3 / Ci rivedremo nel Nirvāṇa
Novonikolaevsk, Siberia, 15 settembre 1921.
La neve cadeva nera, in Siberia.
Roman la guardava in silenzio, con la fronte appoggiata alle sbarre della cella. L'ultimo pestaggio da parte delle guardie bolsceviche gli aveva ridotto l'occhio destro ad una massa informe di sangue, senza tuttavia levargli l'uso della vista.
Erano soltanto i colori che lo circondavano ad esserne usciti sfalsati, ma non vi era nulla di cui preoccuparsi. Presto tutto sarebbe diventato nero, e il suo spirito avrebbe preso il controllo totale dell'universo: questa era una delle poche prospettive che non avevano mai mancato di consolarlo.
«Prigioniero 32!»
Roman si voltò lentamente verso la porta della cella, allungando un'occhiata gelida alla guardia che aveva osato disturbare le sue meditazioni.
«Hai una visita.» Il chiavistello cigolò e la guardia spalancò la porta, per poi richiuderla qualche istante dopo.
Roman dovette strizzare l'occhio buono, per riuscire a mettere a fuoco il visitatore da quella distanza. Riconobbe all'istante il kesa giallo-ocra dei monaci buddisti, ma senza riconoscerne ancora l'identità.
Roman ne aveva incontrati parecchi di monaci sul suo cammino, ma raramente aveva loro rivolto la parola. Malgrado il suo vivo e costante interesse religioso, era sempre stato troppo occupato negli affari di guerra e di stato per poter discutere riguardo al suo spirito e alla sua missione terrena – sempre che ne fosse mai esistita una.
Il visitatore mosse i primi passi nella sua direzione, malfermo sulle gambe. Il viaggio doveva essere stato particolarmente stancante per un uomo della sua costituzione, e la diffidenza di Roman si sgretolò dopo qualche secondo.
«Permettete.» Gli si avvicinò, lo prese per mano e lo accompagnò fino al letto. Si maledisse più volte per non aver trovato il tempo di rimetterlo in ordine, ma il monaco non parve prendersela.
Si accomodò calmo sul materasso, con le dita legnose che facevano capolino dalle maniche della giacca troppo larga, e sul suo volto si dipinse un largo sorriso gioioso.
Roman rimase a fissarlo, quasi ipnotizzato da quel ringraziamento che non aveva avuto bisogno di parole, voltate ormai le spalle alla neve nera. Incuriosito, decise di parlare per primo: «Voi mi conoscete, lama?»
Il monaco, annuendo, trasse fuori dalla tasca una fotografia ingiallita e lisa dalle intemperie. La porse a Roman, battendovi sopra l'indice.
Gli occhi del prigioniero si riempirono di lacrime, e gocce rossastre stillarono dalla palpebra spezzata.
«Mahākāla, ti sei già dimenticato di me?»
«No...» Roman cadde in ginocchio al cospetto del monaco. Ora il suo volto gli era del tutto familiare, come quello di un vecchio amico di famiglia. «Non mi sono affatto dimenticato, Oceano di Saggezza.»
Stringendo fra le dita la carta ormai guasta, parve riacquistare la completa cognizione di sé, del tempo e dell'uomo che aveva davanti.
Rammentava bene quando fosse stata scattata quella fotografia: tre anni prima, il suo esercito si era spinto verso il confine meridionale della Mongolia e Roman si era rifugiato a Lhasa, chiedendo aiuto ai monasteri buddisti.
L'unico monaco che aveva accettato di indicargli la via più diretta per tornare in Mongolia era stato proprio lui, Thubten Gyatso, il tredicesimo Dalai Lama, il suo Oceano di Saggezza; e Roman aveva eternato per sempre la loro amicizia facendosi fotografare da uno dei sottoposti.
«Perché siete venuto qui?»
Oceano batté il palmo sulla spalla di Roman. «Per accompagnarti.»
«Vi cacceranno via» rispose aspro il prigioniero, girando la testa verso la porta sbarrata. «Quei bastardi rossi sanno almeno chi siete?»
Oceano scosse la testa, ma non smise mai di sorridere. «Non ha importanza, Mahākāla. Loro non sono altro che le catene che tengono il tuo spirito inchiodato in questa dimensione... ma presto tu ne verrai liberato.»
Roman si rialzò e intrecciò le mani dietro la schiena, una vecchia abitudine cui l'Accademia Militare di San Pietroburgo l'aveva abituato per costringerlo a mantenere a tutti i costi la postura marziale. «Quegli assassini... quegli schiavi senza morale.» La mascella dell'ex dittatore di Mongolia si contrasse istintiva sotto il peso della memoria. «Hanno ucciso il mio imperatore insieme alla sua intera famiglia, gettando la Russia nel caos. Perché devono essere loro ad uccidere anche me?»
L'espressione serena di Oceano si velò di un retrogusto malinconico, a malapena dissimulato dal verdetto: «Loro sono destinati ad un eterno saṃsāra di morte e rinascita, Mahākāla. Continueranno a reincarnarsi in animali e in spiriti finché la loro anima non diverrà sottile come la fotografia che hai fra le mani. Ma tu... tu sei il Grande Nero!» I suoi occhi a mandorla parvero risplendere di un'intensa luce interiore. «Già posso vedere la corona di teschi cingere le tue tempie, mentre le tue sei braccia possenti mettono in fuga la luce del giorno!»
Roman si lasciò inebriare da quella potente visione egemonica, socchiudendo la bocca e permettendo al sangue di colargli fin dentro il collo di pelo dell'uniforme. Adorava pensarsi divinità, e la sua stessa esistenza pareva testimoniare ciò che Oceano aveva sempre pensato riguardo al suo conto: lui era Mahākāla, l'emanazione del Grande Nero e la prima reincarnazione di Gengis Khan, venuto al mondo con l'unico obiettivo di porre l'umanità sotto il suo diretto controllo.
Dopotutto, il nero era sempre stato parte integrante della sua vita: neri erano stati i capelli della madre, nero era stato l'abito che aveva dovuto indossare per il suo funerale; nero era stato il cielo di San Pietroburgo quando Lenin aveva preso il potere; neri erano stati gli occhi dei cosacchi che avevano scelto di seguirlo fino in Mongolia, e nere erano state le bandiere che lui aveva affisso sulla muraglia di Urga per onorare la memoria dei Romanov; nero, infine, era stato il suo stallone, morto poco tempo prima della sua cattura.
Combattendo contro i tedeschi nel Primo Conflitto Mondiale si era inoltre guadagnato l'epiteto di Barone Nero; ma adesso gli scontri a cui aveva partecipato nel corso dei suoi intensi trentacinque anni di vita avevano finito per accavallarsi l'uno sull'altro, tramutandosi in un'insipida brodaglia di urla, sangue e ansiti angosciati.
Tutto ciò da cui Roman sarebbe stato ben presto purificato, per accedere alla dimensione suprema tanto decantata e promessa dal Dalai Lama.
«A che cosa stai pensando, Mahākāla?»
«Al Nulla, Oceano di Saggezza» rispose Roman, voltandosi verso le sbarre. Socchiudendo la palpebra sana, riuscì a scorgere il plotone d'esecuzione già schierato a pochi metri dal muro. Nevicava ancora, e il nero aveva finito per ricoprire l'intero accampamento. Roman sorrise, nell'immaginare la Russia piegata sotto quella coltre scura. «Presto sarò laggiù.» Fece per restituire la fotografia al monaco, ma Oceano scosse la testa.
«Portala con te. Ho promesso di accompagnarti fino alla fine.»
Roman s'inginocchiò per l'ultima volta al cospetto del tredicesimo Dalai Lama del Tibet. Avrebbe tanto voluto guardare di nuovo il suo volto quieto, ma l'urlo della guardia lo costrinse a distogliere lo sguardo.
«Prigioniero 32, Roman Nicolaus von Ungern-Sternberg! È arrivato il momento!»
Roman baciò piangendo la mano grinzosa di Oceano. «Arrivederci, maestro.»
«Arrivederci, Mahākāla.» Ancora seduto sul letto in disordine, Thubten Gyatso gli rivolse un grande sorriso benevolo.
Roman non smise di guardarlo e di piangere neppure quando la guardia lo trascinò oltre la porta. Si sentiva così debole – debole e umano; ma sapeva che ben presto tutto quel dolore si sarebbe estinto, e il suo spirito sarebbe asceso al cielo, parte di un universo più puro e giusto di quello che lui aveva abitato fino ad ora.
«Ci rivedremo nel Nirvāṇa» udì ancora mormorare Oceano di Saggezza, prima che la guardia lo bendasse e lo scaraventasse con un calcio nella neve fresca.
Ora perfino l'occhio sano di Roman vedeva la realtà come un'infinità distesa di tenebra.
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