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00. Il sogno

𝐏𝐄𝐍𝐄𝐋𝐎𝐏𝐄

IL SOGNO, ANCHE SE POI SOGNO non fu più, di Penelope iniziò in modo ben diverso da solito. Ed il solito era, per lei, il vedersi il coloratissimo tappeto orientale del salotto della Casa Grande andare a fuoco sotto gli occhi. Perché?, vi chiederete. Be', ve l'ho detto che le piaceva dar fuoco alle cose.

Ma questa è, di nuovo, un'altra storia.

Questa volta il sogno iniziava in un vicolo avvolto dal buio di una notte limpida e fresca. La stretta stradina correva nel mezzo di due alti e possenti edifici, dalle pareti costituite di mattoni rossi sui quali i soliti teppistelli - o forse, solo ragazzini che volevano divertirsi - avevano lasciato il proprio segno con delle bombolette spray. Dalla strada principale venivano le luci colorate di un'insegna al neon, un ristorante.

La luna splendeva in cielo, illuminando con la sua argentea luce una città che aveva catturato tutte le sue stelle. Una brezza leggera, dal profumo di primavera che si mescolava all'odore acre di un'officina ancora aperta, soffiava e smuoveva le cartacce lasciate in terra. Lontani, quasi ovattati, venivano i suoni ed i rumori della città, la quale non aveva la minima intenzione di dormire.

«Questo va bene?»

«Mh... no, cercane un altro.»

«Non va bene perché è di birra, lo so. Ma deve essere proprio di CocaCola? Sei schizzinoso, Castellan.»

«Non sono schizzinoso. E' tradizione.»

«Sì, certo.»

Una bambina si dondolava sulle punte dei piedi, guardandosi intorno con occhi gonfi e grevi di sonno. Su, sulla punta, e poi giù, sul tallone. Le scarpe che portava ai piedi erano state allacciate in modo davvero singolare: i lacci erano tutti avviluppati attorno alle sue caviglie sottili. Come ciliegina sulla torta, i fiocchi erano stati ben fatti e stretti.

La piccola soffocò uno sbadiglio dietro una mano. «Allora, quanto vi ci vuole? Ho sonno.»

Un rumore di vetri che cozzavano l'un l'altro riempì il silenzio, ed una ragazza drizzò il capo. Stava china su delle casse di bibite, bottiglie in vetro contenenti i più disparati tipi di alcolici: whiskey, vodka, gin, per la maggior parte birra. Nella luce lunare, i suoi occhi azzurrissimi luccicarono di vivacità parendo un cielo stellato.

«Senti, Penny, o giochiamo o si dorme. La scelta sta a voi, capitano» disse, ponendosi poi le mani sui fianchi con uno sbuffo. Avrà avuto dodici anni, non di più.

Il viso della bambina s'illuminò e Penelope sorrise nel vedersi sorridere. «Giochiamo! Giochiamo!»

Un secondo ragazzo drizzò il capo, anche lui stava chino sulle casse di bottiglie. «Allora perché non ci aiuti a cercare il tappino giusto?»

Sulle labbra della piccola Penelope si dipinse quel suo famoso sorrisetto da volpe, che le luccicò nello sguardo. «Voi siete i grandi, voi procurate il necessario.»

«Ah, sì?» Sul viso di Talia s'aprì un sorriso malandrino. Scavalcò una cassa di bottiglie e tese le braccia verso la bambina. «E tu sei la piccola, tu ti becchi il solletico!»

La piccola rise, cercando di scappare alla più grande. Talia le passò le mani sui fianchi e prese a farle il solletico, facendo sì che un gridolino divertito, agglomerato in una risata, sfuggisse alle sue labbra. Nella notte, le sue risate si dispersero con la brezza fresca.

«Trovato!» esclamò Luke, interrompendo le risate della sorellina. Scavalcò anche lui la cassa e tornò a sedersi sull'asfalto, vicino a tre zaini pieni di vestiti rubati e cibo in scatola, anch'esso rubato. Tra le mani aveva una bottiglietta di CocaCola in vetro. Estrasse il pugnale, il cui bronzo luccicò nella luce, e con pochi istanti la aprì, ottenendo il tappino. «Giochiamo?»

Penelope accorse e gli sedette di fronte, con lo spirito della risata ancora sul volto smagrito. In terra stavano alcune stecche di legno, ricavate dalle stesse casse di bottiglie nelle quali Luke e Talia stavano cercando. Un piccolo e tiepido fuoco bruciava tra esse, illuminando di una luce soffice e rassicurante l'asfalto grigio.

Talia le si sedette accanto e la prese in braccio, facendola sedere tra le sue gambe. «Dovete ancora spiegarmi come si gioca, vi ricordo»

La piccola Penelope non sembrava più avere tanto sonno. Le brillavano gli occhi. «E' un po' come giocare con le monetine, ma le regole ce le siamo inventate noi. Si fa saltare il tappetto e, se cade di faccia, chi lo ha tirato ha perso e gli si viene tolto un punto. Con un massimo di cinque punti tolti, il giocatore deve subire una penitenza dagli altri.»

«E la penitenza sarebbe?»

La piccola Penelope mostrò le mani e si mise a fare l'elenco sulle proprie dita. «Solletico, rimozione delle scarpe, spuntare una ciocca di capelli, acqua fredda in testa...»

«Magari quest'ultima no, eh» obiettò Luke, rigirandosi il tappetto tra le dita.

«Ma è divertente!»

Luke e Talia si scambiarono uno sguardo, sorridendo. Il ragazzo sospirò. «E va bene, facciamo anche quella...»

Talia passò le dita tra i capelli della piccola Penelope, districando alcuni nodi. «E se il tappetto non cade di faccia?»

«Si guadagna un punto» rispose Penelope. «E più punti si hanno, meno le penitenze che si ricevono sono gravi. Capito?»

«Noi lo chiamiamo: "il gioco della fortuna"» affermò Luke. Negli occhi di zaffiro la luce del fuoco danzava ipnotica.

Talia annuì, sorridendo. «E ci credo, se questa non è fortuna!»

Penelope osservò a lungo i tre semidei giocare, avvolti dalla dolce luce del focolare. Ricordava quel gioco, infatti lei e suo fratello ancora avevano l'abitudine di giocarci, nei momenti di noia. Se l'era inventato lui, quando lei aveva trovato in terra un tappetto di CocaCola e se l'era tenuto stretto in mano per giorni e giorni, senza mai lasciarlo andare.

Il momento risaliva ad alcuni giorni dopo il loro incontro con Talia e lei lo conservava gelosamente nella sua memoria, consapevole di quanto fosse prezioso. La notte era fresca e limpida, ma tra le ombre la sé bambina non riusciva a smettere di vedere i mostri che strisciavano e sibilavano.

Si guardò, guardò suo fratello, guardò Talia. La figlia di Zeus sorrideva di un sorriso le illuminava il viso di alabastro, mentre lanciava in aria il tappetto o le passava le dita tra i capelli, con delicatezza. Luke anche sorrideva, guardandole con negli occhi una dolcezza che Penelope conosceva molto bene.

La cosa bella era che tutti e tre stavano sorridendo. Come se non fossero stati tre ragazzini alle prese con il mondo intero, mondo che pullulava di pericoli su pericoli pronti a crollare sulle loro spalle. Come se non fossero solo tre ragazzini, giovani eroi di loro stessi e dei loro giorni. Stavano bene, perché erano insieme. Questo era ciò che contava.

Poi, però, quel così bel sogno che lei non avrebbe più voluto lasciare prese una piega che non le piacque affatto.

Dai due alti palazzi s'allungavano ombre fredde e squadrate, proiettate sull'asfalto dalla luce lunare. Alle sue spalle s'udì il rumore sordo di un passo strascicato, difficoltoso.

Si voltò, e dalle ombre sputarono un paio di grosse mani. Le dita lunghe e affusolate, sottilissime, si strinsero sulle sue spalle e la trascinarono via. L'ombra la inghiottì e lei si ritrovò a vorticare nella freddezza dell'oscurità come una foglia in balia del vento autunnale.

Quando riapparve, ebbe l'orribile sensazione che tutte le molecole del suo corpo fossero state separate con forza l'una dalle altre, e poi riposte al loro posto con un colpo solo, secco. La testa le girava un poco e si sentiva disorientata.

Ma lo stordimento durò poco, troppo per i suoi gusti.

Quando la sua testa smise di vorticare e la sua vista tornò nitida, comprese di trovarsi su una spiaggia. I suoi piedi affondavano in una sabbia tremendamente calda.

La spiaggia del campo.

Il sole era, di nuovo, in procinto di tuffarsi nel mare. La donna era, di nuovo, lì sulla battigia.

Questa volta non le porgeva la mano. In piedi sulla battigia, con l'acqua salata che, allungandosi sulla sabbia e travolgendo le sue caviglie, pareva quasi fremere al suo tocco. Come se... come se lei fosse stata parte del mare e questo, trepidante ed impaziente amante, la volesse indietro.

Come spuma del mare era la sua pelle, bianca come ossa. Gli occhi erano due pietre di scurissima onice incastonate nel marmo più candido che avesse mai visto. Al loro interno, non v'era ombra della pupilla, perché il nero pareva divorarsi ogni cosa, persino la sclera. Totalmente neri.

«Diranno che la colpa è tua, ma tu non dar loro ascolto.» Aveva voce graffiante come vetro, pareva il suono delle rocce che raschiano l'una sull'altra, consumandosi. «Serrate le labbra della bocca feconda.»

«Cosa?» Penelope, spaventata, mosse due passi indietro. La sabbia scottava come sotto il sole di mezzogiorno. «Chi sei? Cosa significa?»

La donna scosse il capo, abbassando per un breve momento lo sguardo alle proprie mani. «Non ho molto tempo, giovane eroina. Lascia che sia io ad avvertirti, prima che la verità ti colpisca con violenza.»

La sabbia continuava a scottare ed il giorno si stava spegnendo. «Di cosa devi avvertirmi? Chi mi accuserà?»

«Serra le labbra della bocca feconda, Penelope» ripeté la donna. «S'è preso gioco di te.»

Penelope indietreggiò di nuovo quando l'altra si fece avanti. Zoppicava e camminava con difficoltà, come se facesse fatica a muovere passi sulla terraferma. Si sarebbe messa a correre, ma la donna fu ben più veloce di lei nonostante lo zoppicare.

Le lunghe e sottili dita della creatura - perché umana non poteva essere- si serrarono attorno ai suoi polsi, impedendole di fuggir via. La trattennero sul posto con un'indicibile forza, innaturale e mostrusa, intensa come la forza del mare che infuria e inghiottisce e travolge. Fu questione di pochi attimi, istanti fuggenti ed effimeri.

La costrinse ad aprire un palmo. Aveva mani fredde e viscide, come se la sua pelle fosse squamata. «Ti ha ingannata» disse, tenendole con forza il palmo spalancato. «Non è come credete, fate attenzione. E' già con voi. E' già con te.»

Sollevò l'altra mano e le sue dita tremarono. Accostò tra loro i due palmi, lasciando tra essi un sottilissimo spazio vuoto, e subito dopo Penelope avvertì una piccolissima scossa elettrica diramarsi dalla sua mano fino alla punta delle sue dita. Era come tenere in mano un fulmine.

Quando la creatura allontanò la mano dalla sua scoprì che, effettivamente, così era. Sul suo palmo roteava una piccolissima perla trasparente, al cui interno vorticavano tanti e minuscoli fulmini azzurrognoli. Rilasciava una vivida luce biancastra sulla sua pelle.

«S'è preso gioco di te» ripeté la sua interlocutrice. Lei alzò il capo e la guardò, rabbrividendo nell'incontrare quel paio di vuoti occhi. «S'è preso gioco di te e la sua colpa ricadrà su di te. Siete ancora in tempo, tornate indietro. Addosseranno a te la colpa.»

«Chi? Chi si è preso gioco di me? Chi mi addosserà la colpa?»

Proprio quando le sottili labbra della creatura si schiusero ancora, rivelando con una parola stroncata sul nascere una dentatura affilata e biancastra, una seconda scossa elettrica si diffuse nella sua carne. Questa volta, ben più potente della prima. Ogni cosa venne invasa dal bianco ed il sogno si perse come polvere portata via dal vento.

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