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01. La destra e la sinistra

 ⊰ PENELOPE ⊱

                    LA TIEPIDA LUCE SOLARE s'allungava verso di lei come desiderose dita, attraverso le tapparelle ancor chiuse della finestra accanto al suo letto. Era l'alba e lei giaceva silente tra le lenzuola. Ascoltava i fruscii del sonno dei suoi compagni di Casa. Le palpebre le gravavano sugli occhi, gonfie di sonno e stanchezza. La voglia d'addormentarsi, tuttavia, mancava.

Non sapeva nemmeno lei il perché. Forse aveva paura di capitare nuovamente tra le braccia del mare, come ormai quasi sempre lei decideva. Nessuna scelta era più sua, persino i suoi sogni erano soggetti alle decisioni di qualcun altro.

La Casa Undici era immersa nel silenzio, l'aria satura dello stantio odore di chiuso e del soffocante calore di una stanza in cui l'aria circola poco o niente. Dannate fossero quelle tapparelle — Penelope aveva sempre detto che andavano cambiate.

Il soffice tessuto delle lenzuola sfiorava la sua pelle e le faceva un impercettibile solletico. Il caldo le incollava i capelli alla nuca e dietro le orecchie, le scorreva nel sangue e le appesantiva le membra rendendole come forgiate nel ferro. Il pelo grigiastro del suo procione di peluche, unica reliquia di tanto tempo prima, odorava d'infanzia. Il suo naso vi sprofondava attraverso.

Se ne stava sdraiata sulla pancia, la spina dorsale che pareva schiacciarla sul materasso con un peso innaturale e le braccia incrociate sotto al mento. Tra il suo viso ed i suoi avambracci, stringeva il procione.

Non gli aveva mai dato un vero nome, forse perché lo aveva da tempo immemorabile non era mai riuscita a trovargliene uno. Con un silente sospiro, si tirò un poco più su, puntellandosi sui gomiti, e lo prese tra le mani. Passò con delicatezza le dita fra i soffici ciuffi del suo pelo. Gli occhi erano due perline nere come la pece e Penelope ricordava che da bambina era in grado di vedere in essi il dolce bagliore di una luce calorosa, come se fossero luccicanti di vita.

Puntò lo sguardo in quegli inanimati occhi, che ora vedeva solamente come due sfere di plastica, scavando e scavando nella loro oscurità alla ricerca di un nome che potesse esser adatto al loro proprietario. La ricerca non fruttò un bel niente, così tornò nella posizione iniziale.

Fissava le tapparelle schiarirsi man mano che il sole s'innalzava, le travi del pavimento in legno consumato rigato dal sole come il manto di una zebra, le scarpe abbandonate e slacciate accanto al letto, senza guardare nulla veramente. Pensava ad altro ed i suoi pensieri fluivano con lentezza, scorrendo come un debole rigo d'acqua tra la terra, troppo flebile per dar vita ad un ruscello. Seguivano il cadenzato e lento ritmo del suo respiro, che le espandeva la cassa toracica e le schiacciava lo sterno contro il materasso.

Non avrebbe saputo propriamente dare un'entità a quei pensieri, poiché essi vagavano senza meta, deambulando come fanno le nuvole nel cielo durante una piatta giornata di pieno sole.

Non riusciva a dormire, o forse, come già detto prima, non voleva dormire. Dopotutto, l'ultima conversazione — che poi, conversazione, più un litigio — avuto con lei non era stato particolarmente piacevole. Sembrava non capire che un no era un no.

Eppure, tremila e passa anni d'età dovrebbero insegnarti una cosa semplice come quella.

Iniziò a chiedersi cosa avrebbe dovuto fare in giornata. V'erano l'allenamento di tiro con l'arco subito dopo colazione, allenamento che avrebbe con piacere saltato (lo odiava: ogni volta rischiava di ammazzare qualcuno); in mattinata, poi, Katie Gardner le aveva chiesto se avesse avuto interesse ad assistere a qualche lezione di botanica e lei aveva accettato di buon grado; avrebbe saltato anche la lezione di equitazione, già che c'era — i cavalli non le stavano simpatici.

Che poi, era sicura che se Chirone l'avesse vista mettere piede fuori dalla Casa Undici le avrebbe riempito la testa con una paternale sul fatto che non dovesse fare alcuno sforzo, anche se la ferita era quasi del tutto guarita. Meglio per lei, si disse.

Così, togliendo gli intervalli del pranzo e del break tra una lezione ed un'altra, non le restava nulla da fare.

Si girò con uno sbuffo appesantito, essendosi stufata della posizione in cui stava. La schiena pizzicò come punta da un'ortica, ma nulla di più.

Stese in aria le braccia, tornando a guardare in viso il suo procione. La testa del pupazzo penzolò pigramente verso il basso, inanimata. A muoverlo, i sonaglini racchiusi nella sua testa producevano un piacevole rumore, ma non s'azzardò, non in quel momento.

Proprio non riusciva a trovargli un nome.

Billy. No. Bud. No. Bip Bip. No. Che poi, per forza con la "b"? Caramel. Nah. Kurt. Mh, come Kurt Cobain. No, non gli calza. Emmett. No, assolutamente no. Perché ci ho pensato? Ma siamo sicuri sia un maschio? Arabella. No, ti prego, no. Effie. Estella. Lina. Lila. No, è un maschio. Flash. Fitz. Gandalf! No, niente Gandalf. Esiste un procione famoso? Com'era, quello di quel film...? Schiaccianoci? No, per gli dèi, non è uno scoiattolo.

Se lo strinse al petto, reclinando all'indietro il capo in uno sbuffo spazientito.

Darsi del tu era più facile e veloce.

In quasi sei mesi, le aveva provate tutte, per addormentarsi. Farsi cantare una ninna nanna da un figlio di Apollo; mandare giù uno strano intruglio, a detta di Joy Blight (Demetra) miracoloso; chiedere a Malcolm di spiegarle la cosa più noiosa che sapeva; provare a contare le pecorelle e poi pure le caprette... e la lista potrebbe andar avanti per decadi.

Tuttavia, le uniche volte in cui ci riusciva sul serio era quando lei decideva che era la serata giusta per farsi una chiaccherata.

Ed allora, forse, avrebbe potuto provare a chiamarla. A chiederle di parlare un poco. Almeno, qualunque sarebbe stata l'entità della loro conversazione — aveva il sospetto che le avrebbe di nuovo chiesto la stessa identica cosa — sarebbe riuscita a dormire quelle tre ore buone che le servivano.

Allora, chiuse gli occhi.

Come prima cosa, s'occupò di svuotare la propria mente. Attività non semplice, perché, come già detto, vi correva di tutto. Cercò di risucchiare ogni pensiero che le si agitava oltre le ossa craniche, di racchiuderli tutti in un barattolo e stringere bene il coperchio. Dopo qualche tentativo, vi riuscì.

Il secondo passo era chiamare il suo nome. Che poi, non sapeva veramente quale fosse il secondo passo, poiché quella era la prima volta che chiamava. Presumibilmente però, doveva esser quello. Si stampò le lettere in testa, oltre la fronte, una per una ad una lentezza disarmante. Erano solo quattro. Una volta che le ebbe lì, tutte insieme e vividissime nel buio della sua mente, la chiamò.

Pensò, pensò quel nome un'infinità di volte, così tante che le ci volle poco per perdere il conto. La chiamò, nel suo pensiero e con una voce che trattenne in bocca, annodata alla sua lingua. Spinse verso il basso quel nome, dirigendolo nel suo sterno con un respiro, per poi ricacciarlo in alto, oltre le fragili ossa e cartilagini del suo viso. Lasciò che s'espandesse ovunque, che le prendesse a scorrere tra i capillari e che le si annidasse sotto le palpebre. Quelle quattro, marmoree lettere scavarono in profondità e misero forti radici, che s'avvinghiarono con fermezza ad ogni volubile entità che la sua testa ospitava. Occuparono spazio, conquistarono terreno e resero proprio ogni anfratto di quella sua mente viscosa come una pozza di fanghiglia.

Teti, chiamò.

Le lettere presero ogni cosa e la sua mente s'illuminò di bianco.

La sensazione era la stessa di quando era lei a chiamare, lo stesso percepirsi come costituita di tante, piccole ed argentee bollicine, le stesse che lasciano le labbra in un respiro donato al mare. Avrebbe potuto passarsi una mano addosso e percepire la fragilissima superficie dell'acqua, pronta ad infrangersi in qualsiasi istante. Articolò le proprie dita, strinse e ruotò le spalle, s'alzò sulle punte, chiuse gli occhi, smosse ogni muscolo e scrocchiò ogni cartilagine, sentendosi libera come le correnti dell'oceano.

Le pareva di non aver forma, margini, limiti.

Ogni respiro era il sollievo dell'istante in cui si rilascia finalmente tutta quell'aria che s'era trattenuta sott'acqua.

Aveva imparato a nuotare.

Aprì gli occhi aspettandosi il solito abbraccio delle onde, quel cerchio di sabbia nel bel mezzo delle acque più basse, ma vi trovò tutt'altro posto. Quella volta poi, lei non c'era.

La strada era un bivio, s'apriva in due come le braccia che s'allargano per far spazio ad una stretta. Vi sorgeva al centro un fiorente albero, dalla lunga chioma ed il possente tronco. Era un salice. Le due strade erano differenti e così erano i luoghi verso cui si dirigevano ed i luoghi che v'erano intorno ad esse.

La strada di sinistra era asfaltata, diritta e liscia, un piacere per la guida. Intorno si estendevano illimitati e dorati e vermigli campi di grano e di papaveri; pareva d'essere in un quadro. Puntare lo sguardo in tale direzione significava cercare l'orizzonte con gli occhi, bramare quello scintillante luogo in cui il sole si tuffava e dal quale ogni giorno sorgeva. Il sole indorava ogni cosa e brillava sulle spighe di grano che danzavano nella brezza. Il cielo era di quell'azzurro limpido e sereno, privo di nuvole, così maestoso da far annodare lo stomaco.

Penelope voltò il capo a fatica, catturata dal bellezza di quel posto.

La strada di destra le causò un tuffo al cuore. Era una strada accidentata, sterrata e piena di dossi e buche. I campi erano come l'erba secca, la terra troppo chiara per essere fertile e le poche spighe di grano rimaste curve verso il basso come gravate dalla vecchiaia. Volse lo sguardo verso la fine di quella strada, accorgendosi che la fine non v'era. Al contrario della prima via, ch'era limpida, una torbida massa di nubi oscurava la vista che osava spingersi troppo in là. Guardare in quella direzione era puntare gli occhi su una città vuota di respiri e parole, vuota di notte e di giorno, vuota di ogni cosa che potrebbe darle lo scintillio della vita. Il cielo era grigio e greve di nubi come prima di un burrascoso temporale.

Scossa da quella visione così diversa dalla precedente, Penelope distolse lo sguardo.

Guardò l'albero e le parve troppo fuori posto, così vicino alla strada di destra. Il suo tronco ed i suoi rami pendevano verso quest'ultima, come se fossero girasoli assetati di luce. Sembravano spingersi verso la destra, le radici stesse erano più concentrate in quella direzione. Nella forma del tronco, le parve quasi di scorgere la figura di un uomo che s'allunga con ogni sua forza verso l'unica cosa che può tenerlo in vita.

Penelope aggrottò le sopracciglia. Che fosse finita in un luogo sbagliato perché non era stata lei a chiamarla? Dove si trovava? La sensazione era la stessa e dunque doveva esser stata lei a portarla lì. Ma, perché?

Tra le sue tempie s'accese la crepitante energia di un pensiero, azzurrognola come un fulmine che piove dal cielo. Udì la sua voce dirle che doveva cercare da sola le proprie risposte, e non attender sempre che fossero gli altri a fornirgliele.

Così, s'avvicinò all'albero.

Nonostante si sentisse fortemente attratta dalla strada di sinistra, come una calamita dalla sua metà, non credeva fosse una buona idea avventurarsi da quella parte. La cosa migliore da fare, ora che non aveva risposte, era restare al centro.

L'erba era, da una parte, soffice e verde come smeraldi, dall'altra secca, gialla e pungente. Camminava tendendo prima da un lato poi da un altro, i piedi posti esattamente sulla linea in cui i due terreni andavano ad incontrarsi.

Raggiunto l'albero scostò alcuni dei suoi lunghi rami, colta dal profumo di terra bagnata, come dopo un acquazzone. Come aveva già notato in precedenza, il tronco pareva racchiudere la figura di qualcuno. Ora che era più vicina, si rese conto che era una donna.

Ricercò nella sua memoria un mito od una leggenda legata all'albero di salice. Le ci volle poco. Fetonte, figlio di Elio, era stato sfidato da un suo coetaneo a dimostrare la sua semidivinità. Aveva così ottenuto il permesso dal padre di guidare il carro del Sole di Apollo per un giorno. Giovane ed avventato però, Fetonte aveva perso il controllo delle redini e dei cavalli ed era precipitato a terra, incendiando ogni cosa. Zeus, furioso per la devastazione causata, lo aveva fulminato e fatto cadere nel fiume Eridano, da qualche parte nel nord dell'Italia. Le sorelle del ragazzo, apprendendo la notizia, avevano pianto così tanto che s'erano trasformate in salici piangenti.

Si chiese come mai proprio un salice si trovasse in mezzo a quel bivio, sporto verso la destra. Qual era il collegamento col mito di Fetonte?

Forse, si disse, la risposta l'avrebbe trovata osservando le due strade. Si volse di fretta, distanziandosi un poco dall'albero e volgendo lo sguardo alle due vie. Strofinò i piedi nudi contro il terreno, saziando prima l'erba secca poi quella fiorente. Doveva esserci un senso, doveva.

Era stata lei a portarla lì, quindi doveva essere legato a qualcosa che le aveva detto. Pensò, pensò e pensò, rivivendo nella sua memoria ogni conversazione avuta con la dea. Alla fine, la lampadina le si accese oltre le tempie.

Volse di scatto lo sguardo a sinistra, spingendo gli occhi fino a dove riusciva. Intravide, nello scintillio del sole, la tremolante figura di un monte, o forse era un'isola, inghiottita dall'azzurro del cielo. Immediatamente capì.

No, no, no e no.

Impossibile era, le aveva già dato innumerevoli risposte negative. Sbatté un piede contro il terreno, irata, per quell'ennesimo imbroglio. Aveva provato a contattarla, e lo sapeva, lo sapeva che sarebbe finita in quel modo.

"Su, Penelope, non arrabbiarti con me" parlò una voce nella distanza, la sua voce, come un'eco che si perdere all'infinito.

Non dovrei?, pensò lei, cosciente che l'avrebbe sentita comunque. Mi hai posto la stessa domanda di sempre, solo con un po' più di creatività. Questa volta siamo andate con le domande indirette!

"La mia non è solo la solita richiesta", replicò la voce della dea, dolce e calma come sempre. "Si tratta anche di un avvertimento."

Certo, il solito, vero? Sei venuta a dirmi che se accettassi potrei vivere felice, lontana dal dolore, dai guai, dalla vita rischiosa che hanno i semidei.

"Staresti lontana dalla guerra" aggiunse.

Penelope sbuffò, sia nel suo pensiero che dalle labbra. Credimi, non ci sarà una guerra.

"Come puoi esserne certa?"

Si sentì tremare le labbra e seppe in un istante che anche lei s'era accorta del fremere della sua coscienza. Sarò io a fermarla, affermò. Fermerò la guerra. Lo troverò e gli farò cambiare idea. Gli farò capire che tutto questo è una follia. Lo riporterò... lo riporterò a casa.

La udì sospirare e le fronde del salice si smossero come accarezzate dal vento. "Penelope, Penelope... determinata a fare tutto quando-"

Quando non potresti fare niente?, la interruppe. Strizzò le palpebre per mandar via il luccichio dei suoi occhi. Brava, vieni a dirmi che non so fare niente. Sei molto incoraggiante, sai? Be', credici o no: ci riuscirò. Fermerò questa guerra ancor prima che nasca.

"La guerra è già nata, mia cara" affermò dopo un breve silenzio, la voce cupa di tristezza. "E' già iniziata, e non manca molto prima che ti colpisca. Non voglio che finisca nello stesso modo..."

Non accadrà. Si sentì un nodo alla gola per la tristezza con cui la dea aveva parlato. Non finirà così, te lo posso giurare. Devo solo riportarlo qui, nient'altro.

"Tu credi che non ci sia nient'altro," la ammonì "ma ci sono fin troppe cose di mezzo. Cose che tu ancora non capisci, che non..."

Incrociò le braccia al petto nell'insistenza di udire la fine di quella frase non conclusa. Se ci sono cose non capisco, perché non me le spieghi? Così sarebbe tutto risolto!

"Non sta a me spiegarti, è questo il problema."

E chi potrebbe?

La dea esitò e per quell'istante di un respiro trattenuto la brezza cessò del tutto. "Nessuno, nessuno potrebbe."

Penelope sbuffò sonoramente. Il suo sguardo era ancora puntato verso la strada sulla sinistra, verso i dorati campi di grano e i bellissimi papaveri. Le aveva detto che, se avesse accettato, avrebbe potuto vivere in eterno. Avrebbe avuto compagnia, una meravigliosa compagnia. La sua casa sarebbe stata un paradiso in terra, un posto dove il sole non manca mai e dove la sera ci si addormenta col suono delle onde sugli scogli e sulla battigia. Sarebbe rimasta lontana da ogni cosa, da ogni dolore che il mondo mortale avrebbe potuto infliggerle.

Ma lei non voleva questo. Non voleva cessare di vivere, perché vivere in eterno quello sarebbe stato. Non voleva restare isolata, lontana da ogni cosa, lontana dalle persone che amava. E poi, sapeva che non sarebbe mai riuscita ad andare avanti con l'ardente bisogno di riportarlo a casa.

Teti non ci credeva, che lei ci sarebbe riuscita. Le diceva ogni volta che era un'impresa impossibile, che nessuno sarebbe riuscito a smuovergli il pensiero. Ma lei lo sapeva, lo sapeva, che lo avrebbe fatto. Era sua sorella, l'unica persona che conosceva veramente la sua testa ed il suo cuore.

"Non conoscerai mai veramente qualcuno, Penelope" disse la dea, ripetendo quella frase che fin troppe volte le aveva detto.

Lei conosceva Luke. Lo conosceva come conosceva i palmi delle sue mani, i lineamenti del suo viso e le tante, glaciali sfumature dei suoi occhi. Guardarsi allo specchio era guardare lui in viso.

In quegli ultimi mesi, però, non era stato così. Guardarsi allo specchio non esisteva nemmeno più come opzione, perché nel suo viso Penelope avrebbe rivisto quello di suo fratello.

Tanta, tanta confusione abitava la sua testa. Le domande erano centinaia, le credenze e le convinzioni ancora di più. Innumerevoli erano state le volte in cui l'istinto di correre via ed andare a cercarlo le aveva avvinghiato il petto come un laccio troppo stretto. Perché, perché, perché. La sua testa era un groviglio.

Era determinata a ritrovarlo e a riportarlo a casa, a riportarlo a sé. Sarebbe andata a cercarlo in capo al mondo, ma l'avrebbe fatto. Lei doveva riportarlo a casa.

Così tante volte aveva provato a darsi una risposta, a capire perché se ne era andato e perché l'aveva lasciata indietro. Era per colpa di loro padre? Allora perché non l'aveva portata con sé? Era per colpa di loro padre? Quindi poteva indirettamente essere colpa sua? Poteva esser stato il divenire genitore senza nemmeno aver compiuto dieci anni, il doversi prendere cura di una bambina e di sé stesso. Se loro padre ci fosse stato, lui non sarebbe scappato di casa, non l'avrebbe portata via, non l'avrebbe dovuta crescere.

Perché, quella volta, non se l'era portata via?

"Lascia che ti porti ad Ogigia, Penelope." La voce della dea le accarezzò l'udito con dolcezza, facendola emergere dallo scuro lago che erano i suoi pensieri. "Ti porterò via, e andrà tutto bene."

Penelope scosse energicamente il capo e diverse ciocche di lunghi capelli le solleticarono il viso. Voltando le spalle alla strada di sinistra, piantò saldamente i piedi a terra. Il vento fresco provò a spingerla indietro, le fronde del salice s'allungarono verso di lei in un vano tentativo di fermarla.

Imboccò la strada di destra.

Non appena le piante dei suoi piedi toccarono quella brulla e polverosa terra, un vento caldo e secco la investì con violenza, inghiottendola poi. Il richiamo di Teti divenne una voce che si perse nello spazio e nel suono, soffocata e chiusa tra quattro pareti. Andò avanti procedendo ad ampie falcate.

Tante immagini le tolsero la vista in bianchi flash di luce. Il suono di un respiro spezzato dalla fatica. La tiepida consistenza delle lacrime. Odore di sabbia, di sale, di polvere, di chiuso, di metallo, di cuoio, di antico e di nuovo. Iridi azzurre ed iridi dorate. Il soffocante peso del panico sul petto. Mani che tremano dal freddo, fuoco che arde e divora ogni cosa. Uno scuro veleno che si diffonde ed uccide.

Qualcuno la svegliò di colpo, gridando.

Nella soffusa luce della stanza, intravide il volto di Connor. I suoi occhi erano sgranati, annegavano nel panico e nello spavento. Il suo viso era contorto in un'espressione terrorizzata. Le mani gli tremavano.

«Il pino» disse, la voce strozzata di un respiro affannoso. «Qualcuno ha avvelenato il pino.»

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