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00. Introduzione II.

𝐏𝐄𝐍𝐄𝐋𝐎𝐏𝐄

PENELOPE NON ERA ESATTAMENTE il tipo di persona che si sarebbe trovata perfettamente a suo agio in un luogo scuro, freddo e popolato di lunghe ombre che divoravano ogni spicchio di luce come se avessero lo stomaco vuoto da secoli. Gli Inferi questo erano e questo sono, cosa v'aspettavate? Freddo. Faceva un freddo glaciale lì sotto – anche se ci si aspetterebbe il contrario, ovvero le fiamme dell'inferno che, di un rosso ardente e vivo, divorano ogni anima con violenza immane.

Era un freddo secco e che le penetrava nelle membra, insinuandosi infido ed imprigionando ogni centimetro della sua carne. Era il freddo dei perduti e dei dimenticati; il freddo di coloro che non più respirano; il freddo di una mente che si è spenta ed ora galleggia nell'etere, morta. Era il freddo di un cuore che ha cessato di battere e battere e battere.

Penelope non era il tipo a cui piacevano luoghi di quel genere, assolutamente no. Odiava i posti tristi e deprimenti. Ma forse quei due aggettivi non erano giusti per descrivere gli Inferi, erano troppo... insapori. Tanto si è abituati a vedere tristezza, quel velo cupo e sottile che cala sugli occhi degli altri e su quelli che vediamo riflessi nello specchio, che oramai la tristezza non fa quasi più effetto a nessuno. Gli Inferi non erano un luogo triste. Il trovarsi lì, i piedi veloci saldamente ancorati al suolo fatto di ciottoli neri come la notte, non le gettava addosso alcun velo.

Le faceva venir voglia di piangere. Versare lacrime silenziose ed amare, che le avrebbero rigato il volto ed inumidito le gote, poi scomparse e dimenticate. Sentiva il forte, fortissimo bisogno di piangere annidato nella sua gola, nodo intricato e troppo stretto per essere sciolto anche dalle più esperte mani. Voleva piangere di quel pianto sordo e muto, pressante, doloroso.

Voleva singhiozzare. E piangere. E tirare fuori da sé la parte peggiore di quella bambina che ancora era per liberarsene una volta per tutte. Questo effetto l'Ade ha: cava fuori a forza la parte peggiore di ognuno di noi e poi ce la sbatte in faccia con la violenza della verità appena svelata.

L'autocontrollo doveva prevalere. Si permise a malapena di lasciare che i suoi occhi si facessero lucidi e la sua visione sfocata di lacrime. Non ne avrebbe versata nemmeno una. Strinse la mano di Nerea nella sua, ferrea presa alla ricerca di sicurezza, e continuò a camminare.

Passo dopo passo. Un piede davanti all'altro.

Provò a pensare a cose belle. "Quando vedi tutto grigio pensa ai colori e al cielo azzurro", le diceva Talia. Immaginò il cielo terso.

L'ustione sulla coscia destra bruciava ed ardeva ancora, mangiandole la pelle. Non osava abbassare lo sguardo su di essa, temendo il momento in cui avrebbe visto la carne rossa e lesa e lacerata e bruciata. L'effetto dell'ambrosia era ormai quasi del tutto svanito.

«Penny» la chiamò Nerea.

«Dimmi.»

«Sei sicura di dove stiamo andando?»

No, non lo sono. Non so dove stiamo andando da quando Caronte ci ha fatto scendere da quella dannata barchetta, le avrebbe risposto Penelope. Più andava avanti, inoltrandosi nella terra dei morti, più sentiva le sue energie venir meno.

«Lo scudo mi guida» rispose invece, indicando il maestoso cerchio bronzeo con un cenno del capo. Come per rafforzare quell'affermazione, strinse le dita attorno alla cinghia dello scudo, premendoselo contro il costato.

«Ti guida» ripetè la dodicenne. «E dove ti guida?»

Tipico di lei porre così tante domande. Nerea aveva l'abitudine di porre quesiti astratti per i quali pretendeva risposte concrete e quesiti concreti per i quali pretendeva risposte astratte. «Verso il suo proprietario» rispose Penelope.

Gli occhi di Nerea erano neri come il terreno su cui i loro piedi poggiavano. «Achille sa che gli stai riportando lo scudo, vero?»

«Spero di sì. Spero che non pensi che gli è stato sottratto, come credevano le Benevole. Francamente, preferisco venire attaccata da un trio di tacchini spiumati piuttosto che dal più formidabile eroe di ogni tempo.»

La risata di Nerea suonò così strana nell'immenso nero di quel luogo.

Lo Stige scorreva alla loro destra mentre loro camminavano sulla sua riva. Da lontano, dai Campi della Pena, i lamenti dei dannati si sollevavano e risuonavano tutt'intorno. Caronte aveva detto loro che avrebbero trovato Pelìde sulle rive dello scuro fiume, molto probabilmente ad osservare le acque fluire con lentezza. Aveva detto, Caronte, che tutti i morti negli Inferi impazziscono. Penelope aveva il sospetto che anche il traghettatore stesse perdendo la testa.

«Hai fame?» le domandò Nerea dopo aver lanciato con un piccolo calcio un sasso rotondo e piatto nel fiume.

«Da impazzire.» Erano... quanto, due giorni che non mangiavano? I loro zaini erano stati letteralmente divorati da due cuccioli di segugio infernale, a Denver. Per loro grandissima fortuna la loro mamma non era presente. Non se l'erano sentita di ucciderli, però – dopotutto, anche se le avevano quasi uccise a loro volta, erano carini con quei loro grandi occhioni scuri come vino.

«Io ho una voglia matta di pizza. Girando l'angolo, prima, ho visto una pizzeria. Magari è ancora aperta» disse Nerea.

«Quale angolo, Rea? Los Angeles è piena di angoli.»

Nerea stavolta sorrise. Le passò un braccio attorno alle spalle e se la strinse contro, accarezzandole poi i capelli, legati in una disordinata treccia laterale. Aveva sempre avuto quell'istinto materno a differenziarla da chiunque altro. «Ricordo bene quale, tranquilla. La pizzeria era anche italiana, ciò significa cibo a cinque stelle.»

Camminarono per un'altra decina di minuti, seguendo il corso del fiume che, quasi come il tracciato di una lacrima su un viso, separava a metà il regno dei morti. Poi, nel buio s'intravide uno scintillio argenteo. Più s'avvicinavano più questo si faceva nitido ai loro occhi. Sulla riva del fiume stava seduto un ragazzo.

Penelope s'era sempre immaginata Achille come un giovane alto, forte e bello, dai muscoli che guizzavano scattanti sotto la pelle dorata. L'immagine del giovane guerriero, l'Aristos Achaion, il migliore dei Greci, era impressa nella sua mente nitida come una fotografia appena scattata.

Eppure, ciò che vide le rimosse ogni convinzione.

Scioccante ed incredibile è il modo in cui si spezzano le credenze e le immagini. Achille sedeva con la testa reclinata su un lato, le forti e scattanti gambe incrociate e le mani posate sulle ginocchia. Indossava ancora l'armatura e i capelli erano raccolti in modo approssimativo, come se li avesse legati prima di scendere in battaglia. Il suo corpo era come trasparente, fumo che presto sarebbe fuggito e scomparso. La pelle, forse un tempo dorata ed abbronzata, era ora perlacea e mandava bagliori biancastri come quelli di un'opale. Accanto a lui, posati sui ciottoli neri ed arrotondati, stavano un elmo ammaccato, una spada ed una freccia dalla punta insanguinata.

Ciò che la colpì fu l'espressione dipinta sul viso dell'eroe. Le carnose labbra dischiuse, gli occhi placidi ed il volto quieto. Pareva un bambino che osservava una qualche meraviglia, nuova ai suoi occhi e colorata come un fiore appena sbocciato. Guardava l'acqua inquinata del fiume come se avesse voluto far suoi tutti i sogni che vi erano stati gettati.

Sarebbe rimasta a guardarlo sedere lì per ore, lo sapeva. Tutto ciò che conosceva dell'eroe omerico era svanito e al suo posto stava un giovane la cui colpa era stata quella di voler esser ricordato.

«Divino Achille» chiamò, la voce flebile per l'emozione di trovarsi davanti proprio lui.

«Sai, piccola dea, quel berretto era il sogno di un bambino che avrebbe voluto essere un pilota ed innalzarsi tra i cieli» disse lui, allungando un braccio ad indicare un berretto verde che galleggiava. «Mi chiedo che fine abbia fatto.»

Penelope era quel tipo di persona che parlava quando non era stata interpellata. In quel momento ogni parola le mancava dalla bocca e la voglia di piangere non faceva che aumentare. Achille si portava dietro una tristezza bianca come latte e lucente come ossa, impressa nella bellezza fumosa del suo viso.

«Ti ringrazio per lo scudo» disse l'eroe, ancora guardando le acque dello Stige. «Non che fosse totalmente necessario che qualcuno me lo riportasse, ma ti ringrazio allo stesso modo.»

Quando si voltò a guardarle Penelope s'affrettò ad inginocchiarsi a terra, forse un po' cedendo al peso che il possente scudo aveva nella sua mano. Nerea la seguì a ruota, chinando il capo.

«Posso sapere i vostri nomi?» domandò l'eroe.

«Sono Nerea, signore» rispose la dodicenne, dopo aver notato che la più piccola non aveva molta intenzione – o forse non era capace – di parlare. «La mia compagna è Penelope, figlia di Ermes.»

Sulle labbra di Achille s'aprì un sorrisetto divertito ma amaro al tempo stesso. «Buffo. Hai la stessa mente della prima?»

Penelope, sentendosi interpellata, alzò lo sguardo sull'eroe. Il suo viso era ancora placido come le acque del mare al mattino. «Mi perdoni, ma cosa intende?»

«Hai la stessa mente della prima Penelope o il tuo è solo un nome?»

La figlia di Ermes deglutì nervosamente nel tentativo di rendere umida la sua gola, seccata dall'odore quasi soffocante di zolfo. I ciottoli sotto le sue ginocchia iniziavano a far male. «Una volta mio fratello mi ha detto che sono stata chiamata in questo modo perché "Penelope" significa "tessitrice" e mia madre voleva che io tessessi da sola la tela della mia vita.»

Achille assunse un'espressione incuriosita. «E con questo cosa intendi?»

«Mia madre aveva il desiderio che io prendessi le mie decisioni e non lasciassi mai che fosse qualcun altro a scegliere quale sarebbe stata la mia strada.» Penelope aveva difficoltà a guardarlo, in un qualche modo sconcertata dalla bellezza ancora ben vivida dell'eroe. Tremila e passa anni e ancora era bello come il sole, forse di più. «Affidandomi questo nome sperava che avrei avuto modo di tessere da sola la mia via.»

Il suono dei ciottoli che cozzavano l'un l'altro fu il segno che l'eroe s'era alzato in piedi. La figlia di Ermes si chiedeva come fosse possibile che uno spirito facesse rumore. Alzò il capo e lo guardò. Se solo non fosse stato effimero etere, perlaceo spirito che con così facilità poteva svanire, lei avrebbe detto che il suo corpo era della stessa armonia della primavera. Invece, così, sembrava solo un'immagine impressa nel buio, priva di spessore.

«Vi ringrazio, piccole dee» disse Achille, il tono placido di chi è stabile nell'animo.

«Il merito va a Penelope» s'affrettò a dire Nerea, che si beccò una gomitata nelle costole dalla compagna.

L'eroe sorrise appena. «No, non solo a lei.»

Penelope notò solo in quel momento il sacchetto di cuoio che l'eroe stringeva in mano. Come ogni cosa che gli apparteneva anche quello sembrava fatto fumo perlaceo. Quando però Achille si avvicinò di alcuni passi e disse loro di alzarsi in piedi, il sacchetto divenne solido con un luccichio. Lui lo slacciò con calma e da esso cavò fuori una lunga catenella argentea.

La mise in mano a Nerea, la quale fissò incredula il dono luccicante che l'eroe le aveva appena fatto. La catenella aveva come ciondolo una piccola freccia, anch'essa argentata. La mano con cui la dodicenne teneva il gioiello iniziò a tremare.

«Un dono per ringraziarti per avermi riportato lo scudo» affermò Achille. «Un tempo, quell'arco e quella faretra appartenevano a Paride.»

Nerea era visibilmente sbiancata e Penelope non sapeva se ridere per la sua reazione o spalancare la bocca per lo stupore. Achille si voltò verso di lei, infilando nuovamente le dita nel sacchetto di cuoio.

Anche a lei vennero i brividi.

L'eroe le pose in mano due cerchi di bronzo tremendamente simili a fish da poker, cosa che la stupì parecchio. Sulla parte esterna, al posto dei simboli delle carte da gioco, stavano incastonate piccolissime pietre di ossidiana che rilucevano sinistramente nella poca luce di quel luogo. Al centro delle fish, dove si sarebbero dovuti trovare i numeri, erano incise le lettere α e κ.

«Dovrai chiamarle» affermò Achille mentre lei fissava le due fish. «Non so quanto tu ti possa trovare bene a combattere con due spade, ma colei che mi ha chiesto di dartele ha detto che solo una di esse era destinata a te. L'altra, ha detto, puoi darla a chiunque vorrai.»

La domanda le venne spontanea, senza freni. «Chi è stata a dargliele?»

«Non è importante. Si tratta di una mia conoscente, sappi questo. Per richiamarle a te devi premerle contro i tuoi palmi e dire: "Veritas".»

«"Verità"» tradusse lei, meravigliandosi del latino.

Achille annuì. Con gentilezza si riprese lo scudo, sulle cui cinghie Penelope aveva ormai stretto con forza il pugno. Quasi le fece male distaccarsi da quell'oggetto, perché durante tutto il tempo in cui lo aveva portato con sé era stato come avere una bolla di protezione attorno ed ora, senza di esso, si sentiva esposta.

«Dovrai correre, piccola dea» annunciò Achille, il tono improvvisamente serio. Sia lei che Nerea lo guardarono incerte. «Arriverà un giorno in cui proverai il forte desiderio di correre via e scappare nella direzione opposta. Il consiglio che ti do è quello di correre sempre verso ciò che ti spaventa. Solo guardando le nostre paure potremo affrontarle.» Guardò Nerea. «Tu invece dovrai nuotare attraverso acque nervose ed agitate. Sarai naufraga in balia delle onde. Saranno proprio queste a salvarti, però, e giungerai presto su una spiaggia dorata di sole. Non dimenticarlo.»

Achille chinò il capo ed una ciocca di capelli gli ricadde a sfiorargli lo sguardo, opaco e lattiginoso. Il suo passo sui ciottoli del terreno era stranamente udibile ma soffice, come se i suoi piedi fossero fatti di piume. Semplicemente se ne andò, lasciandole lì, con fra le mani quei doni splendenti e troppe domande a frullare per la testa.

Trovarono Luke seduto sotto al portico della Casa Undici, a dondolare su quella sedia di vimini che gli Stoll avevano rubato da un negozietto di Long Island con l'aiuto del tocco magico di Penelope. Teneva le gambe distese e stava rilassato, come faceva sempre dopo un lungo allenamento. Le due semidee gli saltarono al collo facendogli prendere un colpo.

«Devo assolutamente provare quest'arco!» esclamò ridendo Nerea, saltellando sul posto. Avevano appena finito di raccontare al maggiore dei Castellan tutto ciò che era accaduto durante la loro impresa, così euforiche per i doni ricevuti che non riuscivano a starsene zitte e quindi sovrapponendo spesso le loro voci.

«Perché non chiedi a Lee? Dovrebbe essere libero questo pomeriggio» propose Luke, sulle cui ginocchia stava ora seduta Penelope.

Nerea arrossì e divenne un peperone. Più volte aveva provato a negare la più che evidente cotta che aveva per il figlio di Apollo, ma alla fine Travis e Connor, con l'aiuto di Silena e Drew, erano riusciti a cavarle fuori una confessione. «Ma no, sarà occupato...»

I due figli di Ermes le scoccarono due identiche occhiate alla: "mh, davvero?".

La dodicenne sbuffò e si sistemò nervosamente le lunghe trecce. «Va bene, va bene, glielo chiedo...» Mentre s'allontanava la si sentì borbottare qualcosa su un discorso ben costruito e possibilmente privo di borbottii da snocciolare a Lee.

Luke prese a giocherellare con le ciocche dei capelli di Penelope, lasciati sciolti lungo la schiena. La valle era placida e piena di sole, le cicale colmavano il suono con il loro canto, le nuvole erano batuffoli di cotone nel cielo. Penelope prese un respiro profondo, godendo del profumo proveniente dai campi di fragole, baciati dai raggi solari. Un sentimento di stabile quiete le nacque nel petto, espandendosi pian piano tutt'attorno. Sorrise sentendosi a casa.

«E così,» esordì suo fratello «adesso dovrò insegnarti a combattere con due spade.»

Sulle labbra dell'undicenne spuntò un sorrisetto compiaciuto. «Veramente, no.»

«Come no?»

Penelope scese dalle ginocchia del fratello con un piccolo balzo. Cacciò la mano destra nella tasca dei pantaloncini, mostrando poi a Luke le due piccole fish che Achille le aveva donato. Il ragazzo le osservò curioso, le sopracciglia appena aggrottate. Poi, Penelope se le rigirò agilmente tra le dita e se le premette conto i palmi.

Pochi attimi dopo, le sue mani stringevano due bronzee spade perfettamente adattate alla sua presa. Le sopracciglia bionde di Luke schizzarono verso l'alto, mentre le sue labbra si schiudevano per la sorpresa. «Wow!»

«Achille ha detto che solo una deve appartenere a me, l'altra posso darla a chiunque voglia» affermò lei, allungandogli la spada destra. «Questa è κρυπτεία, la gemella di αλήθεια.»

Luke prese l'arma tra le mani, ammirando il luccichio della lama in puro bronzo celeste. «Cose nascoste e verità» tradusse.

Penelope annuì. «Ho pensato di darti quella perché tu scrivi con la destra e ti trovi più comodo con quella mano. Che ne dici?»

Il ragazzo studiò attentamente l'arma che stringeva tra le mani, lo sguardo che saettava da essa a quella che Penelope aveva ancora in mano. Erano una coppia di spade gemellate, perfettamente identiche, lunghe 80 centimetri precisi con tutta l'elsa. A quanto Penelope aveva capito osservandole a lungo non erano tipiche spade greche, ma spade celtiche. Ancora si chiedeva come mai Achille le avesse donato quel tipo di armi. Le due else erano avvolte da scuro cuoio, i due pomelli in argento ed avevano incastonate le stesse piccole pietre di ossidiana che v'erano sulle fish.

Quando tornò a guardarla gli brillavano gli occhi ed un ampio sorriso gli attraversava il viso. Lei, di riflesso, sorrise. «Grazie, Penny! E' fantastica!» Luke si alzò in piedi e si mosse un po', testando l'arma. «Si adatta perfettamente alla mia mano! E' incredibile!»

«Ed è assurdamente leggera, vero?»

«Sì, ma non troppo. Perfettamente bilanciata. Mi chiedo a chi appartenessero.»

Penelope si strinse tra le spalle. «Achille ha detto che una sua conoscente gli aveva chiesto di darmele, ma non ha detto chi. E poi sono spade celtiche, quindi dubito fortemente appartenessero ad un eroe greco.»

Luke pareva non riuscire a distogliere lo sguardo dall'arma. Continuava a rigirarsela in mano, un sorriso estasiato sul viso. Pareva un bambino alle prese con il suo giocattolo preferito e lei fu felicissima di vederlo così. Suo fratello la guardò e provò un affondo a tradimento.

Lei parò appena in tempo il colpo. «Ah! Mancata!»

Luke rise e lei non riuscì a non fare altrettanto. «Andiamo a provarle?»

«Speravo me lo chiedessi.»













































{ Nota di Moony }
Buongiorno a tutti! Come state?
Ho voluto pubblicare questo capitolo perché un po' mi annoiavo ahah. Vi dico: si tratta di un'introduzione. Le spade di Penelope e Luke (Alétheia e Krypteía, per chi non conoscesse il greco) saranno elementi più che fondamentali nella storia e avevo quindi bisogno di introdurle un pochino. Inoltre, ci terrei a ricordare che questo sarebbe una sorta di flashback, perché è ambientato durante la prima impresa di Penelope (quindi quando lei aveva 11 anni).
Mi dispiace dirvi che non inizierò a pubblicare prima di Giugno, perché a scuola sto avendo una marea di verifiche (gli studenti mi capiranno ahah) e non ho tempo per scrivere. Questo capitolo lo avevo pronto da tempo e mi annoiavo, quindi... eccolo qua!

Ci si sente, stay tuned! ♡

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