate su uno dei rami più bassi dell'alto pino. Pendeva tranquilla, i lunghi capelli rossastri come l'ambra che s'agitavano in una danza delicata assieme alla brezza del mattino.
«Ehi, Juniper» la salutò Penelope, la voce che le raschiò la gola per il lungo tempo passato in silenzio.
«Come mai sei triste?» domandò la ninfa, scrutandola con quei luccicanti occhi di smeraldi che le spiccavano sul viso.
Penelope scosse il capo, abbracciando le proprie gambe. «Nulla, ho solo avuto un incubo la scorsa notte. Come mai qui?»
Juniper la scrutò per qualche altro istante, alla ricerca di un dettaglio che avrebbe potuto darle modo di indagare più a fondo nel suo stato emotivo. Parve non riuscire a trovarlo, così si tirò su e saltò giù dal ramo. Atterrò con dolcezza e grazia, senza produrre alcun rumore, sull'erba. «Il Signor D. mi ha mandata a chiamarti, dicendo che era piuttosto urgente. Testuali parole: "se non si muove la vengo a cercare di persona e la trascino fino all'Olimpo per un orecchio"»
Penelope sospirò stancamente, poggiando il capo contro il tronco del pino e stropicciandosi poi il viso con le mani. «Devo proprio? E' così necessaria la mia presenza?»
Juniper le prese una mano e tentò di tirarla in piedi, accarezzandole le nocche con le dita sottili e morbide. «No, ma alla Casa Grande ci sono anche Perseus Jackson ed il satiro Grover. Il Signor D. ha detto che se non verrai se la prenderà con Luke per avergli detto che saresti stata disponibile»
Penelope aggrottò le sopracciglia, tornando a guardare la ninfa. «Disponibile per cosa?»
Juniper si strinse tra le spalle, ancora accarezzando la sua mano.
«E va bene» borbottò Penelope, rialzandosi in piedi. «Vediamo cosa vuole il vecchio Testa di Sughero»
Juniper la accompagnò giù per la collina e la salutò quando giunsero in prossimità del laghetto delle canoe. Penelope la osservò allontanarsi verso il bosco, l'abito di tessuto leggero che svolazzava mentre camminava. Dunque procedette verso la Casa Grande e mentre si avvicinava osservò il cielo. Erano alcuni giorni ormai che le nuvole si agitavano, preludio di una brutta tempesta, ammassandosi insieme in un vortice scuro e turbolento. Il mare anche si agitava, nervoso. Zeus e Poseidone dovevano avere qualche problemino, e Penelope credeva di sapere perché.
«La marmocchia si è finalmente fatta viva! Pensi davvero che stessimo tutti qui ad aspettarti mentre tu facevi la preziosa?» disse il Signor D. quando la vide in prossimità del portico.
Il Signor D. - aka Dioniso, per chi non l'avesse ancora capito - odiava profondamente essere il direttore del Campo Mezzosangue. Penelope sapeva bene che, se ne avesse avuto modo, avrebbe trasformato ognuno di loro in scoiattoli, criceti e furetti, schioccando le dita e sorridendo soddisfatto. Era un omino grassoccio e di bassa statura, che vestiva sempre con tute casalinghe alquanto discutibili, i cui tessuti sfoggiavano orripilanti stampe leopardate o zebrate. Quel giorno, però, indossava una camicia hawaiana tigrata, i bermuda di un costume blu elettrico con le stelline e delle infradito rosse. Aveva un viso rotondo e occhi un po' troppo piccoli rispetto al viso, con un naso che era perennemente rosso, come se fosse ubriaco fradicio. I capelli? Erano una massa ordinata di vivaci riccioli neri, che ricordavano in modo particolare i ghirigori che le piante di vite prendono quando crescono.
Penelope sospirò, scegliendo prontamente di ignorare il direttore del campo e rivolgendo lo sguardo a Chirone. Il centauro sedeva nella sua sedia a rotelle magica, dall'altro lato del tavolino sul quale lui ed il dio del vino stavano giocando a pinnacolo. Chinò il capo in un muto e rispettoso saluto, osservando il centauro fare lo stesso.
«Vuoi unirti a noi?» le chiese Chirone, indicando con un cenno le carte da pinnacolo e le mani degli avversari invisibili contro cui stavano giocando.
Penelope riuscì a sorridere un poco alla proposta. «Dovrebbe sapere che l'unico gioco in cui mi diletto è il poker, signore» disse, nascondendo le mani nelle tasche della felpa gialla che aveva addosso. Chirone scosse il capo divertito e le disse di venire avanti.
Penelope si appoggiò con la schiena ad una delle colonne in legno che sostenevano il portico, di fianco ad un Percy che la guardava come se la stesse implorando di portarlo via da lì. Lei gli fece il gesto del "e che posso farci io?".
«Prima che tu finalmente ci raggiungessi, piccola mocciosa, stavo dicendo alla nostra nuova celebrità che dovrebbe aspettarsi di venir trasformato in un delfino» disse annoiato il Signor D., prendendo poi un sorso dalla lattina di Diet Coke che aveva accanto sul tavolino. «Se avesse un po' di cervello capirebbe che questa sarebbe una scelta molto più ragionevole di quella di Chirone. Comunque sia, Priscilla-»
«Penelope» lo corresse lei.
«Sì, sì, Petunia. Vedi di ascoltare attentamente ciò che Chirone dirà: potrebbe tornarti utile, soprattutto se sarai tu a guidare l'impresa di questo marmocchietto. Non lo vedo tanto in grado di fare una cosa del genere. Hai detto di essere disponibile e non ti concederò la possibilità di tirarti indietro. Se farai come l'altra volta, quando dovevo mandarti a recuperare quel dannato paio di sandali di tuo padre ma ti sei rifiutata, ti trasformerò in una donnola. Una donnola. Ci siamo capiti?»
Penelope sbatté le palpebre, non capendo. Si morse il labbro inferiore, strizzando gli occhi ed incrociando le braccia al petto. «Scusi, eh, quale... quale impresa?»
Il Signor D. alzò gli occhi scuri al cielo, agitando una mano grassoccia con fare vago. «Smettila di fare la finta innocente. La strategia non funziona più, signorinella. Ascolta Chirone, io ho da fare»
Detto questo prese una carta e la piegò, questa si trasformò in un pass nella sua mano. Il dio schioccò le dita e l'aria gli si piegò attorno, avvolgendolo. I vestiti di Penelope vennero appena appena tirati perché l'aria veniva come risucchiata in un piccolo vortice. La figura del Signor D. si sfocò e perse colore, come a divenire un ologramma, poi scomparve con un vivace pop!, lasciandosi dietro solamente il profumo del mosto appena spremuto.
Penelope si voltò con una lentezza spaventosa verso Percy, che la guardò quasi terrorizzato. Doveva essere perché la dodicenne aveva appena stretto le mani in due pugni ferrei. «Di quale... fottuta... impresa parlava il Signor D., Percy?»
Lui scosse la testa, stringendo le labbra. Chirone la guardò con uno sguardo di rimprovero, ricordandole di utilizzare un linguaggio che non comprendesse parole poco garbate. Poi, invitò Percy, lei e Grover a sedersi.
«Percy, dimmi, che effetto ti ha fatto il segugio infernale?» chiese il centauro al dodicenne.
Lui scoccò uno sguardo a Penelope, osservandola stringere le labbra per contenere la rabbia che le avevano causato le poche parole del Signor D. Lei lo guardò e lo incitò a rispondere, voltandosi poi dall'altra parte, a guardare i campi di fragole ancora un poco baciati dal sole.
«Mi ha terrorizzato» confessò Percy. «Se non fosse stato per voi sarei morto»
Penelope si lasciò sfuggire una risata amara nella consapevolezza che, con il sangue che gli scorreva nelle vene, quel ragazzino ne avrebbe visto di peggiori nella vita. Grover le tirò una gomitata nel costato e lei gli tirò un calcio da sotto al tavolo per ripicca.
«Be', figliolo, incontrerai cose peggiori prima che tu abbia finito» affermò Chirone, dando voce ai pensieri della figlia di Ermes.
«Finito cosa?»
«La tua impresa, naturalmente»
Penelope appoggiò entrambi i gomiti sul tavolo, incrociando poi le mani tra loro. «A tale proposito, vorrei sapere-»
Chirone la guardò. «Aspetta, Penelope. Dopo ne parleremo»
La dodicenne sbuffò sonoramente, abbandonandosi contro lo schienale della sedia su cui sedeva. Come al solito, cavò fuori dalla tasca un leccalecca, lo scartò e si mise a mangiarlo, giocherellando con il bastoncino per ammazzare il tempo.
«Signore... riguardo l'impresa, non mi ha ancora detto di cosa si tratta» disse Percy, i piedi che non riuscivano a star fermi.
«Questa è la parte difficile, ragazzo: i dettagli»
Un tuono scosse il cielo, talmente forte da far tremare le finestre. Ormai, le nuvole temporalesche avevano raggiunto il confine della spiaggia e presto sarebbero passate attorno al campo ed i suoi confini magici, come facevano al solito. Era una cosa utile, da una parte, questo controllo sul meteo. Dall'altro, Penelope avrebbe voluto la neve almeno a Natale, ma quello sembrava chiedere troppo.
«E' stato rubato qualcosa, vero?» azzardò Percy. «Per questo Zeus e Poseidone stanno litigando»
Chirone e Grover si scambiarono uno sguardo. Nello stesso momento, Percy guardò Penelope. «Non guardarmi così! Io non c'entro un bel niente!» esclamò lei, alzando le mani.
«Certo che non c'entri nulla, Penelope» affermò Chirone, la solita espressione pacata ora attraversata da una vena di preoccupazione. «Ma Percy, come sai questa cosa?»
Le guance di Percy si erano fatte rosse come lamponi. «Be'... il tempo fa il matto da Natale, come se mare e cielo stessero continuamente litigando. E poi ho parlato con Annabeth, che ha detto di aver sentito parlare di un furto o una cosa del genere. Ed inoltre... sto facendo questi sogni... da un po', ormai»
«C'è sempre lei di mezzo» borbottò Penelope, poggiando il capo su una mano. Nello stesso momento, Grover commentò: «Lo sapevo».
«Silenzio, voi due» ordinò Chirone.
«Ma l'impresa è sua, non c'è alcun dubbio!» replicò il satiro, gli occhi scuri scintillanti di eccitazione.
«Questo può dirlo solo l'Oracolo». Chirone si accarezzò la barba ispida. «Comunque sia, Percy, hai ragione. Poseidone e Zeus stanno litigando - una delle peggiori liti, c'è da dire - per qualcosa di molto prezioso che è stato rubato. Parlo della folgore di Zeus»
Percy si passò una mano tra i capelli, ridendo nervosamente. «Una cosa?»
«E' un cilindro in purissimo bronzo celeste di sessanta centimetri, le cui estremità sono degli esplosivi dalla potenza divina. E' il simbolo del potere di Zeus, il modello sui cui sono state forgiate tutte le altre folgori. La stessa arma forgiata dai Ciclopi, la prima, con la quale è stato scoperchiato il monte Etna e con cui Crono è stato spodestato dal suo trono. Parliamo della folgore originale, di una potenza tale che le bombe ad idrogeno moderne non sono nulla a confronto»
Le labbra di Percy erano schiuse a formare una piccola e perfetta "O". Penelope allungò una mano e gli richiuse la bocca. «E questa bomba a mano è sparita, dunque»
«E' stata rubata»
«Da chi?»
«Da te»
Un nuovo tuono scosse il cielo.
«O almeno» continuò Chirone «questo è ciò che pensa Zeus. Durante l'ultimo solstizio d'inverno, al Consiglio degli Dei, tuo padre e Zeus hanno litigato. Le solite cose un po' sciocche... "sei sempre stato il cocco di nostra madre Rea"; "i disastri aerei sono molto più belli di quelli marittimi", e cose così. Solo dopo tutto questo Zeus si è accorto che la sua folgore era stata rubata. Qualcuno l'aveva presa dalla sala del trono sotto al suo naso e lui nemmeno se ne era reso conto. E' andato, come puoi immaginare, su tutte le furie. Ha incolpato immediatamente Poseidone. Ora, devi sapere che è proibito da antiche leggi per un dio usurpare il simbolo del potere di un altro. Per questo, Zeus crede che tuo padre abbia convinto qualcun altro, un mortale, a farlo»
«Ed il fatto che tu pop! sia apparso proprio ora e che Poseidone ti abbia riconosciuto ufficialmente come il suo unico figlio non facilita per niente le cose. Entiendes?» disse Penelope, sorridendo sorniona a Percy.
Chirone le posò una mano sulla spalla, comunicandole con lo sguardo di lasciarlo parlare. «Penelope dice il giusto, anche se in modo un po' terra terra. E bada: Zeus ha ottime ragioni per sospettare di tuo padre. Le fucine dei Ciclopi che forgiano le armi divine, tra cui le folgori, si trovano sotto l'oceano. Zeus crede che ora, con la folgore originale, Poseidone stia facendo forgiare un'arsenale di copie illegali, che poi utilizzerà per spodestarlo dal suo trono. Inoltre, tu eri a New York durante le vacanze invernali, il che ti rende il primo sospettato, perché avresti avuto la liberissima possibilità di andare sull'Olimpo e rubare la folgore. Con il tuo riconoscimento, Zeus crede di aver stanato il ladro»
«Ma non sapevo nemmeno dove si trovasse l'Olimpo!» replicò Percy, sporgendosi in avanti. «E poi, non ci ho mai messo piede! Zeus è un pazzo patentato!»
Penelope rise di gusto nell'udire l'ennesimo tuono squarciare il cielo. I nuvoloni non parevano avere la minima intenzione di aggirare il campo, infatti lo stavano man mano ricoprendo, lanciando ombre dalle buffe forme sul terreno ed oscurando il sole freddo e biancastro che fino a quel momento aveva illuminato la valle.
«Ehm... Percy, solitamente non utilizziamo quella parola per descrivere il Signore del Cielo» lo ammonì Grover, girandosi nervosamente i pollici. Il satiro era proprio come Penelope: quando erano nervosi dovevano per forza fare qualcosa che gli occupasse le mani, o rischiavano di andare nel panico e smettere di ragionare.
Chirone annuì. «Forse "paranoico" sarebbe una definizione migliore. Ma d'altronde, Poseidone aveva già provato a spodestare Zeus, in passato. Se non erro, si trattava della domanda numero trentotto nel compito d'esame»
Oh, Chirone e le sue domande. Penelope era fortunata ad aver passato fin troppo tempo in compagnia di Nerea e della sua eccellente memoria, o anche lei non avrebbe fatto faville nei compiti che Chirone assegnava. Si distraeva troppo facilmente... e le piaceva dare fuoco alle cose. Ma questa è un'altra storia.
Percy scrutò il viso di Chirone, il quale attendeva una risposta. Abbassò lo sguardo verde mare sulle proprie mani, che teneva intrecciate in grembo. «Dovrebbe essere... c'entra una rete d'oro, vero? Poseidone, Era ed altri dèi... hanno intrappolato Zeus e l'hanno liberato solo dopo la promessa che sarebbe stato un sovrano migliore, giusto?»
Chirone annuì. «Da allora Zeus non si fida più di tuo padre. Naturalmente, Poseidone ha subito affermato di non sapere nulla del furto della folgore e così continua a fare. Litigano da mesi ormai... ed alla fine sei spuntato fuori tu. L'ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso»
Percy strinse le mani attorno ai braccioli della sedia su cui sedeva. «Oh, andiamo! Sono solo un ragazzino!»
«Ermes ha rubato le vacche sacre di Apollo quando aveva solo poche ore di vita. Dire che tu sei un ragazzino è un po' come dire che i film di Harry Potter sono meglio dei libri» disse Penelope, che ora teneva le gambe incrociate sulla sedia ma già sentiva il bisogno di cambiare posizione di seduta.
Percy la squadrò serio. "Non sei d'aiuto", sillabò con le labbra.
Grover trasse un respiro profondo, come se dovesse mettere in ordine nella sua testa e calmarsi un attimo. «Percy, se tu fossi Zeus e temessi che tuo fratello stia tramando per spodestarti, per poi venire a sapere che ha infranto un giuramento pronunciato decenni fa, generando un nuovo eroe mortale che potrebbe essere usato come arma contro di te, non ti sentiresti un po' preso per il divino fondoschiena?»
«Suvvia, Grovie» intervenne Penelope, sedendosi al rovescio sulla sedia, con la schiena poggiata contro uno dei due braccioli. «Qui l'unico che non ha infranto il giuramento è Ade, che se ne è rimasto zitto e buono dove doveva stare. Zeus è stato il primo a spezzare le regole, infischiandosene alla grande ed avendo Talia. La rottura del giuramento da parte di Poseidone dovrebbe essere una delle ultime cose a creargli preoccupazione, perché la Vecchia Seppia avrebbe potuto pensare lo stesso di Talia anni fa»
«Ma sai anche tu come è fatto Zeus: si arrabbia per ogni minima cosa». Il cielo tuonò ed il satiro sussultò. «Mi scusi, mi scusi» ammise con un filo di voce.
«Fidati, lo so fin troppo bene come è fatto. Talia ne era la copia esatta...»
«Ragazzi, basta» tagliò corto Chirone «non è il momento di parlare di questo». Tornò a guardare Percy, il quale aveva seguito il breve scambio tra Grover e Penelope spostando fulmineo gli occhi dal viso del primo a quello della seconda. «Gli osservatori attenti, quelli che colgono i dettagli, potrebbero affermare che il furto non è nello stile di Poseidone. Ma tuo padre è troppo orgoglioso per cercare di convincere suo fratello. Ora, Zeus pretende che Poseidone gli restituisca la folgore entro il solstizio d'estate, ovvero fra dieci giorni, il ventun di giugno. Poseidone, dal canto suo, pretende delle scuse da parte di Zeus per la falsa accusa entro la stessa data. Speravo vivamente che la situazione si sarebbe risolta prima di arrivare ad un punto così critico; che magari Era, Demetra od Estia sarebbero riuscite a far ragionare i loro fratelli, ma non c'è stata storia. Ovviamente, nessuno dei due fratelli ha intenzione di fare un passo indietro. E se la folgore non verrà ritrovata entro dieci giorni e restituita a Zeus, sarà guerra. Hai la vaga idea di cosa questo significherebbe?»
«Sarebbe... un po' come se mettessimo insieme la guerra di Troia con quella del Peloponneso?»
«Aggiungici anche la Prima Guerra Mondiale» affermò Penelope.
Chirone ignorò quei loro mostruosi tentativi. «Immagina la natura in guerra contro sé stessa. Gli Olimpici costretti a schierarsi con Zeus o con Poseidone. Sarebbe un disastro. L'umanità non ne uscirebbe viva...»
Non che sarebbe poi un gran danno, con quello che stiamo facendo al pianeta, pensò Penelope.
«... distruzioni, carneficine, milioni di morti. La guerra di Troia al confronto sembrerebbe una battaglia con i gavettoni»
«In sostanza: una cosa molto brutta» concluse Percy.
«E tu, Percy Jackson,» continuò imperterrito Chirone «saresti il primo a subire la furia degli dèi, Zeus in primis»
Iniziò a piovere con un rombo, seguito dal piacevole scroscio della pioggia. Penelope sorrise e si alzò, raggiungendo l'estremità del portico e tendendo poi una mano al di fuori di esso. La pioggia bagnò fredda il suo palmo e le sue dita, dando modo al suo sorriso di allargarsi sempre di più. Al contrario dei ragazzi che fino ad un momento prima stavano giocando nel campetto di pallavolo, sembrava gioire dell'arrivo della pioggia.
Si voltò a guardare Chirone, Percy e Grover, osservando le loro espressioni serie. «Mi piace la pioggia» mormorò appoggiandosi ad una delle colonne, ancora col sorriso in viso. «Mi piace la pioggia»
La rabbia scaturita dalle parole del Signor D. era svanita, fortunatamente. Non aveva ancora capito a cosa si riferisse, né perché le stesse parlando di un'impresa della quale nemmeno conosceva l'esistenza. Ma spesso s'era detta che la rabbia era pressoché inutile in momenti come quello e che dunque doveva dare un'importante calmata al fuoco che le bruciava dentro, perché troppo spesso tendeva ad avvampare anche quando non serviva. La rabbia, si diceva lei, serve quando si presentano situazioni nelle quale vale la pena bruciare; in caso contrario, ci si rende solo amaro il sangue.
«Quindi devo recuperare quella dannata folgore» esclamò Percy, il tono instabile di chi è sul punto di scoppiare - dalla rabbia, appunto. «E poi ridarla a Zeus»
«Sarebbe il modo migliore di risolvere, la perfetta offerta di pace: il figlio di Poseidone che riporta il maltolto a Zeus» disse Chirone.
«Ma se Poseidone non ha fatto nulla, dove è finito quell'affare?» ribatté il dodicenne.
«Credo di saperlo» rispose il centauro, il viso coperto da un cupo velo. «Parte di una profezia ricevuta tanti anni fa... alcuni versi iniziano ad avere un senso. Ma rima di giungere a qualsiasi conclusione sarebbe meglio se tu andassi a consultare l'Oracolo»
«Perché non mi dice direttamente dov'è la folgore, così la facciamo più semplice?»
«Smetti di essere così irritante e di fare la ragazzina isterica; gli sbalzi d'umore tienili per te» affermò brusca Penelope, lo sguardo fisso sulla pioggia e sui cerchi che le sue gocce creavano colpendo la superficie del laghetto delle canoe. «Sapere tutti i dettagli prima di un'impresa non è mai una cosa buona. Rischi di restare così spaventato da ciò che ti aspetta da non voler più fare quello che va fatto, e tutto va a farsi dannare. Fidati. Pensi che avrei voluto scendere negli Inferi se avessi saputo lo schifo che c'è là sotto? Va' dall'Oracolo e chiudiamola qui»
Non si voltò a guardarlo, ma sapeva che Percy ci era rimasto male per il modo in cui gli aveva rivolto quelle parole. Lei aveva questo tremendo problema: non sapeva controllare il proprio tono e spesso le parole sfuggivano dalle sue labbra troppo velocemente, senza darle tempo per modificarle e dar loro una regolata. Odiava trattare male le persone ed ogni volta che questo accadeva lei si sentiva uno schifo. Ma non si voltò a guardarlo, sentendosi troppo un verme per sostenere il suo sguardo.
«Allora, accetti?» domandò Chirone, spezzando con violenza il ghiaccio che s'era formato sotto quel portico.
Percy esitò e si comprese facilmente. «Sì. Meglio che essere trasformato in un delfino» disse infine.
«E sia. Sali al piano di sopra e consulta l'Oracolo. Quando tornerai qui, Percy Jackson, ammesso che tu sia ancora sano di mente, riprenderemo il discorso»
Percy sospirò e si alzò; i piedi della sedia strusciarono sul legno del pavimento. Penelope aveva imparato a riconoscere i suoi passi, perché erano ben nitidi nel suono: sbatteva i talloni sul terreno quando camminava, quindi le sue scarpe facevano più rumore di quanto avrebbero fatto normalmente. Il suono della porta che, cigolando, si aprì e poi si richiuse fu la conferma che se ne era andato.
Passarono alcuni secondi nei quali l'unico suono a riempire il silenzio fu il dolce canto della pioggia. A Penelope questa piaceva principalmente per via dell'odore che si portava dietro e che lasciava sparso quando andava via. Le piaceva anche il suo suono, il quale riusciva a calmarla anche quando nessun altro, nemmeno Luke, ci sarebbe riuscito. E poi, la pioggia lavava via tutto, sempre. Penelope le lasciava carta bianca nel lavare la sua anima da ogni sentimento negativo che l'aveva macchiata come fa inchiostro su un candido foglio.
Per questo era molto legata a Talia. La figlia di Zeus era come la pioggia: un calmante naturale, o almeno questo valeva per lei. Che poi, definire Talia come un "calmante" era veramente un paradosso, conoscendo quel suo carattere bellicoso e ribollente di rabbia. Ma con lei era diverso... l'aveva sempre trattata come la pioggia tratta un fiore: sfiorando i petali come se temesse che questi potessero spezzarsi da un momento all'altro. Le tempeste di fulmini non fanno paura a tutti, non sempre. Osservando ed udendo la pioggia le due maestose iridi della ragazza le si presentarono in mente, indelebili. Bastava uno sguardo a quegli occhi, di un blu così elettrico da non sembrare vero e solcati da striature argentee che parevano fulmini nel cielo in tempesta, ed ogni sfuriata, attacco di panico o malumore che fosse svaniva in pochi attimi.
«Non avresti dovuto trattarlo così» affermò la voce di Grover, dispiaciuta.
«Lo so» sospirò lei in risposta, abbandonando di nuovo il proprio peso contro una delle colonne. «Gli chiederò scusa più tardi»
«L'importante è che tu tenga sempre a mente che le scuse, prima o poi, fanno come le medicine: non hanno più effetto» le rammentò Chirone, ricordandole ciò che per anni ormai lei si era sentita dire.
«Pensa che sia la persona giusta per questa impresa, signore?» domandò Penelope al centauro.
Lui sospirò stancamente. Tremila e passa anni di costante allenare eroi per poi vederseli svanire come polvere portata via dal vento, morendo e restando solo spiriti che vagavano nell'Ade, doveva essere piuttosto frustrante. «Non lo so, francamente. E' qui da così poco tempo e non conosce nulla di questo mondo. Ho il timore che le cose potrebbero andare nel verso sbagliato»
«Ed è qui che entro in gioco io, vero?». Si voltò a guardare il centauro ed il satiro; entrambi la guardavano con uno sguardo intristito negli occhi. «E' questo che intendeva il Signor D. Devo partecipare a questa impresa per dargli una mano»
«Potrebbe essere una cosa molto utile, sì» confermò Chirone. «Potresti determinare il suo successo»
«Perché non ci mandate Annabeth? Ha la così grande smania di uscire di qui ed è brava quanto me, forse anche di più. Io non la voglio questa impresa, non ne voglio più nemmeno una. Non dopo quella che ho già avuto. Mandate lei e risolviamo»
«In realtà,» disse Grover «Chirone aveva intenzione di mandarvi entrambe»
Penelope rise nervosamente, stringendosi nella felpa gialla di suo fratello. «Sapete che sarebbe l'equivalente di mandare Percy al mattatoio, vero? Me ed Annabeth nella stessa impresa, ma vogliamo scherzare? Finiremmo per ammazzarci a vicenda»
«Per questo Luke mi ha proposto di mandarti. Così, magari, riuscireste a far pace»
Penelope aggrottò la fronte, acciuffando finalmente le risposte di cui aveva bisogno. «E' stato Luke a dirle che volevo l'impresa?». Chirone annuì e lei ebbe la fulminea voglia di strapparsi tutti i capelli dal capo. «Non è vero. Non può averlo fatto»
«E' venuto stamattina presto, mentre io e Grover ne parlavamo. Aveva sentito dire che ci sarebbe stato il bisogno di un'impresa ed era venuto ad informarsi, ma non per sé stesso, per te»
Penelope chiuse gli occhi e trasse diversi profondi respiri. Uno... due... tre... e quattro, contò. Ripensò a quando Talia le dava lezioni su come controllare il proprio respiro quando aveva un attacco di panico.
Quando riaprì gli occhi, Grover stava giocherellando distrattamente con la cartina del leccalecca che lei aveva precedentemente scartato. «E perché l'avrebbe fatto?»
«Ha detto che tu volevi l'impresa. Diceva... che volevi uscire, di nuovo» rispose il satiro, incerto. «Non gli abbiamo detto che l'impresa sarebbe molto probabilmente stata di Percy, ma temo che ne avesse il presentimento, dopo la partita di Caccia alla Bandiera. Così... abbiamo pensato che tu la volessi per restargli accanto e coprirgli le spalle. Dopotutto, questo hai fatto fino ad oggi»
La figlia di Ermes aprì la bocca per ribattere, rendendosi solo conto di non avere parole da cacciare fuori. Era un edificio costruito su un terreno troppo sabbioso. Da un lato, sarebbe partita per aiutare Percy. Lo conosceva da così poco tempo che, ad esempio, una mente più razionale come quella di Annabeth non avrebbe di certo mandato al diavolo tutto quanto per seguirlo. Ma Penelope gli aveva fatto una promessa e le promesse si mantengono, sempre. Dall'altro lato, non voleva partire e lasciare la sua casa. Sentiva di non averne il coraggio.
Si chiese come mai, nonostante conoscesse bene il suo puro terrore per il mondo esterno, Luke avesse comunque fatto di testa sua. Credeva che avrebbe rispettato una scelta del genere, conoscendo ciò che aveva visto solo l'estate prima. Credeva che, conoscendo lui e il modo in cui le voleva bene, avrebbe concordato con quella decisione.
Ed invece no. Aveva fatto, come ormai tendeva sempre più spesso a fare, di testa sua.
«Se credete sia opportuno mandarmi insieme a Percy, fatelo. Non mi opporrò. Ma pensateci bene, ve ne prego». Chirone la guardò con lo sguardo di chi ha visto il malessere agitarsi sotto lo sterno degli altri.
Gli occhi color caffè del centauro le avevano sempre dato scosse di brividi che le valicavano la schiena. Sapeva che quegli occhi avevano visto il tempo scorrere ed i secoli andare e venire. Quegli occhi conoscevano il mondo sotto ogni suo aspetto e portavano la saggezza di chi sa. In quel momento, le parvero solamente profonde pozze calde e tristi. Chirone sapeva e capiva. «Vedrò di valutare con attenzione la mia scelta. Ma se Percy chiederà di te, come pensò accadrà, non potrò dirgli di no»
Penelope annuì. Si tirò su il cappuccio della felpa e alzò la cerniera. «Bene. Ora, dovete scusarmi, ma devo fare una cosa». Il centauro annuì, congedandola.
La voglia di mettersi a correre le formicolava nelle membra, scoppiettando sotto il sottile strato della sua pelle. Si sentì tradita, ignorata, sottovalutata.
Se ci fosse stata Talia, si disse, tutto questo non sarebbe accaduto.
Aveva voglia di gridare in faccia a suo fratello tante brutte cose. Aveva voglia di bruciare e lasciare che le fiamme divorassero tutto. Non l'aveva nemmeno presa in considerazione, troppo preso dal suo voler far fa mediatore tra lei ed Annabeth. Troppo preso dai suoi interessi. Troppo concentrato su ciò che lui voleva e che lui era in grado di fare. Aveva pensato alla paura fottuta che lei nutriva per il mondo esterno e per ciò che esso nascondeva? Aveva pensato alle centinaia di volte in cui lei gli aveva espressamente detto che no, un' impresa non la voleva? Aveva pensato a lei ed al suo bene, a ciò che avrebbe pensato una volta saputo tutto questo? Spoiler: la risposta era no.
Furiosamente diretta alla Casa Undici per fare una sfuriata a Luke, andò a sbattere contro qualcosa che non aveva visto - forse perché si fissava i piedi, forse perché quella cosa prima non c'era. Fissò il vuoto davanti a sé, i pugni stretti accanto ai fianchi e gli occhi che si assottigliavano sempre di più. Se si guardava con giusta attenzione si potevano notare le gocce di pioggia cadere e poggiarsi su quello che, se qualcuno non avesse saputo, sarebbe potuto sembrare il vuoto. Ingoiò un groppo di lacrime scure che pareva pesare quando un macigno. Mandò al diavolo Annabeth e la sua assenza di parole, continuando la sua marcia verso la casa di Ermes.
Avrebbe voluto piangere, ma si impose di non farlo. Aveva già pianto troppo col giovane dagli occhi verdi. Strinse i denti e continuò a camminare, il suono della pioggia che, per quella volta, non riuscì a calmarla.
{ Nota di Moony }
Ma ciao! Questa volta vi beccate ben tre capitoli ahah in origine dovevano essere due, perché il capitolo del sogno era piuttosto corto e avevo deciso di pubblicarlo insieme al precedente. Ma, dato che non avrò molto tempo libero in queste prossime settimane per via della scuola (ho da recuperare qualche votaccio ahah) ho pubblicato anche questo, in anticipo. Spero vi siano piaciuti ♡
Stay tuned!
Moony
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