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03. Caccia alla Bandiera

𝐏𝐄𝐑𝐂𝐘

I GIORNI SEGUENTI ERANO STATI, nella personale opinione di Percy, in bilico tra assurdamente normali e straordinariamente strani.

Non sapeva bene come definire le attività svolte al campo, in particolare quelle che gli erano più nuove, come studiare il greco antico - cosa che non gli risultava per nulla difficile, proprio come Annabeth aveva detto - e fare lezioni di corsa con ninfe che, fugaci, svanivano tra i colori del bosco.

Se si sorvolava sul fatto che a tenere la maggior parte delle sue lezioni fossero satiri, ninfe e addirittura un centauro, il programma di attività in cui si era inserito poteva essere definito quasi normale.

Certo, non avrebbe mai più provato anche solo a toccare un arco, volendo evitare di centrare in pieno qualcun altro con una freccia. Chirone però non si era lamentato... quando aveva dovuto sfilarsene una dalla coda - almeno quello.

Le mattine le passava con Annabeth, studiando greco antico e una quantità spropositata di miti e divinità di cui, spesso, parlavano al presente. La cosa gli faceva strano, ma piano piano si stava abituando all'idea che lassù, oltre quelle nuvole candide, c'erano delle possenti e bellissime divinità che li osservavano. Il pensiero che suo padre, chiunque esso fosse, lo guardasse destreggiarsi a malapena con arco e frecce non gli piaceva poi molto. Insomma, si diceva, mio padre è un dannato dio! Dovrò pur dimostrargli che so fare qualcosa, no?

I pomeriggi, invece, li spendeva con Penelope - o almeno, guardando Penelope. Era qualcosa che non riusciva a controllare: i suoi occhi, che lui lo volesse o meno, cadevano sulla sua figura snella e sottile. Ne osservava i movimenti, le espressioni del viso, il modo in cui si mordeva la punta della lingua quando prendeva a fendenti di spada i poveri manichini nell'arena.

A proposito di spade, non se la cavava poi così male con quelle. Penelope gli aveva affidato la sua spada e gli aveva fatto provare alcune posizioni di base. Immancabile era il momento in cui lei gli si metteva alle spalle e gli correggeva la postura o gli portava la mano libera dietro la schiena. "Devi imparare ad utilizzare principalmente il braccio con cui reggi la spada, poi potrai lasciare libera anche l'altra mano. Anche se non dovresti, perché rischi che qualcuno decida di tagliartela di netto o di darle un bel morso", diceva. Non s'era ancora arrischiata a dargli una vera e propria lezione di combattimento con spada perché non si reputava abbastanza brava da poter insegnare - "quel compito spetta unicamente a Luke", aveva detto, senza poi più tirare fuori l'argomento.

Ma, tutto sommato, Percy si stava abituando al peso che una spada aveva nella sua mano. Si stava abituando anche alla nebbia mattutina che aleggiava a pochi centimetri dalla sabbia fredda, al profumo dei campi di fragole riscaldati dal sole pomeridiano, persino a quegli strani versi che di notte si levavano dal bosco, opera di mostri e mostriciattoli vari. Durante i pasti sedeva al tavolo undici con Penelope e Nerea, che non la smettevano mai di parlare; non gli dava fastidio, però, quel loro continuo chiacchericcio. La tredicenne, più alta di lui di diversi centimetri e sempre ridente di un sorriso perlaceo, si era offerta di insegnargli qualche verso di Omero, che ora lui masticava abbastanza bene.

A gettare quella parte di cibo come offerta agli dei, ogni sera, cercava di avvertire una connessione con suo padre. Ma, ovviamente, il tutto non sortiva alcun effetto. Restava solo quella sensazione di calore che aveva sempre avuto, quella memoria sfocata di un sorriso. Aveva notato il modo in cui gli altri campeggiatori lo guardavano, come se tentassero di scannerizzarlo con gli occhi. E sapeva che tutti si chiedevano o tentavano di capire chi potesse essere suo padre, ma lui non era di certo d'aiuto. Pareva non avere alcun talento o potere che si potesse in qualche modo collegare ad un dio in particolare. Luke gli aveva detto che avrebbe potuto essere di Ermes, ma Percy si era accorto che non ci credeva nemmeno lui.

Sempre più spesso, tentava di non pensare a sua madre. Solo focalizzare il suo nome in mente, le lettere ardenti come incise a fuoco, gli faceva sentire un gran peso sulle spalle. Eppure continuava a chiedersi: se tutta questa storia degli dèi e dei mostri, della magia e degli Inferi era reale, perché non potevano riportarla indietro? Non avrebbero potuto fare come aveva fatto Orfeo - o almeno, come aveva tentato di fare?

Un sentimento di scura amarezza, come dopo aver bevuto un sorso di caffè senza zucchero, gli si era fatta ben presente nel petto. Si chiedeva perché gli dèi non si facessero mai vivi. Insomma, avevano l'eternità a disposizione e se ne stavano tranquilli sull'Olimpo, ogni tanto avrebbero anche potuto mandare un segno, fare una telefonata. Ed invece, niente.

Giovedì pomeriggio, finalmente, giunse la prima lezione di scherma della sua intera vita. Percy sperava di non cavarsela troppo male, forte delle piccole lezioni che Penelope gli aveva dato e sapendo che lei aveva passato la sua vita ad allenarsi con Luke. La rossa lo accompagnò all'arena, sostenendo che quel giorno avrebbe osservato la lezione seduta sui gradoni dell'arena.

I colpi di base si rivelarono un piccolo successo ed una piacente soddisfazione, dunque si appuntò mentalmente di ringraziare la minore dei Castellan, dopo la lezione. L'unico piccolo problema era la spada: Luke non riuscì a trovarne una che gli andasse bene, erano tutte troppo corte, troppo pesanti o troppo lunghe. Si rifiutò di lasciare che sua sorella gli prestasse la sua, sostenendo che in quel modo si sarebbe abituato male.

Le cose presero una brutta piega quando arrivò il momento dei duelli.

Luke si offrì da fargli da compagno dato che era la sua prima volta. Percy notò gli sguardi degli altri componenti della Casa Undici, presenti anche loro a lezione, e da essi intuì che avrebbe fatto meglio ad avere la fortuna dalla propria parte. Qualcuno accennò al fatto che Luke era il miglior spadaccino degli ultimi trecento anni ed un groppo di agitazione gli si formò in gola.

Il figlio di Ermes ci andò giù piuttosto pesante. Dopo stoccate, parate con lo scudo, colpi ricevuti dal piatto della lama, Percy era malconcio e madido di sudore. La mano che reggeva la spada gli tremava in modo preoccupante e gli girava un poco la testa; era la stessa sensazione di quando ci si alza troppo velocemente.

Penelope, dall'alto dei gradoni, alzò un braccio e lo sventolò in aria, come per accertarsi che lui ci vedesse ancora. In risposta, Percy sollevò debolmente la mano libera.

Tutti gli altri ragazzi si fiondarono al frigo delle bevande, posto sotto la lunga ombra di un albero. Percy agguantò una di quelle bottigliette e se ne versò il contenuto in testa, scuotendo il capo e facendo sì che le ciocche bagnate dei suoi capelli gli colpissero le tempie e la fronte. L'acqua gli scese gelida ai lati del capo e dietro al collo, insinuandosi sotto la sua maglietta e percorrendogli la schiena. Un brivido gli scosse l'intero corpo e, senza spiegarsene il motivo, si sentì subito meglio.

La spada non sembrava pesare tanto come prima, nella sua mano. La guardò, aggrottando le sopracciglia. Sollevò il braccio, sorprendendosi di come sembrasse nuovo di fabbrica. Sarà il freddo, si disse.

«Gente, in cerchio!» esclamò Luke, richiamando l'attenzione di tutti. «Vorrei darvi una piccola dimostrazione, ovviamente se a Percy non dispiace.»

Percy deglutì, nascondendo uno sbuffo.

«Quella dimostrazione?» chiese Penelope al fratello, le mani intorno alla bocca come per fare un megafono. Luke annuì e lei sorrise divertita, come una volpe. «Evita di andarci giù troppo pesante, Castellan» gli disse lei.

Grazie, Pen, pensò Percy, gentilissima e sincera.

Da come gli altri ragazzi di Ermes lo guardavano, Percy capì che in precedenza anche loro si erano trovati nella sua stessa situazione, e che ora non gli dispiaceva affatto vedere come Luke lo trattava quasi fosse un punching ball. Il biondo illustrò brevemente la tecnica di disarmo che avrebbe dimostrato, che consisteva nel piegare la lama dell'avversario con il piatto della propria, costringendolo così a gettare l'arma. Ricordò loro di come quella tecnica fosse particolarmente difficile e di quanto ci volesse per uno spadaccino ad impararla e destreggiarla bene.

Come previsto, la spada di Percy finì in terra quando Luke mostrò la manovra a rallentatore. Nessuno, grazie al cielo, rise.

«Proviamo in tempo reale» disse Luke, mettendosi nuovamente in posizione. «Andremo avanti fin quando uno di noi due non ci riesce, okay?»

Percy annuì. Strinse le dita attorno all'elsa della spada, stendendole prima e poi flettendole ancora.

In un istante il mondo divenne più nitido. Percy iniziò a percepire meglio i suoni, come se il suo udito si fosse acuito. Gli sembrava di aver appena indossato un paio di occhiali, tanto ci vedeva bene. Riusciva a prevedere le mosse di Luke, essendo così in grado di respingerle.

Fece un passo avanti e tentò un affondo. Luke lo schivò con facilità, ma l'espressione del suo viso cambiò, mutandosi in una un poco sorpresa. Strinse la punta della lingua tra i denti e sorrise, ribattendo con maggior foga.

Fu in quel meraviglioso momento di gloria che la spada iniziò a pesargli in mano. Così, Percy mandò tutto al diavolo e tentò la famigerata tecnica di disarmo.

La spada di Luke toccò terra con un clangore metallico che risuonò nell'arena, propagandosi nel silenzio come fa un grido agghiacciante.

Percy guardò esterrefatto la punta della propria spada, a davvero pochi centimetri dal petto di Luke. Gli ci vollero alcuni secondi per realizzare ciò che aveva appena fatto. Quando se ne rese conto incrociò lo sguardo stupito di Luke, che teneva le mani alzate in aria, e mosse due passi indietro, ritirando la spada e borbottando delle scuse imbarazzate.

L'espressione sbigottita di Luke fluì via quando dai gradoni si fece sentire un applauso, il clap clap delle mani ben nitido nel silenzio. Tutti si voltarono a guardare Penelope che sorrideva radiosa, le guance tinte di un vivace rosa, probabilmente fornito dal caldo.

«Per gli dèi, Percy, ma perché mi chiedi scusa?» chiese Luke, cogliendo la sua attenzione. Anche lui sorrideva. «Fammelo vedere di nuovo!»

Percy non voleva farlo nuovamente, perché lo scoppio di energia che gli si era diffuso nelle membra, quasi come una forte onda che si abbatte su uno scoglio, ormai era svanito. La spada pesava di nuovo nella sua mano. Ma il figlio di Ermes insistette, e quella volta non ci fu gara alcuna. Luke lo disarmò in un attimo.

«Fortuna del principiante?» ipotizzò una ragazza da una folta criniera di ricci neri a circondarle il viso squadrato, che portava la spada appesa al fianco.

Luke si strinse tra le spalle, passandosi poi una mano sul viso. «Non lo so. Ma mi chiedo... mi chiedo cosa sarebbe in grado di fare con una spada ben bilanciata.»

«Eroi!» esclamò Chirone, compiendo un ampio gesto con le braccia per cogliere l'attenzione di tutti i semidei e le semidee. «Conoscete le regole del nostro gioco: il ruscello è la linea di confine, l'intera foresta è campo libero, tutti gli oggetti magici sono concessi, lo stendardo deve essere collocato in bella vista e non sono consentite più di due guardie, potete disarmare i prigionieri ma non legare o imbavagliare, è vietato uccidere gli avversari.»

Il centauro scoccò uno sguardo di rimprovero ad un ragazzo di Ares e a Penelope; il primo fissò la ragazzina con rabbia, mentre la seconda alzò vistosamente gli occhi al cielo, legandosi i capelli in una coda approssimativa da cui diverse ciocche, troppo corte, sfuggirono.

Quel venerdì sera nel padiglione della mensa l'aria fremeva di entusiasmo come fosse crepitante di tanti sottili ed azzurrognoli fulmini. Stavano tutti ancora seduti sulle panche, ma diverse paia di piedi scalpitavano contro il pavimento per la frenesia, come zoccoli di un cavallo irrequieto. Tutti, nessuno escluso, avevano dipinta in viso un'espressione impaziente e soddisfatta, cosa che fece capire a Percy quanto quella partita fosse stata attesa. Penelope, ovviamente, non riusciva a stare ferma e seduta: le dita delle sue mani parevano instancabili e continuava a voltare il capo da un lato all'altro, come se cercasse disperatamente qualcosa.

Chirone elencò le ultime regole rimaste e poi, con un gran sorriso, annunciò l'inizio dei giochi.

Tutte le tavolate del padiglione si riempirono di armi: elmi, scudi dalle elaborate decorazioni, lance e spade rilucenti di bronzo alla luce delle fiaccole. Il rumore dei metalli che cozzavano tra loro riempì l'aria, accompagnato dalle risate di tutti che, frenetici, s'affrettavano per accaparrarsi l'elmo e lo scudo migliore. Penelope scoprì i denti in un grandissimo sorriso, s'allungò sul tavolo ed afferrò un elmo dal lungo pennacchio blu, che subito dopo mise in testa a Luke con una risata. Lui le passò il pettorale di un'armatura, che lei iniziò ad allacciarsi addosso.

Nerea si assicurò una faretra dalle fibbie argentee sulla spalla sinistra, alzando poi gli occhi scurissimi su di lui. Sembrò notare la sua difficoltà a trovarsi qualcosa che andasse bene, così perlustrò per pochi secondi la tavolata, per poi agguantare uno scudo grande quanto un tabellone da basket, con sopra un bel caduceo. «Ehi Lucky, questo può andar bene per Percy?» chiese, ed il ragazzo annuì.

«Ma sei seria?» le chiese Percy, prendendo lo scudo che lei gli porgeva. «E' pesante»

«Be', se non vuoi farti infilzare da Clarisse e dalla sua bella alabarda elettrificata, ti consiglierei di usarlo. I ragazzi di Ares prendono fin troppo sul serio questo gioco» replicò lei. Si aggiustò i capelli, stringendo con un ultimo giro gli elastici che le legavano le trecce, di un vistoso azzurro. Poi prese l'arco che aveva accanto e gli sorrise. «Dai, piccoletto, andiamo a divertirci»

Annabeth, che era a capo della squadra di Atena, sollevò il pugnale, sulla cui elsa aveva legato un nastrino azzurro, e richiamò l'attenzione dei membri della propria squadra. Condusse poi tutti lungo un sentiero che portava al lato Sud del bosco mentre la squadra rossa, l'avversaria, si dirigeva verso Nord.

Percy la raggiunse, chiedendosi come avesse fatto a non inciampare con quello scudo così pesante. La affiancò, guardando dove metteva i piedi. «Ehi, quale piano seguiamo?»

Lei continuò a marciare, silenziosa e con lo sguardo fisso in avanti. Aveva a volte avuto la sensazione che Annabeth lo ignorasse prontamente o che non lo prendesse mai veramente sul serio solo perché era un novellino. Questa cosa non gli andava particolarmente a genio, ma la figlia di Atena rappresentava un ottimo punto di riferimento per qualsiasi cosa, quindi faceva bene a non farsela antipatica - o almeno, questo aveva detto Penelope.

«Non hai un oggetto magico da prestarmi?» chiese ancora.

La bionda si portò rapidamente la mano alla tasca posteriore dei jeans, come se temesse che Percy le avesse appena rubato qualcosa. Evidentemente, non trovò quello che cercava, perché sgranò gli occhi e si fermò di colpo, rischiando quasi di farlo inciampare.

Pareva essere addirittura sbiancata. Si guardò intorno, si voltò, cercando sul terreno ciò che le era scomparso. Gli occhi le si erano accesi una frenesia nervosa ed un soffocante panico. E poi, dal nulla, Penelope le apparve accanto.

Percy sussultò. La figlia di Ermes era letteralmente apparsa dal nulla davanti a lui ed Annabeth. Sorrideva divertita, un ghigno da volpe sul viso, ed aveva in mano un berretto da baseball blu, degli Yankees.

Annabeth l'avrebbe presa a parolacce, Percy se lo sentiva. La bionda guardò la rossa, stringendo le labbra e i pugni in un'espressione furiosa. Poi però tutta quella rabbia sembrò scemare d'improvviso, come se ci fosse stato qualcos'altro a convincerla. Si riprese il berretto con un gesto brusco e lo calcò bene nella tasca dei pantaloni, le labbra ancora serrate in una linea perfettamente dritta.

«Come accidenti hai fatto?!» sbottò Percy, che aveva ancora la bocca spalancata. «Tu sei... sei apparsa dal nulla... dov'eri, dèi, ma che cavolo...»

Penelope rise, reclinando il capo all'indietro e scoprendo la candida pelle del collo. Annabeth, ancora un po' imbronciata, tentò di nascondere un sorriso piccolo come un frammento di conchiglia che le era spuntato sulle labbra. Sembravano entrambe prendersi gioco di lui e della sua incredulità, come se fosse normale apparire dal nulla nel bel mezzo delle ombre di un bosco.

«E' una dannata cleptomane, ecco come ha fatto» borbottò Annabeth, fulminando Penelope.

Percy notò una cosa che gli parve piuttosto strana. Per una settimana buona aveva visto quelle due ragazzine litigare e bisticciare in continuazione, lanciarsi sguardi ricolmi d'odio e sopportarsi ben poco. Eppure, in quel momento, era come se l'antipatia tra loro due fosse totalmente svanita: sorridevano come se fosse tutto a posto. Per un attimo credette di star avendo le allucinazioni.

Annabeth era solita guardare Penelope per alcuni istanti, gli occhi grigi fissi su di lei ad osservare il modo in cui si muoveva. Ma, ogni volta che questo accadeva, le sue iridi erano solo colme di un sentimento freddo come ghiaccio. In quell'occasione era tutto diverso.

«Guarda che la cleptomania è un disturbo, non qualcosa su cui scherzare» affermò Penelope.

Annabeth inarcò un sopracciglio.

Penelope sbuffò, alzando le mani. «Sì, okay, sono cleptomane. Ma il tuo berretto è così invitante e particolare... è legittimo da parte mia rubarlo»

Annabeth borbottò un "come no", voltandosi poi verso Percy. Aggrottò le sopracciglia nel vedere la sua espressione. «Perché hai quella faccia?»

«Mi chiedo semplicemente perché voi due stiate andando d'amore e d'accordo»

A quella sua risposta Penelope rise di nuovo. Guardò Annabeth e, con un gesto all'apparenza così naturale, le sistemò una cinghia dell'armatura che si era allentata. «Hai presente l'alleanza temporanea tra Atena ed Ermes? Ecco perché non litighiamo. Non voglio che Luke si arrabbi, non di nuovo. E poi scusa, provi gusto a vederci litigare, Jackson?»

Percy spostò il peso da un piede all'altro. «No, no. Mi chiedevo solo se vi avessero fatto un incantesimo o qualcosa del genere, tutto qui»

Annabeth fece una smorfia che lui non comprese, un po' sofferta. «Luke ti ha dato il tuo incarico?»

«Sì, sono di pattuglia al confine» rispose «qualsiasi cosa significhi»

«E' semplice. Devi solo restare al ruscello e tenere la squadra rossa alla larga. Per il resto, lascia fare a noi. Atena ha sempre un piano ed Ermes sempre gli strumenti per realizzarlo». Detto questo riprese a camminare, lasciando lui lì con Penelope.

«Non pensi che una di noi due dovrebbe restare con lui?» le chiese la rossa, rigirandosi la sua fish da poker tra le dita.

Annabeth si fermò e si voltò, il pugnale già stretto in mano. Guardò Percy, studiando il modo in cui reggeva lo scudo. Lui, di riflesso, rafforzò la presa che aveva sulle cinghie di quest'ultimo. «No, non credo. E poi tu hai qualcos'altro da fare. Va' verso Ovest, come avevamo detto»

Si cavò fuori dalla tasca il berretto, lo stese e se lo calò sui riccioli biondi. La sua pelle brillò per un attimo, quasi si fosse trasformata in un gioiello che luccica al sole. E poi, era scomparsa.

Percy aveva, di nuovo, la bocca spalancata. «Ma come...»

Penelope gli agitò le mani davanti al viso, con ancora quel ghigno divertito dipinto sulle labbra sottili. «Magia». Gli fece l'occhiolino ed una fossetta le spuntò sulla guancia destra. Poi, scomparve anche lei tra le lunghe ombre degli alberi. Un lampo di luce bianca, questo fu l'ultimo segno della sua presenza. Tutto ciò che restò da quel suo sprint di corsa fu la polvere e le foglie che i suoi piedi avevano sollevato.

Percy sbuffò: quelle ragazze lo avrebbero fatto impazzire, prima o poi.

"A morte il pivello!". Questo, questo avevano detto. A morte il pivello.

E Percy stava davvero per morire. Anzi, era sicuro almeno al 98,99% di star morendo.

La sua testa pareva galleggiare, come un palloncino posato sulla superficie dell'acqua increspata dal vento, ed il fatto che del sangue caldo gli stesse velocemente colando lungo il braccio non aiutava per nulla. Più guardava quel taglio, poco sotto la spalla, più la sua vista si offuscava. Le risate di Clarisse e di quei brutti ceffi suoi amici gli rimbombavano nelle orecchie, dandogli la sensazione di trovarsi all'interno di una cattedrale.

«Vietato ferire...» ricordò loro, mentre li guardava sbellicarsi dalle risate. Uno di loro talmente stava ridendo che s'era piegato in due e si teneva la pancia con le mani, premendole contro il proprio addome. Un altro, invece, era rosso in viso.

Il tipo che l'aveva ferito al braccio si strinse tra le spalle, con un finta espressione mortificata. Poi, con un sorriso meschino, gli diede una spinta e lui cadde all'indietro, nel ruscello che gli scorreva vicino ai piedi; l'acqua era fredda ed il taglio sul braccio prese subito a bruciare.

Immediatamente il pensiero del suo sangue che si mescolava con l'acqua del ruscello gli sfiorò la mente, fulmineo, e lui arrivò sul serio a pensare che quella fosse l'ultima volta in cui vedeva il mondo. Si chiese cosa sarebbe successo a quei cinque deficienti quando avrebbero trovato il suo cadavere. Mentre pensava a questo, immaginando con piacere il momento in cui sarebbero stati puniti per quell'omicidio premeditato, accadde qualcosa di inaspettato.

Gli era già successo, in realtà, quel giorno ai bagni, ed anche il pomeriggio prima, quando si era buttato l'acqua in testa. Solo che... be', non si aspettava che accadesse di nuovo, soprattutto con quella velocità.

Fu come se qualcuno gli avesse schioccato le dita vicino alle orecchie, come ormai Penelope aveva preso la tremenda abitudine di fare. Ebbe quasi la sensazione di aver appena mandato già una decina di tazze colme di caffè fino all'orlo. I suoi sensi si risvegliarono, le braccia smisero di fargli male, il cuore prese a corrergli con più frenesia nel petto.

Clarisse ed i suoi entrarono nel ruscello per agguantarlo, ma lui schizzò in piedi e restò lì ad aspettarli. Non capiva come fosse possibile, ma sapeva esattamente cosa fare.

Mandò il primo ragazzo al tappeto battendogli il piatto della lama sull'elmo. Il metallo gli vibrò sul capo mentre l'elmo schizzava via e lui crollava in acqua, stordito. Colpì il Ceffo Numero Due con lo scudo, sul naso, udendo subito dopo un terrificante lamento di dolore e il suono di qualcosa che si rompeva; doveva avergli rotto il setto nasale e ne restò soddisfatto. Al Ceffo Numero Tre tagliò di netto il pennacchio rosso dell'elmo, causandogli un'espressione esterrefatta. Entrambi se la diedero a gambe, accompagnati dalle grida di sdegno di Clarisse. L'ultimo ceffo, un ragazzo dal viso squadrato e il naso aquilino, non sembrava avere molta voglia di attaccare.

Clarisse, al contrario, pareva ardere di fiamme rossastre. Letteralmente. Come se la rabbia che le bruciava dentro si stesse accumulando sotto il sottile strato della sua pelle, scottando ogni cosa. La punta della sua lancia crepitava di elettricità. Si slanciò in un affondo, ma Percy fu più veloce.

Bloccò la punta della lancia tra la propria spada e lo scudo che portava, diede uno strattone verso destra e la lancia si spezzò come un ramoscello troppo sottile.

«Ah! Verme schifoso!» gridò la figlia di Ares, indignata. «Maledetto! Va' al Tarta-»

Avrebbe concluso quella sua frase e sicuramente detto di peggio, ma fu interrotta dal colpo che Percy le assestò in mezzo agli occhi, con l'elsa della spada. La ragazza mollò la presa che aveva sulla metà di lancia che le era rimasta in mano, portandosi l'altra al viso ed indietreggiando fino ad uscire dal ruscello.

Poi, un'esclamazione esultante. Dalle ombre del bosco Luke uscì correndo, stretto in mano lo stendardo della squadra rossa e diretto alla linea di confine. Due altri ragazzi lo seguivano coprendogli le spalle, ma sembravano affaticati, come se il figlio di Ermes corresse troppo veloce per loro. Percy pensò fosse una cosa di famiglia.

Luke lanciò in aria lo stendardo, come a dire "vediamo chi riesce a prenderlo!". Percy capì subito che era un trucchetto, una piccola presa in giro. Clarisse, in un fin troppo vano tentativo, si slanciò in avanti, oltre il ruscello, le braccia tese verso l'alto. Ma qualcuno fu più veloce di lei, di nuovo. Per quello che Percy riuscì a vedere, fu solamente aria che si spostava e una macchia di colori che passava, fulminea, davanti a lui ed alla figlia di Ares.

Ma poi in territorio amico apparve Penelope, i capelli ormai sciolti ed in disordine. Sorrideva soddisfatta, con gli occhi che luccicavano azzurri nella luce del crepuscolo, sventolando in aria lo stendardo. In uno scintillio questo passò dal raffigurare un cinghiale ed una lancia su fondo rosso, simboli di Ares, allo sfoggiare un bel caduceo su fondo color argento.

Luke affiancò Penelope e lei gli porse nuovamente lo stendardo. Il ragazzo lo sollevò in alto, una risata che gli attraversava il viso. A loro volta i figli di Ermes vennero sollevati, tirati su dagli altri ragazzi della squadra azzurra, che esultavano in trionfo. Chirone sbucò fuori dal bosco al trotto, soffiando poi in una conchiglia bianca e rilucente. La partita era finita e la sua squadra aveva vinto.

Percy stava per unirsi ai festeggiamenti, quando una voce alla sua sinistra quasi lo fece sussultare.

«Niente male, piccolo eroe». Era Annabeth.

Percy si voltò, ma della figlia di Atena non v'era alcuna traccia.

«Dove accidenti hai imparato a batterti in quel modo, si può sapere?» disse ancora. Un luccichio nell'aria, come quello che Percy aveva visto prima dell'inizio della partita, e la bionda gli apparve di fronte, un sorrisetto sulle labbra e il berretto da baseball in mano.

Percy, a vederla, si sentì la rabbia montar dentro. Lei era stata lì per tutto il tempo, a guardarlo mentre Clarisse e i suoi amici se la prendevano con lui, e non aveva fatto assolutamente nulla per aiutarlo. Gettò in terra lo scudo e strinse con furia i pugni. «Lo hai fatto apposta. Mi hai posizionato qui perché sapevi che Clarisse sarebbe venuta a cercarmi. Lo hai fatto apposta»

Annabeth si strinse tra le spalle. «Te l'ho detto: Atena ha sempre un piano»

«Sì, un piano per farmi polverizzare»

«Guarda che ho fatto più in fretta che ho potuto. Quando sono arrivata, però...» lo scrutò attentamente, le iridi grige vorticanti come nuvoloni «... non avevi bisogno di aiuto». I suoi occhi scattarono sulla ferita che Percy aveva sul braccio e che, stranamente, non gli faceva più tanto male. La bionda aggrottò le sopracciglia. «Come hai fatto?»

Stavolta fu Percy quello a stringersi tra le spalle. «E' solo una ferita da taglio»

«No» replicò lei «quella era una ferita da taglio»

Percy abbassò il proprio sguardo al punto in cui s'era aperta la ferita e poté constatare che Annabeth aveva ragione - col passare del tempo, avrebbe imparato che lei aveva quasi sempre ragione.

Il sangue era sparito, ad eccezione di quello che ancora gli bagnava la manica della maglietta e che era rimasto sul tessuto dopo il bagnetto nel ruscello. Sulla sua pelle restava solamente un graffio bianco e spesso, che piano piano stava svanendo come se qualcuno lo stesse lavando via. Si rimpicciolì, divenendo semplicemente una piccola cicatrice, e poi scomparve del tutto.

Annabeth disse qualcosa in greco antico, una sorta di innocua imprecazione rivolta a qualche dio minore. Talmente ragionava in fretta che lui era quasi in grado di vedere gli ingranaggi del suo cervello lavorare oltre le sue ossa craniche, veloci, come quelli di un macchinario che accendendosi emette vapore sbuffando. La bionda puntò lo sguardo sui suoi piedi.

«Esci dall'acqua, Percy»

«Perché?»

«Esci dall'acqua»

Percy sospirò, facendo come lei diceva. Ma non appena mosse un passo fuori dal ruscello e il suo piede toccò il terreno, si sentì prosciugato di ogni forza che gli si agitava in corpo. Le spalle si curvarono, gravate da troppa stanchezza. Le braccia gli divennero insensibili e le ginocchia gli cedettero. Annabeth fece appena in tempo a reggerlo in piedi prima che cadesse in terra.

«Oh, Stige» imprecò lei sottovoce, il suono appena appena adagiato sulle sua labbra. «Io non credevo... pensavo fosse Zeus...»

Percy era troppo stanco e troppo stordito per ragionare sulle sue parole. Le si appoggiò addosso, ponendo il suo peso nella presa di Annabeth per non finire a terra. Si sentiva le ginocchia di gelatina e la testa aveva ripreso a vorticargli con violenza.

Una mano assurdamente fredda gli strinse la carne poco sopra al gomito destro, poi una seconda gli passò attorno al busto, sorreggendolo a sua volta. «Stava bene» disse la voce di Penelope vicino al suo orecchio destro, il tono velato di preoccupazione. «Cosa gli è successo?»

Prima che Annabeth potesse risponderle, quel ringhio canino che Percy aveva sentito pochi minuti prima, quando era solo, riempì nuovamente la piccola radura. Le esclamazioni contente si estinsero all'istante e il silenzio piombò addosso a tutti loro. Sia Penelope che Annabeth restarono immobili, il sangue che pareva essersi gelato nelle loro vene.

«Tenetevi pronti! Il mio arco!» gridò Chirone in greco antico.

Annabeth lasciò la presa che aveva su di lui, lasciandolo nelle mani di Penelope, e sguainò la spada. La figlia di Ermes si girò in mano quella fish che Percy le aveva visto tra le dita così tante volte, ottenendo così la sua spada. Lo guardò e lo lasciò andare, negli occhi visibile la speranza che riuscisse a restare in piedi da solo.

In cima ad un mucchio di rocce grigiastre, stava un massiccio segugio nero come le tenebre e grosso quanto un rinoceronte. Aveva gli occhi rossi come lava incandescente e denti lunghi come pugnali, rilucenti di bianco nella penombra degli alberi.

Ed aveva gli occhi fissi su Percy.

Annabeth gli strillò: «Scappa!»

Sia lei che Penelope tentarono di mettersi davanti a lui, ma non fecero in tempo. Il segugio balzò in avanti e gli si slanciò addosso, come un'ombra gigantesca che divora l'ultimo spicchio di luce rimasto.

Percy cadde all'indietro sotto al peso del grosso animale, mentre gli artigli di questo gli trapassavano l'armatura. Una dolore pungente come ortica gli si espanse sul petto, seguito subito da un liquido caldo che lui sapeva essere sangue. Una cascata di colpi sordi gli riempì l'udito - o almeno, ciò che ne restava, perché il cuore gli batteva così forte da impedirgli di sentire altro - e sul collo del segugio apparve una corona di frecce.

Il mostro gli cadde accanto, morto.

Il primo viso che Percy vide nuovamente fu quello di Nerea. I dolci lineamenti, ora un poco sfocati, si stagliavano contro le scure chiome degli alberi, in alto. Era bellina anche così, con il viso contratto dalla preoccupazione e le guance rosse come lamponi. Una voce femminile gridò qualcosa riguardo all'acqua che lui non fu in grado di cogliere. Nerea gli passò le mani sotto le ascelle e lo trascinò verso il ruscello, senza il minimo segno di sforzo nel viso.

Altri visi entrarono nel suo campo visivo, sfocati come corpi sott'acqua.

L'acqua parve carezzare la sua pelle come farebbe una madre, con quella dolcezza che solo qualcuno di amato donerebbe. Chiuse gli occhi, sentendo le energie tornare a popolare le sue membra. Il suono dell'acqua che scorreva era così dolce, come una ninnananna.

«L'ha evocato lui! E' colpa sua? E' stato Percy!» esclamò rabbiosa una voce, colpendo il suo udito con una forza inaspettata. Trasalì, spalancando gli occhi.

«Fa' silenzio, Clarisse» ribatté una seconda voce a lui sconosciuta.

Nerea sorrise nel vederlo con gli occhi aperti. Lui fissò lo sguardo nel suo, nero come la notte. Così nero da volercisi perdere all'interno. «Tutto okay?»

«Credo di sì» rispose lui. Sollevò la testa, trovandosi accanto Penelope, Annabeth, Luke e Chirone. Intorno a loro, ora che la sua vista era tornata a funzionare per bene, riuscì a vedere che tutti gli altri campeggiatori si erano riuniti in semicerchio, le armi dimenticate nelle mani.

Si guardò il petto, temendo il momento in cui vi avrebbe trovato sopra tutto quel sangue. Ma, come era successo in precedenza per il taglio sul braccio, il brutto squarcio che gli artigli del segugio avevano aperto si stava chiudendo. Via, lavato dall'acqua come colore sulle mani di un pittore.

Percy si rialzò in piedi, le mani che gli tremavano. Guardò tutti gli altri intorno a lui, molti dei quali avevano le bocche spalancate. «Davvero, non so perché mi succede questo»

Ma non stavano più prestando attenzione né a lui né alle sue parole. Fissavano qualcosa, qualcosa che si trovava sopra la sua testa.

Quando sollevò lo sguardo, l'ologramma di una lancia verde e luccicante, a tre punte, roteava sulla sua testa, svanendo velocemente. Era un tridente.

«Determinato» annunciò Chirone, funereo.

Tutti i campeggiatori s'inginocchiarono sotto ai suoi occhi, ponendo un pugno contro il terreno e posando l'altra mano sul ginocchio piegato, in una sorta di rispettoso inchino.

Il cuore di Percy batteva così velocemente che lui quasi non se lo sentiva più nel petto. Non aveva nemmeno abbastanza coscienza per parlare, tanto era sconvolto.

«Devo dieci dollari a Rea» borbottò Penelope nel silenzio tombale che era calato su tutta la radura. Era l'unica con il capo ancora rivolto verso l'alto, il labbro inferiore che quasi le tremava. «Era la vecchia Seppia»

Percy non credeva di essere ancora in grado di parlare. «Chi?»

«Poseidone» specificò Chirone, funereo. «Scuotitore della Terra e delle Lande Marine, Signore dei Cavalli. Ave, Perseus Jackson, figlio del dio del mare».

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