Quadro Astratto
Destiny guardava fuori dalla finestra con la sua solita aria assente. Era da un po’ che la trovavo distratta, forse qualcosa la preoccupa, pensavo, o forse è semplicemente stanca dal continuo viavai di questa pestifera città…
città, le si può davvero attribuire questo nome? Un surrogato di modellino lego con le tesserine di cemento ammassate l’una sull’altra da un bambino distratto che sadico aspetta di vederle precipitare giù.
No, quella non era una città e forse non lo sarebbe mai stata.
Eppure mi piaceva starci, lo trovavo incredibilmente poetico, magari semplicemente per una mia presunta mania narcisista di cercare di trovare il bello anche quando di bello ne rimane davvero ben poco.
Era quella l’idea che mi ero prefissato nella mia vita: diventare un silenzioso ricercatore dell’effimero, del particolare, dell’artistico nel senso più vero del termine e devo dire che per un po’ mi era anche andata bene.
Col senno di poi, però, credo di essere stato un semplice ubriaco di letteratura con la testa totalmente fottuta dalla poesia e dalle centinaia di libri che avevo letto, un po’ per noia, un po’ per curiosità.
Sono nato in un’epoca sbagliata, mi ripetevo spesso, ma in verità cosa sarebbe cambiato? Tornare indietro per poi vedere piano piano fallire tutto quanto, lacerarsi al suolo e ritornare esattamente com’era stato. La storia, le rivoluzioni, non erano servite a niente, se non a aumentare una presunzione già non troppo misera insita nell’animo umano.
“Dimostriamo di poter cambiare il mondo, al dia-volo il governo, al rogo la tirannia!” e poi i rivoluzionari si trasformano nei carnefici, i paladini del popolo nei loro aguzzini e quel circo improvvisato decide di smontare il tendone e di trasferirsi da qualche altra parte.
Ma chi ha più voglia di parlare di rivoluzioni, di morte, di trasgressione! La gente è diventata pigra o forse è solo stanca, stanca di sentire sempre la solita barzelletta a distanza di qualche decennio e ormai non credo che faccia nemmeno ridere più.
«Dovremmo tornare al baratto!» diceva spesso Destiny «sarebbe tutto più semplice se ognuno producesse il proprio» e si ostinava a seguire le sue diete biologiche e a tentare di coltivare le sue piantine in mezzo metro quadro di balcone.
L’avevo conosciuta a una mostra d’arte contemporanea due anni prima. Era impossibile non notarla:
aveva una gonna viola lunga fi no ai piedi, uno scialle verde che le copriva interamente le braccia e il bu-sto e una crocchia di capelli rosso fuoco legati alla meno peggio.
Ricordo che stava ferma davanti a una tela totalmente bianca con al centro un puntino nero e piangeva. Mi avvicinai a lei per chiederle se stesse bene. Si voltò lentamente fi ssandomi con i suoi enormi e acquosi occhi verdi e disse solo «portami via!».
Si era appena laureata in filosofia e di lì a breve avrebbe dovuto ricominciare a studiare per il dottorato.
Credo chiacchierammo su tutti gli argomenti esistenti, o almeno su quelli che conoscevo e più parlava più mi affascinava. Perfino il suo nome spalancava le porte di un abisso e questo mi mandava totalmente in estasi.
«Parlo solo con chi vale la pena di parlare», diceva sempre e il fatto che quella sera non si fermò nemmeno per un secondo mi lusingò molto. «Ma dimmi di te» disse a un certo punto, interrompendo bruscamente il suo commento all’ultimo film che aveva visto.
«Io, beh» biascicai cercando di trovare qualcosa di interessante su di me «non c’è granché da dire, sono alla ricerca di una risposta che possa soddisfare que-sta tua domanda e a venticinque anni non l’ho ancora trovata...».
Destiny mi osservò con quell’aria sognante che ben presto avrei imparato a conoscere, sorrise e mi baciò senza dire nulla. Poi mi lasciò il suo biglietto e dicendo solo «ci vediamo presto» sparì.
Mi ci volle un secondo per capire che non avrei più potuto fare a meno di lei.
Quel nostro piccolo appartamentino ci bastava: l’affitto non era troppo caro e fi nché c’erano i libri e la musica, per noi non ci sarebbero stati problemi.
Non avevamo televisore in casa, «l’unica cosa degna di essere vista su di uno schermo sono i film» diceva Destiny «e i film si guardano al cinema». Anche quando vivevo da solo non sentii mai il bisogno di acquistare una scatola parlante per cui il suo punto di vista non faceva altro che affascinarmi ancora di più.
La sera ci sedevamo per terra su di un grosso cuscino accanto al mio vecchio giradischi e mettevamo su uno dei nostri vinili. Quel suono più sporco rispetto alla nitidezza dei CD rendeva la musica più autentica, più diretta e riempiva di misticismo l’atmosfera.
Facevamo l’amore lì per terra, accanto al giradischi che continuava a suonare e in base ai dischi, sembrava che ogni sera fosse diverso e nuovo, come se avessimo tante sfumature da esplorare e scoprire e di certo non avevamo tutta questa fretta di esaurirle.
Del resto, perfino sul sesso le discussioni non man-cavano. Destiny si lamentava spesso del costo sempre più caro dei preservativi. «È vergognoso!» diceva «parlano tanto di sesso sicuro e poi perfino farlo diventa consumismo! Ovvio che i più indigenti fanno dieci figli, a questo prezzo! Dovrebbero essere gratuiti!».
Mi faceva ridere quando sclerava così per le tante, troppe cose che non vanno, ma sapevo che aveva perfettamente ragione. Speculare perfino sulla sessualità, ridicolo! Possibile che anche dietro all’intimità debbano esserci gli interessi di qualcuno? Anche questo diventa un fatto di routine, un’abitudine, come mangiare o bere e senza nemmeno accorgersene, si viene controllati da un’istituzione più grande e più potente di noi in grado di creare un business perfino sull’amore.
Ma la domanda, in fin dei conti, resta la stessa: c’è un’alternativa?
Destiny adorava i bambini, certo sempre a modo suo, ma pensava che gente come noi non era adatta ad avere figli. «Siamo troppo onesti e troppo strani» diceva «in meno di una settimana già li avremmo persi».
A me l’idea bene o male non dispiaceva, ma del resto cosa avrei potuto dar loro davvero? Tanti libri e un ossessivo desiderio di ricerca... che se ne sarebbero fatti del mio patrimonio?
Schiacciati inesorabilmente sotto il peso della piattezza, alla fine avrebbero dovuto arrendersi al pensiero comune oppure, nella peggiore delle ipotesi, avrebbero seguito le mie orme.
No, per amore di quei dolci lamentosi esserini, non ero pronto a avere figli e probabilmente non lo sarei stato mai!
Le giornate nella loro monotonia erano sempre ricche di ispirazione. Ci svegliavamo intorno alle sette e Destiny sedeva in vestaglia alla sua scrivania stracolma di carte a studiare da appunti confusionari un Kant o un Freud o chissà chi altri. Adoravo osservarla così, immersa in quello studio che la faceva impazzire, certo, ma che amava oltre ogni immaginazione.
Quando qualcosa non la convinceva, iniziava sempre a rigirarsi una ciocca di capelli con la matita; invece quando un concetto la colpiva particolarmente, alzava lo sguardo verso la finestra e a labbra socchiuse ripeteva quella frase per imprimerla meglio nella sua memoria.
Sembrava un quadro antico, così bella nella sua eccentricità, con i riccioli scombinati che parevano volersi sempre muovere, anche se si ostinava spesso a tenerli legati con un grosso elastico. Erano irrequieti come lei, così vivi, così ribelli.
Come un idiota restavo a guardarla mentre si pre-parava per andare in facoltà, canticchiando una canzone di De Gregori o di De André. Non glielo dissi mai, ma era tutta la mia vita.
«Ti sei incantato?» interrompeva dolcemente le mie riflessioni su di lei. Sorrideva e proseguiva «farai tardi, sai che dopo ti rimproverano» e con un po’ di malumore mi dirigevo al mio lavoro.
Lavoravo per una piccola casa editrice e mi occupavo di graf i ca e design di libri. Non era male, anzi la maggior parte del tempo lo trovavo anche divertente.
Quello che preferivo di più era avere la possibilità di leggere nuovo materiale appena scritto e praticamente inedito; esclusi lo scrittore, ovviamente, qualche suo parente/amico e il direttore della casa editrice, ero l’unico ad aver letto quelle pagine fino al momento della stampa e della pubblicazione e questo mi faceva sentire incredibilmente onorato.
Curare la grafica di un volume significa anche conoscerne in linea più o meno generale la storia e potersi immedesimare in essa. Del resto, la prima cosa che si osserva in un libro, senza voler essere troppo prosastici, si sa, è la copertina: un libro può anche essere mediocre, ma se in copertina c’è un’immagine accattivante, è matematicamente provato che qualcuno quanto meno lo prenderà dallo scaffale e ne leggerà il riassuntino nell’ultima pagina.
Così, ogni giorno cercavo di calarmi nei panni di un personaggio sempre diverso per tentare di capirne il più possibile il punto di vista. La settimana prima ero stato un barbone.
Rimasi 24 ore consecutive in metropolitana senza avere uno spicciolo in tasca, seduto per terra con un cappellino accanto. Alla fine della giornata avevo raccolto appena cinque euro, senza contare le battute, gli scherni e persino gli insulti che inevitabilmente subii. La cosa per un po’ mi turbò parecchio e forse mi sentii anche in colpa per averlo fatto.
Ero stato un turista, un attore che a fine giornata con una doccia e una dormita in un letto vero si sarebbe riappropriato dei suoi panni di cittadino rispettabile e a distanza di qualche minuto avrebbe rimosso e dimenticato tutto.
Io volevo vedere il mondo, volevo sentirlo bruciare sulla mia pelle e percepirne la sofferenza e la brutale verità, ma non avevo fatto altro che fingere per un secondo, vestire i panni di chi avrei potuto essere, stare male, piangere per poi ritornare esattamente allo stesso punto di partenza.
«È inevitabile» diceva Destiny «ogni volta che ti spingi oltre a cercare di capirci qualcosa, vai perdendo un pezzo di te e non capisci nulla di più di ciò che già sapevi. Sì, il mondo fa schifo per definizione, ma che te ne sia reso conto e ci stia male per questo, non frega niente a nessuno... perciò fatti odiare, fatti pestare, fatti ammazzare anche, ma non permettergli di dire che le cose stanno così e che non possiamo fare nulla per cambiarle, perché, davvero, non posso credere che è solo la merda il nostro futuro!».
Se ne usciva sempre al naturale quando si infervorava e sì, adoravo quando lo faceva.
Aveva un modo di guardare alla vita che non ammetteva le sfumature intermedie, gli stereotipi, i luoghi comuni. Destiny credeva nelle persone, nella loro cultura e nella loro forza interiore; credeva che prima o poi il punto di rottura si sarebbe raggiunto e la gente avrebbe smesso di chinare la testa costretta dai suoi burattinai e avrebbe tagliato quegli invisibili, ma robusti fili a causa dei quali preferiva rimanere in silenzio, forse per paura, forse solo per ignoranza.
Credeva nella responsabilità che gli intellettuali hanno nei confronti della società.
«Se ti ammazzi a studiare senza poi far conoscere e usare quello che sai, a che diavolo è servito? Un’accozzaglia di nozioni ficcate in testa solo per beccarti un bel centodieci e lode e poi prese e buttate nel cesso!».
Per questo il pomeriggio, appena finiva di studiare, si dirigeva presso un caffè letterario lì vicino per spiegare e leggere i suoi filosofi a casalinghe, operai o ragazzini a cui la filosofia non era mai andata a genio.
Credeva nella forza delle parole ancor di più che nei fatti e s’infuriava ogni qualvolta se ne abusava per scopi tutt’altro che giusti, tramite abili manovre sofiste in grado di professare tutto e il contrario di tutto.
D
iverse sere ci ritrovavamo con un gruppo di amici in una vecchia cantina. C’erano sempre Chicca e Lia, entrambe colleghe di Destiny, Claudio il ragazzo di Chicca e Gabriele, un amico di vecchia data. La cantina apparteneva ai genitori di Gabriele, ma ormai erano svariati anni che fungeva essenzialmente da sgabuzzino e ripostiglio.
Là, in mezzo a vecchi fumetti, odore di muffa mischiato ai ricordi e la freddezza di una luce al neon, passavamo le nostre serate parlando, ridendo e soprattutto ascoltando musica.
«Che roba è?» aveva chiesto Claudio una sera indicando la maglietta di Lia.
La ragazza portava una gonna scozzese decisamente troppo corta e una maglietta nera, con stampato sopra uno smile giallo, sembrava allucinato, con gli occhi a forma di X e che mostrava la lingua.
«Questa è roba forte» aveva risposto la ragazza: aveva un cugino in America ed era sempre la prima tra noi a conoscere tutte le novità in fatto di musica «si chiamano Nirvana e credetemi, c’è tutta la rabbia del mondo nelle loro canzoni. Sembra non dicano nulla di sensato, invece caspita se il senso c’è!».
«Di che parlano?» chiese Destiny incuriosita.
«Di quello di cui parlano i ragazzi: sesso, droga, morte, fango».
«Facci sentire!» proseguì Destiny incuriosita. Così Lia tirò fuori dalla tracolla un disco che di lì a poco avrei cominciato a vedere in tutte le vetrine dei nego-zi musicali e che ben presto non avrei più smesso di ascoltare. «Che rock strano!» esclamai.
«No amici miei, questo non è rock: questo è grunge!».
Non erano anni semplici quelli lì. Eravamo i figli di coloro che avevano professato il sesso libero, i colori e il loro indiscusso, patetico e falso Peace and Love! e per un po’ gli era andata pure bene.
Il movimento piaceva, era incredibilmente pacifico e romantico e per una volta la gioventù guardava al futuro sorridendo, un po’ per ottimismo un po’ per l’LSD nel sangue. Ma poco importava insomma.
Erano gli indiscussi padroni del mondo e, guarda guarda, anche i governi erano dalla loro! Ma allora che cosa è successo? Basta un impiego a buon mercato, un posto di lavoro sistemato e tutti i buoni propositi, gli intenti farlocchi di voler cambiare il mondo se ne vanno dritti a farsi benedire.
È stato bello per un po’, fi nché anche questa, come tutte le cose del mondo, si è trasformata in business, denaro e commercio… è inevitabile, non ci si salva! L’anticonformismo, anche quello più reale, più sincero, si trasforma in una fottutissima moda ogni volta che si spendono soldi per costruirsi un’identità diversa, certo, ma comune a qualcun altro.
I punk volevano bruciare il mondo, inneggiavano a un’anarchia che credevano avrebbe riportato la giustizia e in cui, finalmente, tutti sarebbero stati alla pari di tutti, gay, barboni, prostitute e miliardari. “Al diavolo il governo! Si fotta la regina, bruci l’omologazione!”, meraviglioso, reale e sentito… ma quanti soldi regalavano a quella stessa economia che odiavano tanto per acquistare chiodi di pelle, borchie e maglie con una A cerchiata che li avrebbero omologati ad altre centinaia di ragazzi vestiti allo stesso modo?
Il punk, esattamente come quello stesso tanto disprezzato consumismo, sono nati per moda.
I Sex Pistols, per esempio, l’icona del punk inglese, sono nati come semplice, ma efficace propaganda pubblicitaria per un negozio alternativo a Londra, di proprietà di una donna, oggi nota stilista, i cui abiti sfilano in passerella e costano quasi una fortuna.
Allora noi chi eravamo? Non eravamo punk, né hippy, né metal. Non eravamo niente.
Eravamo i figli nati per sbaglio da quella generazione che aveva evitato di indossare il cappuccio e che era stata costretta a trovare il primo lavoro possibile per farci crescere nel migliore dei modi.
L’idillio dei figli dei fiori aveva ben presto lasciato il posto alla dura realtà, in cui “mettete dei fiori nei vostri cannoni” si era trasformato in “se non sparisci ti ammazzo!”. La maggior parte dei ragazzi che conoscevo era cresciuto con uno solo dei genitori; Destiny faceva eccezione: lei era stata adottata, forse anche per questo i suoi genitori adottivi stavano ancora insieme!
Crescendo, abbiamo visto fallire le rivoluzioni dei nostri padri: il ’68? Una barzelletta! Ci siamo fatti fregare tutto, ogni cosa è tornata esattamente com’era, se non peggio ancora; del punk rimaneva si e no qualche sporadica maglietta dei Clash e un po’ di ombretto nero; degli hippy non restavano nemmeno i pantaloni a zampa…
E da questo quadro di imba-razzante desolazione, impauriti, sporchi e incazzati, siamo usciti noi.
Cosa ci stiamo a fare? Non ne abbiamo idea. Cosa vorremmo fare? Fondamentalmente tutto e niente.
Cosa siamo in grado di fare? Meno di zero.
Siamo quelli che si sono stancati di lottare perché hanno visto fallire tutti quelli che ci hanno provato prima. Siamo sempre così malinconici perché sappiamo, sappiamo fin troppo bene che il cambiamento è necessario, ma non abbiamo la forza di agire…
probabilmente ci siamo arresi e l’unica arma che abbiamo per sopravvivere è rifugiarci in un passato che non abbiamo conosciuto e dare la colpa a loro, sconosciuti eroi distratti che hanno condotto una rivoluzione a metà e che hanno mollato quando erano a un passo dalla vittoria.
Alcuni ci hanno chiamato Generazione X, un intermezzo inutile tra un glorioso ieri e ciò che ancora deve arrivare. Credevano di offenderci, invece forse ci hanno dato la prima cosa reale nella vita a cui potessimo aggrapparci: un’identità.
Più che ascoltare quei pezzi, Destiny era maggiormente interessata a osservare le nostre espressioni adoranti che cercavano di mettere ordine allo strano groviglio di parole seppellite sotto una chitarra scordata.
Sapeva osservare le persone Destiny, le sapeva ascoltare, riusciva a scorgere nei loro occhi quel barlume di speranza, e perché no, di disperazione che rendeva le loro vite così interessanti. Eppure non era facile starle dietro: era come se il suo fosse lo spirito di un altro tempo che incarnava desiderio di libertà mista a un inconfondibile squisito istinto all’autodistruzione che la rendeva ancora più affascinante. Si fidava del mondo, sebbene dal mondo non avesse mai ricevuto granché.
Era americana di origine, abbandonata alla nascita in una clinica di quelle che si occupano dei bambini che nessuno vuole e affidata in adozione a due genitori fortunati. Non ebbe mai il desiderio di conoscere i suoi veri parenti, esattamente come non provò mai rabbia né odio nei loro confronti.
Non credeva in niente e contemporaneamente credeva in tutto: nello spirito del mondo che aleggia intorno a noi e che ci inonda e pervade costantemente.
«Come fai a non sentirlo?» mi diceva quando mi trovava buttato sul letto, spossato da una giornata lavorativa assolutamente deludente al cui termine riuscivo solo a dire: la vita fa schifo!
Si incazzava maledettamente ogni volta che lo facevo e, gesticolando in maniera quasi teatrale, si metteva a parlare di quanto ogni cosa intorno a noi emanasse una bellezza tale che, se tutti si limitassero anche solo per un momento per osservarla, la bruttezza non esisterebbe nemmeno.
«Non posso credere davvero che ci siamo arresi alla mediocrità, allo sporco, a questa polvere che inonda le nostre strade e ottenebra le nostre menti: è quello squarcio di rosso in mezzo al grigio che deve farci sperare, che deve farci cercare, non l’idea che prima o poi anche quest’ultimo finirà per venire inghiottito!».
Mi faceva ridere quando diceva queste cose e contemporaneamente mi dava sui nervi, solo perché fondamentalmente mi rendevo conto di quanto avesse ragione.
Col senno di poi, forse, avrei dovuto ascoltarla di più, o forse, chissà non sarebbe cambiato nulla comunque.
Destiny era una profetessa coi capelli rossi, una Cassandra dei nostri tempi incaricata di diffondere verità con ogni sua parola e destinata in ogni caso a non essere ascoltata. Forse il mondo non era pronto per una come lei e non lo sarebbe mai stato… o forse, era il contrario... chissà...
* * *
Una domenica mattina fui svegliato praticamente all’alba da un fracasso incredibile. Mi alzai di corsa, impaurito dall’idea che potesse esserci un ladro. Invece, trovai Destiny intenta a buttare sotto sopra il ripostiglio per uscirne vecchissimi attrezzi da giardinaggio.
«Potrei sapere che diavolo stai facendo?» le chiesi a metà tra l’addormentato, l’impaurito e l’infastidito.
«Mi sono proprio rotta!» esclamò Destiny senza nemmeno voltarsi a guardarmi. «C’è un quadrato di verde in non so quanti miliardi di ettari di cemento ed è ridotto uno schifo!».
Si riferiva al piccolo parco cittadino, un’area di ristoro, nel momento in cui era stato inaugurato, ben presto trasformato in una sorta di immondezzaio con spazio riservato ai drogati di turno.
«E immagino che ci penserai tu a rimetterlo a posto, no?» non riuscii a fare a meno di usare un tono sarcastico.
Solo in quel momento Destiny si voltò e con un’e-spressione raggiante e un sorriso che credo non di-menticherò mai, rispose «Certo che sì!».
Non tentai nemmeno di persuaderla a non farlo, non sarebbe servito assolutamente a nulla. Rimasi fermo a guardarla per qualche secondo, poi dissi so-spirando «va bene dai, mi vesto e vengo con te!». Con la stessa meravigliosa espressione di qualche attimo prima mi saltò addosso e mi abbracciò forte in segno di ringraziamento. «Forza, diamo alla natura un motivo per averci favoriti nell’evoluzione!» mi disse e io scoppiai a ridere, anche se sapevo che la sua, come al solito, non era una battuta!
Non c’era mai troppa gente in quel posto: era an-che abbastanza inquietante, squallido e terribilmente sporco. Iniziammo a togliere sacchetti di spazzatura e strane cianfrusaglie trovate in giro e, con mia grande sorpresa, qualche passante si unì alla nostra piccola impresa di pulizia.
L’area era molto piccola e, grazie alle braccia provenienti da più direzioni, alla fine non ci mettemmo molto a ridare nuova vita a quel breve spruzzetto di verde.
«Un piccolo varco finalmente!» sorrise Destiny.
«Che cosa vuoi dire?» le chiesi.
«Nulla» rispose sovra pensiero «Uno dei miei soliti strani pensieri!».
Era incredibile, ma solo con un po’ di buona volontà avevamo tolto, nel giro di una mattinata, anni e anni di sporcizia accumulata e in quel momento mi resi conto che ancora una volta la mia Destiny aveva ragione: lamentarsi non serve a niente, perché le cose da sole non si mettono a posto... bisogna prendere sempre in mano le redini delle proprie decisioni e assumersene la responsabilità.
Intento com’ero nelle mie riflessioni non mi accorsi inizialmente di ciò che Destiny stava osservando incuriosita.«Che guardi?» le chiesi.
Mi fece cenno con il capo indicando il cancello del parco.
«Sarà una mezz’ora che sta ferma lì a fissarci» mi disse.
Voltandomi vidi una bambina di dieci anni al massimo che ci guardava con aria assorta attraverso due enormi occhi blu. I suoi ricci capelli biondi erano legati in due dolcissime codine che le conferivano un’aria ancora più piccola e tenera.
Destiny le si avvicinò, per chiederle dove fossero i suoi genitori, pensai, ma ancor prima di aprir bocca la bambina disse «guarda: sta per piovere!» e corse via.
Rimasi stupito da quella frase: c’era un sole meraviglioso quella mattina e non c’era il minimo sentore di pioggia. Destiny continuava a guardare la strada dove la bimba era sparita poco prima.
«Forse è il caso che tu non lo faccia più» disse con tono cupo.
«Di che stai parlando, Destiny?».
«Perdonami» disse «sono solo fantasie... sono solo fantasie».
Col senno di poi avrei dovuto insistere di più per capire cosa volesse dirmi, cosa volesse farmi capire, ma tante volte diceva cose che non comprendevo e pensai scioccamente che anche in questo caso si trattasse di uno dei suoi strani pensieri.
Oggi so con certezza che avrei dovuto ascoltarla e che con quelle parole stava cercando di liberarmi da un assicurato, seppur voluto, stato di infelicità; oggi so, parlando in termini prosastici, che me la sono cercatae che la colpa è stata soltanto mia.
Ma oggi so anche che se l’avessi fatto, questa storia, la “mia” storia non avrebbe avuto motivo di esser scritta... Oggi so che questo strano e buffo raccontino qual è stata per un po’ la mia vita, iniziò proprio quel giorno... giorno in cui, senza rendermene conto, mi imbattei nel mio destino.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro