01. Aquaman
𝐏𝐄𝐍𝐄𝐋𝐎𝐏𝐄
«TRAVIS, GIURO CHE SE NON mi ridai la mia scarpa ti tiro l'altra in fronte»
«Penny, hai la mira di una sedia»
«Fidati, riuscirei a prenderti precisamente in mezzo agli occhi». E detto questo, Penelope si portò la gamba destra al petto e si tolse la scarpa senza nemmeno slacciarla. Travis si strinse contro l'altra sua scarpa, abbassando la testa e facendo per nascondersi dietro Connor, che intanto ridacchiava divertito dalla scena.
«Ti avevo avvertito» disse Penelope, sollevando la scarpa in aria. Proprio quando stava per tirarla al fratellastro, però, la porta della cabina si aprì, rivelando le figure di Annabeth e del nuovo arrivato illuminati dal sole. Lui era più basso di lei e scrutava silenzioso l'interno della Casa Undici. Aveva i capelli neri in completo disordine e le mani nascoste nelle tasche dei pantaloni. Gli occhi verdi perlustravano curiosi l'interno della cabina. La Chase sembrava brillare come oro al sole; la pelle abbronzata, i riccioli di miele ed il mento tirato in alto contribuivano solo a renderla ancora più simile ad un piccolo gioiello sotto i raggi caldi del dio Apollo.
Penelope aveva un rapporto di amore ed odio con quel suo... brillare.
Annabeth Chase, figlia di Atena, era la persona che Penelope credeva la più insopportabile dell'intero pianeta - ed affermava questo anche se non conosceva ogni singolo essere umano al mondo, lo sapeva e basta. La superava in altezza di diversi centimetri, fatto che le dava sempre quell'aria di superiorità che, indirettamente, sfoggiava ovunque andasse. La dodicenne spiccava in intelligenza, bravura ed astuzia, ma questa non era affatto una giustificazione per mostrarlo in quel modo così aperto. Aveva dorati boccoli biondi, morbidi e dolci, le circondavano il viso ovale e dai lineamenti ancora un po' infantili. Il suo naso era un'aristocratica freccia dritta e precisa, di una grazia a dir poco invidiabile, e la sua bocca rosea era sempre colma di parole e parole e parole. Sull'incarnato perennemente dorato, quasi si abbronzasse anche d'inverno, spiccavano due grandi ed intelligenti occhi grigi come nuvoloni gravidi di pioggia, spesso vorticanti ed insidiosi. Penetrare nello sguardo di quella ragazzina sarebbe risultato incredibilmente difficile anche al più bravo degli osservatori. Dal fisico slanciato e ben allenato, era agile e veloce, formidabile con il pugnale ma incredibilmente portata per attività come l'arrampicata e la corsa.
Lo sguardo di Annabeth si spostò lentamente dal viso di Penelope alla scarpa rossa che teneva stretta in mano, passando poi ai visi di un deliziato Connor ed un ridente Travis. Quando tornò a guardarla inarcò un sopracciglio. «Ti cimenti anche nel lancio di scarpe, ora?»
Penelope alzò gli occhi al cielo. Spesso non sopportava quella sua aria da "io so tutto e tu niente, quindi fa' silenzio". Avrebbe voluto dirle: "ma fa' tu silenzio, che sprechi ossigeno!", ma non lo aveva mai fatto. Abbassò il braccio e si infilò alla meno peggio la scarpa destra, rivolgendo un sorriso sornione al nuovo arrivato ed ignorando completamente il commento di Annabeth. Infilò i lunghi lacci candidi nel collo della scarpa, pigiandoli verso il basso con decisione. «Ehi, ti vedo bene! Ti sei ripreso?»
Il ragazzino, che era alto quanto lei, annuì. La guardava come se fosse l'unico punto di riferimento che aveva, e questo gratificava Penelope. Annabeth, invece, gli lanciava di tanto in tanto sguardi nervosi e veloci, come a cercare di cogliere un dettaglio che inizialmente non aveva notato. «Credo di sì» rispose il ragazzino, stringendo le dita attorno al corno di Minotauro. «Tu vivi qui?»
Penelope perlustrò l'interno della cabina, accorgendosi solo in quel momento di quanto era in disordine e affollata. Dopo tanto tempo passato lì dentro ci aveva fatto l'abitudine, ma rendersi conto che occhi estranei osservavano ciò che lei aveva avuto sotto lo sguardo per tutto quel tempo in modo diverso da come faceva lei... era veramente strano. Tirò con il piede senza scarpa un calcio ad un pallone da rugby che stava in mezzo alla stanza, mandandolo da qualche parte sotto uno dei tanti letti a castello. «Sì, viviamo qui»
Annabeth rivolse lo sguardo al ragazzino, quasi soppesandolo come tutti nella cabina stavano facendo. «Allora? Muoviti»
Lui mosse un passo in avanti ma, non sapendo e non avendo visto, inciampò su quell'infida trave del pavimento che era un po' rialzata. Penelope lo afferrò per le spalle, nel tentativo di evitargli una caduta. Qualche risatina si levò dalla folla presente, ma nessuno disse nulla. Lei si dispiacque per il ragazzino e quella sua entrata memorabile. Dopo averlo aiutato a rimettersi in piedi e avergli sorriso per confortarlo, gli stirò la maglietta, stropicciatasi.
Si voltò e rivolse a tutti un'occhiata di fuoco puro. Il sorriso divertito svanì dal viso di ognuno.
Carino come tutti, in quella cabina, avessero paura delle occhiate di Penelope, che era una ragazzina sottile come un ramoscello d'ulivo. Ma tutti i suoi fratellastri e sorellastre sapevano che non serviva la forza fisica per farla pagare a qualcuno. Quando le facevi un torto lei se lo legava sempre, e dico sempre, al dito. E poi faceva qualcosa che ti sarebbe rimasto nella memoria fino al giorno in cui il tuo cuore avrebbe smesso di battere. Mai farle un torto, mai, e i fratelli Stoll ne sapevano qualcosa.
Annabeth prese un respiro dal naso prima di parlare, rilasciando poi l'aria dalle labbra rosee. «Percy Jackson, la Casa numero undici»
«Stato?» domandò qualcuno dalle spalle di Penelope.
«Indeterminato» sospirò la figlia di Atena.
Sospiro di insoddisfazione generale.
Una mano calda si poggiò sulla spalla destra di Penelope, stringendo con gentilezza la presa; lei riconobbe subito il tocco. Come sempre, il suo passo era silenzioso come una foglia d'autunno che s'adagia sul terreno. «Be', siamo qui per questo, no? Benvenuto, Percy»
Penelope alzò lo sguardo sul viso di suo fratello, e nel guardarlo un sorriso contento si aprì sul suo viso. Luke era alto, bello e con un sorriso bianco come avorio incastonato sul viso, risaltando sull'incarnato dorato. Aveva un viso lungo ed affilato, dai tratti incredibilmente simili a quelli di sua sorella, sul quale era costantemente dipinto un sorrisetto divertito capace di ammaliare chiunque. Penelope andava fiera di quel suo risaltare tra una folla di persone, come se la luce del sole si concentrasse su di lui e su quella sua figura slanciata ed asciutta, sui riflessi dorati dei suoi capelli color sabbia e sul colore cristallino delle sue iridi color cielo. Portava una lunga e spessa cicatrice biancastra a solcargli il viso, che partiva poco sopra l'occhio destro e scendeva un poco irregolare fino alla mandibola; Penelope spesso la valicava con i polpastrelli.
I suoi occhi, due zaffiri luccicanti, fecero su e giù sulla figura di Percy, gentili. Poi perlustrarono la cabina alla ricerca di uno spazio vuoto. Distese un braccio ed indicò uno dei tanti angoli polverosi della cabina. «Se vuoi, puoi prenderti quel pezzo di pavimento lì. Lasciami il tempo di darti un sacco a pelo e potrai sistemarti»
Lo sguardo di Annabeth s'era addolcito puntandosi sul viso di Luke, cercando i suoi occhi come se avesse sete di ciò che era contenuto negli specchi d'acqua che questi erano. Persino, le sue guance s'erano appena tinte di rosa. «Questo è Luke» disse con l'ammirazione che si muoveva sinuosa sotto la sua voce. Guardò Penelope ed i suoi occhi persero quella luce tiepida che avevano, restando solo dei possenti nuvoloni gravidi di pioggia. «E penso che tu conosca già Penelope. Luke sarà il tuo capogruppo, per ora»
«Perché "per ora"?» chiese Percy.
«Sei ancora indeterminato» affermarono Penelope e Luke all'unisono. Lui la guardò e le scompigliò i capelli, ridacchiando. «Significa che il tuo genitore divino non ti ha ancora riconosciuto come suo» continuò Luke «per questo, non sappiamo a quale Casa assegnarti. E dato che Ermes è il dio dei viandanti, ti accogliamo qui. I visitatori e i nuovi arrivati sono sempre i benvenuti»
Percy lanciò uno sguardo un po' sofferto all'angolo di pavimento che Luke gli aveva indicato, stringendosi il corno di Minotauro al petto. Penelope intuì che il ragazzino doveva essersi appena ricordato dell'indole particolare, che tendeva alla cleptomania, di Ermes e dei suoi figli. Lei per prima rubava di continuo piccolo oggetti ai suoi compagni di Casa, come una gazza ladra che svolazza da un ramo all'altro.
«Per quanto dovrò restare qui?» chiese Percy, gli occhi che saettavano dal viso di Luke a quello di Penelope con l'incertezza di chi non sa dove guardare, poiché la sua attenzione ruota attorno a due punti di gravità differenti.
Risata generale; un'altra occhiata di fuoco da parte di Penelope.
«Vieni, ti faccio vedere il campo da pallavolo» affermò Annabeth a denti stretti. Percy replicò dicendo che l'aveva già visto, il campetto, ma lei circondò un suo polso tra le dita e lo trascinò fuori. Penelope, non volendo lasciare il nuovo arrivato nelle mani fin troppo professionali della Chase, si riprese la propria scarpa e corse fuori, al loro seguito.
«Fermi, voi due!» esclamò richiamando la loro attenzione, saltellando su un piede solo nel tentativo di rimettersi la scarpa mancante. I due semidei si voltarono a guardarla, fermando la loro camminata.
Percy aggrottò le sopracciglia. «Perché ti mancava una scarpa?»
«Non farti mai troppe domande con lei» commentò Annabeth, parlando come se lei fosse assente. «Ci sono talmente tante cose assurde che non le puoi capire tutte»
«Simpatica come sempre, Chase»
«Io ricambio solamente, sei tu la prima che inizia» replicò la bionda, ancora con quel mento sollevato con orgoglio.
Penelope guardò Percy, il cui sguardo saettava spaesato dal suo viso a quello di Annabeth. Aveva bisogno di risposte e spiegazioni, non di vedere due dodicenni discutere e tirarsi frecciatine varie. «In questo momento non ho la minima voglia di iniziare, ok?»
Annabeth annuì nemmeno guardandola negli occhi, poi si rivolse a Percy e riprese a camminare. Gli altri due semidei la imitarono. «Devi imparare a cavartela meglio, Jackson»
«Per tutti i sandali alati di Ermes, così lo fai sembrare un carcere strapieno di serial killer psicopatici» disse Penelope.
«Perché, non è questo la Casa Undici?» ribatté la bionda. Si accorse dell'espressione sempre più confusa di Percy e si decise finalmente a darci un taglio, rivolgendosi nuovamente a lui. «Sul serio, così non puoi andare avanti. Ma come ho potuto credere che fossi tu...»
«Qual è il tuo problema?» sbottò Percy, le guance improvvisamente tinte come piccoli lamponi, accese di rabbia. «Io so solo che ho ucciso quella specie di uomo-toro e che-»
«Scherzi?!» esclamò Annabeth, gli occhi sgranati in un'espressione esasperata, come se stesse parlando con un bambino di cinque anni. «Sai in quanti vorrebbero aver avuto la tua possibilità?»
«Quale possibilità, quella di finire ammazzati?»
«Uccidere il Minotauro! Per cosa pensi tutti si allenino qui?»
«Be', mica tutti hanno questa aspirazione nella vita, sai...» commentò Penelope con un sospiro, nascondendo le mani nelle tasche dei pantaloncini e abbassando per un breve istante lo sguardo ai fili d'erba che soffici sfioravano le sue scarpe.
Annabeth la fulminò con lo sguardo di tempesta, voltandosi a guardarla con uno scatto. Un ricciolo dorato le sfiorò la punta del naso, e lei lo rispedì al suo posto con uno sbuffo rabbioso dalle labbra. «Non sei affatto d'aiuto! Perché non te ne torni a lanciare scarpe a Travis?»
«Penso che dovresti dare una calmata ai nervi, Chase» replicò la figlia di Ermes, mostrando i denti candidi in un sorrisetto divertito. Adorava vedere Annabeth accendersi di rabbia. Era come dar vita alla miccia di una piccola bomba e osservarla consumarsi sempre più velocemente, fin quando non esplodeva, producendo un gran rumore.
Annabeth aprì la bocca per ribattere, ma Percy intervenne, sollevando una mano esasperato. «La smettete, voi due? Se dovete discutere, andatevene da un'altra parte! Accidenti!»
Le due ragazzine si scambiarono uno sguardo; gli occhi azzurri di Penelope luccicanti di divertimento e quelli grigi di Annabeth ancora colmi di fastidio. Quest'ultima sospirò poi, passandosi una mano sul viso abbronzato. Anche Penelope decise di darsi una calmata e prendere la situazione un po' più seriamente. «Quello che Annabeth intendeva dire, Percy, è che molti qui vorrebbero essere entrati memorabilmente come hai fatto tu. Uccidere il Minotauro - renditi conto, il Minotauro - senza un briciolo di allenamento è a dir poco sorprendente»
«Senti, se la cosa contro cui ho combattuto era davvero il Minotauro, quello di cui parlano i miti...»
«Era lui»
«... ce ne è per forza uno solo, ed è stato ucciso nel Labirinto, da Teseo, qualcosa come un triliardo di anni fa. Come è possibile?»
«I mostri non muoiono, Jackson. Li puoi uccidere, ma non muoiono» spiegò annoiata Annabeth, dalla cui voce s'intuiva il crescente desiderio di giungere al punto della conrversazione.
Percy strinse le labbra e i suoi occhi divennero seri in un istante. «Grazie mille, ora mi è tutto chiaro»
Sia Annabeth che Penelope alzarono gli occhi al cielo, ma nessuna delle due si accorse di aver appena compiuto lo stesso gesto contemporaneamente. La figlia di Atena posò le mani sui propri fianchi, raddrizzando le spalle. «I mostri non hanno un'anima come gli esseri umani. Si possono allontanare, uccidendoli, ma dopo un po' tornano. Se sei fortunato, se ne stanno lontani per una vita intera. Chirone li chiama: "archetipi". Sono forze primordiali, tornano sempre»
«Un po' come le mosche: tu le scacci ma quelle tornano sempre a romperti le palle» commentò Penelope, cavando dalla tasca posteriore un Chupa Chups e scartandolo immediatamente. Vaniglia, il gusto migliore.
Annabeth la guardò e sospirò. «Linguaggio»
Percy aveva sulle labbra un sorriso piccolo come un frammento di vetro. Guardò il leccalecca di Penelope come se ne volesse uno anche lui. «Quindi... se ne ho ucciso uno con quella sorta di... penna-spada, credo...»
«La Fur- eh, la professoressa di matematica, sì, lei. Tornerà a romperti le scatole» confermò Penelope.
«Come fai a sapere della Dodds?»
«Parli nel sonno» rispose per lei Annabeth, avendo a sua volta assistito alle chiaccherate sonnolente del dodicenne.
«E sbavi, anche» aggiunse Penelope. Lanciò un veloce sguardo a Percy e vide le sue guance tingersi di un tenero rosa pallido, cosa che fece spuntare sulle labbra della figlia di Ermes un sorriso divertito.
Lui scosse il capo, scrollandosi di dosso quel velo di imbarazzo, e concentrò lo sguardo agli occhi di Penelope. «Stavi per chiamarla Furia. Non sono le torturatrici degli Inferi?»
Un tuono strappò il suono e scosse il cielo limpido sopra di loro. Penelope alzò lo sguardo, giocherellando con il bastoncino del leccalecca con la lingua. Osservò le nuvole e sospirò dal naso. «Ogni santa volta, eh? Non ce la fai a startene un po' tranquillo? E' solo un dannato nome, andiamo...»
«I nomi sono potenti, Percy» affermò Annabeth, con un tono che però ricadeva più sul riferirsi a Penelope. «Non dovresti tirarli fuori nemmeno qui. Di solito le chiamiamo Benevole»
«Racchie Rugose è più carino, gli si addice di più» aggiunse la rossa, guadagnandosi l'ennesima occhiata esasperata da parte della figlia di Atena.
Quella volta Percy rise sul serio, non resistendo più nel limitarsi a piccoli sorrisetti. La risata lasciò limpida le sue labbra, accompagnata da un grande sorriso. Penelope arricciò le labbra compiaciuta; amava far ridere le persone. Riteneva la risata il vero suono dell'anima di qualcuno, come il suono di un ruscello trasparente. Era nella risata, secondo lei, che si raccoglieva la vera essenza di una persona. Amava ascoltare gli altri ridere.
Annabeth si sforzò per nasconderlo, ma anche lei aveva un sorrisetto dipinto sulle labbra rosate.
Quel momento magico in cui le sembrò che andasse tutto per il verso giusto s'interruppe quando Percy tornò serio, indicando le varie altre cabine. «Una domanda. Perché dobbiamo stare tutti ammassati nella Casa Undici se ci sono tutte queste cabine vuote?»
«Luke te l'ha spiegato» rispose Penelope «e tra l'altro, non possiamo scegliere noi la nostra cabina, altrimenti secondo te mi sarei sistemata in quella sottospecie di carcere minorile? Dipende dal tuo genitore, che prima deve riconoscerti»
«Mia madre è Sally Jackson» replicò Percy, calcando il proprio cognome di fiero orgoglio. «Lavora in un negozio di dolciumi alla stazione centrale. O almeno... lavorava»
Il viso di Penelope si rabbuiò con quello di Percy. Gli occhi verdi del ragazzino scattarono sull'erba setosa che ricopriva il terreno, svuotandosi un po' di quella vitale curiosità che solo pochi attimi prima vi brillava all'interno; un sospiro appena udibile lasciò le sue labbra.
Annabeth infranse il silenzio teso che s'era posato su di loro, riprendendo a parlare con tono deciso. Penelope le invidiava quella capacità di riuscire sempre a ricollegare il filo, di essere maestra nel riprendere le cose tra le mani e stringerle con sicurezza. Lei, al suo posto, avrebbe preso a balbettare o non sarebbe riuscita ad acciuffare ciò che aveva perso. «L'altro lato, il tuo genitore divino. Tuo padre, in questo caso»
«E' inutile pensarci» replicò Percy, sollevando gli occhi sulla Casa Sette, che luccicava dorata nel sole. «E' morto»
«Fidati, anche a me era stato detto questo, quando ero piccola, e tanti altri se lo sono sentito dire. E' il modo migliore per nascondere le cose. Tuo padre non è morto, Percy» disse Penelope, reclinando sulla destra il capo e continuando a giocherellare con il bastoncino del leccalecca, il cui sapore di vaniglia stava esteso sulla sua lingua.
Percy la guardò torvo, scrutando quella sua ingenua curiosità con una punta di rabbia nello sguardo. «E tu lo hai mai conosciuto?»
«Ovviamente no»
«E allora come puoi-»
«Conosciamo te, ed è diverso» intervenne Annabeth, interrompendolo. A Penelope quel "noi" suonò tremendamente strano, perché non lo aveva mai udito lasciare della bionda, non quando si riferiva a loro due.
Il ragazzino guardò prima una poi l'altra, le sopracciglia scure sempre più aggrottate. Penelope fu quasi in grado di avvertire la linea di difesa che stava velocemente innalzando attorno a sé. «Voi due non sapete assolutamente niente di me»
Annabeth incrociò le braccia al petto. «No, sicuro? Scommetto che hai cambiato scuola fin troppe volte, ed in tanti casi ti hanno espulso. Scommetto che hai una marea di problemi con dislessia, iperattività e che hai anche un disturbo da deficit dell'attenzione. E, anche-»
«Chase, non rovinarmelo proprio adesso, siamo ancora all'inizio» la interruppe Penelope, rivolgendole uno sguardo d'avvertimento. Già Percy doveva avere qualche problema a processare tutte le notizie che gli erano arrivate nel giro delle ultime ore, come era legittimo che fosse, e buttargli addosso anche tutte quelle parole dette quasi come fossero accuse non doveva essere meraviglioso. Colse l'attenzione di Percy schioccando la lingua contro il proprio palato. «Non riesci a leggere perché le lettere sembrano rotearti davanti agli occhi, vero?»
Lui scoccò un'occhiata stranita ad un'imbronciata Annabeth, poi annuì. «Alcune volte mi sembra anche di vederne qualcuna cambiare in una lettera del greco antico»
Penelope sorrise divertita. «E' normale. Questo perché il tuo cervello è programmato per leggere e comprendere il greco antico, non le lingue moderne. Ho notato che sbatti costantemente le palpebre, come se avessi un tic; capisco anche quello. Sei anche particolarmente impulsivo, vero? Non riesci mai a stare fermo. Sono riflessi da combattimento, fondamentali durante una battaglia»
«E hai problemi con l'attenzione perché ci vedi troppo, non troppo poco» aggiunse Annabeth. «Tutti i tuoi sensi sono più acuti di quelli di un comune mortale. Ovviamente, i tuoi insegnanti non volevano che venissi a sapere tutto questo. Per la maggior parte, quasi sicuramente, erano tutti mostri che tentavano di non farsi vedere per ciò che erano veramente»
Percy deglutì, osservandole con l'attenzione che gli danzava negli occhi. «Sembrate esserci passate anche voi»
Penelope e Annabeth si guardarono per un attimo, entrambe con l'intenzione di lanciare all'altra uno sguardo veloce e di cui non si sarebbe accorta. Tempismo perfetto, come si suol dire. I loro occhi s'incrociarono per un breve attimo, il grigio della tempesta a contrasto con il cielo limpido.
La figlia di Ermes si strinse tra le spalle, tornando a guardare Percy. «Roba di ordinaria amministrazione per noi mezzosangue»
Lui si umettò le labbra, gli occhi che velocemente si perdevano in un flusso infinito di domande. Stava per iniziare a porle una per una, quando una voce conosciuta si fece sentire alle spalle di Annabeth.
«Ma guarda un po', un novellino!»
Penelope sbuffò. «La Rue, va' a cercarti carne fresca da qualche altra parte, magari ne trovi un po' allo zoo, il posto giusto per te»
Clarisse era alta, troppo per i suoi gusti, e muscolosa, i risultati del costante e duro allenamento stranamente adattati al corpo da tredicenne che ancora aveva. Aveva lunghi capelli castano chiaro, che spesso portava legati in una coda bassa o una treccia. Una frangetta disordinata conduceva lo sguardo ai suoi occhi, scuri come caffè e un po' piccoli rispetto al viso dai lineamenti duri e fieri. Sfoggiava con orgoglio le tante piccole cicatrici da taglio che aveva sul viso, sulle spalle, sulle braccia ed in ogni altra parte del corpo visibile; stradine biancastre che le solcavano la pelle. La più evidente di queste era un taglio che le passava per obliquo sul sopracciglio sinistro, tagliandolo precisamente nel mezzo e che lei si era procurata quando una freccia scoccata da Penelope le era passata di striscio sul viso. Per questo motivo - e per aver rischiato la morte - la figlia di Ermes aveva giurato di non toccare mai più un arco in vita sua. Sulla mandibola aveva un livido violaceo, probabilmente il risultato di un pugno che qualcuno era riuscito a tirarle mentre lei lo picchiava. Non ci voleva poco per stare al pari di Clarisse e chiunque riuscisse a tirarle anche solo uno schiaffo senza finire in infermeria con almeno tre ossa fratturate era da considerare un eroe. Avanzava baldanzosa verso di loro, accompagnata da sue tre amiche, anche loro massicce come lei.
«Castellan, ricordati che non ti picchio solo perché porto rispetto a tuo fratello, che se lo merita» affermò a denti stretti Clarisse, puntandole un dito contro.
Penelope stava per ribattere, ma la figlia di Atena parlò per prima. «Perché non vai a lucidare la tua lancia, così evitiamo pure di litigare?» disse pacata, portandosi i capelli biondi dietro l'orecchio con una tranquillità fin troppo stabile.
«Dovresti essere abituata ai litigi, dato che sembra essere l'unica attività che tu e questa qui praticate assieme» ribatté Clarisse, indicando con un cenno le due dodicenni. Un sorriso compiaciuto s'affacciò sulle sue labbra. «E, comunque, infilzarti con la lancia mi verrebbe meglio, venerdì, se oggi la lucidassi»
«ξυλοκύμβη» borbottò Annabeth, alzando vistosamente gli occhi al cielo «come se avessi la possibilità di riuscirci»
Clarisse ignorò l'insulto appena ricevuto e si voltò a guardare Percy. «Ditemi un po', chi è questa mezza cartuccia?»
Annabeth si mordicchiò per pochi secondi l'interno guancia, prima di rispondere. «Percy Jackson, ti presento Clarisse la Rue, figlia di Ares»
Percy squadrò Clarisse da capo a piedi, gli occhi che saettavano dall'alto verso il basso. «Il dio della guerra, eh? Questo spiega il cattivo odore»
Gli occhi della figlia di Ares si accesero di rabbia, le iridi scure illuminate da un fugace fulmine rosso come il sangue. Ringhiò, somigliando quasi ad un lupo che fissa la preda con il ghiaccio al posto dello sguardo, e afferrò Percy per il collo della maglietta. «Abbiamo una particolare cerimonia di benvenuto qui, Prissy» sputò fuori a denti stretti, iniziando a trascinarselo dietro.
Percy si mantenne in piedi, tirando un po' per allentare la presa che la ragazza aveva sulla sua maglietta. Corresse il suo nome, ottenendo un altro ringhio rabbioso da parte della figlia di Ares. Un altro strattone e Percy finì in avanti, sbilanciandosi, il corno di Minotauro gli cadde nell'erba. Penelope lo recuperò con un sospiro, mentre Annabeth seguiva Clarisse e tentava di desisterla dal trattare in quel modo anche Percy. Stanne fuori, sapientona, le rispose la semidea.
Penelope affiancò Annabeth, il corno di Minatauro ben stretto tra le dita della destra. Era ancora tiepido per via del contatto con le dita di Percy. Le due dodicenni si guardarono con un misto di esasperazione e dispiacere nello sguardo, entrambe ben a conoscenza di cosa stava per accadere. Penelope guardò Percy tirare un pugno abbastanza ben assestato al fianco di Clarisse, che però non si scompose minimamente.
«Non so tu» disse, voltandosi di nuovo a guardare Annabeth «ma per una volta vorrei evitare che Clarisse riduca in trucioli l'ennesimo ragazzino»
Si portò alcune corte ciocche rossastre dietro le orecchie e s'avviò a passo spedito al seguito di Clarisse. Pochi secondi dopo, i passi di Annabeth si fecero sentire accompagnati dal fruscio dell'erba che calpestava al suo passaggio.
I bagni del Campo Mezzosangue, per essere strutture dedicate ai diretti discendenti degli Dei, erano piuttosto malridotti. Si trattava pur sempre di un campo estivo, frequentato da decine e decine di ragazzi e bambini; come biasimare quelle povere arpie che erano state reclutate come signore delle pulizie. Quando Penelope arrivò, affiancata pochi secondi dopo da Annabeth, Clarisse stava già abbassando la testa di Percy su uno dei gabinetti lì presenti. Con la coda dell'occhio, la figlia di Ermes scorse la semidea accanto a sé fremere, come nel reprimere la voglia di farsi avanti e risolvere la situazione. Lei, per calmare lo stesso tipo di istinto, strinse con più decisione le dita attorno al corno di Minotauro.
«Ma davvero credevi che questo fosse roba di uno dei Tre Pezzi Grossi, Chase?» rise Clarisse con soddisfazione, schernendo Annabeth. «Andiamo... a vedere questa mezza cartuccia il Minotauro dev'essere morto dalle risate, ecco come se ne è libera-»
Ma Clarisse non riuscì a completare quella frase. L'intero impianto tremò come scosso da un terremoto. I tubi vibrarono pericolosamente, come se l'acqua al loro interno stesse applicando troppa pressione contro le pareti di metallo.
E poi, accadde una delle cose più epiche che Penelope avesse mai visto.
Dal gabinetto sul quale Clarisse teneva Percy chinato, stringendo la presa sui suoi capelli, schizzò fuori tutta l'acqua che era al suo interno. Questa tracciò un arco sopra la testa del ragazzino e colpì la figlia di Ares dritta in faccia, facendole lasciare la presa sui capelli del dodicenne e allontanare con le mani sul viso, in un vano tentativo di proteggersi.
Annabeth strillò sorpresa, scostandosi le mani dal viso. Ancora, l'acqua colpì Clarisse e stavolta con abbastanza forza da scaraventarla sul pavimento, ormai bagnato. Lei, nel tentativo di sfuggire a quel getto demoniaco, procedette a tentoni verso una doccia. Col senno di poi, se Penelope fosse stata nei suoi panni non avrebbe scelto proprio quella direzione. Giusto il tempo per le amiche di Clarisse ad avvicinarsi a lei, che anche tutti gli altri gabinetti esplosero come il primo, travolgendole con i loro getti. Un attimo dopo le docce e i lavandini si azionarono, allagando ancor di più il bagno. Le quattro ragazze vennero letteralmente trascinate fuori dal bagno da tutta quell'acqua, fluendo via quasi come dei detriti catturati in uno scarico, tra strilli acuti e brutte - davvero brutte - imprecazioni in greco antico.
Solo allora fu silenzio.
L'unico suono ancora udibile era il tintinnare cadenzato di quelle gocce che cadevano giù da una delle docce, che forse non s'era chiusa a dovere. Penelope ed Annabeth erano fradice fino all'osso, come due piccoli pulcini bagnati. Percy, invece, se ne stava seduto sulle piastrelle bianche del pavimento, completamente asciutto e nell'unico angolo del bagno che pareva non esser stato colpito dal disastro dei gabinetti. I tre semidei si fissarono, increduli. L'aria fremeva dell'elettricità azzurrognola dello stupore. Percy pareva essere addirittura sbiancato, gli occhi più verdi che mai.
«Jackson, ma chi cazzo sei, Aquaman?» esclamò Penelope, gli occhi sgranati e la bocca spalancata in modo decisamente poco elegante. Prese aria a fatica, combattendo contro lo stupore puro e agitando le mani in una danza senza senso. «Io non... ma come diamine...? Oh, io credo di aver capito... sì, sì, io ho capito... Μα τόν Δία!»
Annabeth deglutì, inarcando entrambe le sopracciglia. «Linguaggio!»
{ Nota di Moony }
Ok, lo ammetto, non sono una persona dotata di molta pazienza. Sembrerò incoerente e poco professionale, ma non ce l'ho fatta. Quindi, eccovi il primo capitolo! Dato che, però, non ho ancora finito di scrivere (ah ah) gli aggiornamenti saranno un pelino più lenti di quanto sarebbero stati se avessi iniziato a pubblicare a Giugno. Se riesco, almeno una volta a settimana, sempre i martedì o mercoledì mattina.
Alla prossima! ♡
Moony
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