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La venditrice di palloncini

 La domenica successiva, come nostra abitudine, decidemmo di uscire a passeggiare un po', anche solo per accertarci che la città fosse ancora lì. Destiny cercava disperatamente alcune idee assurde da proporre ai ragazzi per la settimana dello studente. Io ero divertito dal suo entusiasmo, ma non riuscivo ad aiutarla, un po' per pigrizia, un po' perché, francamente, non avevo mai creduto a questo tipo di attività. 

«A quanto pare a breve ci saranno anche delle proteste a proposito del caro libri e dei tagli fatti alla scuola» mi disse per rincarare la dose. 

«Ovviamente!» esclamai ironico «tutto pur di prolungare le vacanze e non combinare assolutamente nulla. Ci fosse uno solo tra tutti quelli che fanno le manifestazioni che sappia per cosa sta facendo casino!». 

Destiny non rispose, impegnata com'era nelle sue riflessioni e, d'altro canto, sapeva fin troppo bene come la pensavo. Perciò, nemmeno ribatté. «Potremmo abbellire un po' il cortile della scuola...» disse più a se stessa che a me «è talmente spoglio e triste!». 

Impegnato com'ero a seguire il filo dei suoi ragionamenti, non feci caso all'uomo che camminava in direzione opposta alla mia finché, nel passaggio di quella stretta stradina, le maniche delle nostre giacche si toccarono. Spostando lo sguardo, trasalii quando osservai a pochi centimetri da me un viso troppo simile al mio, solo visibilmente più stanco e vestito con abiti eleganti di alta manifattura. Fu un attimo, quando mi voltai, qualche secondo dopo, aveva già girato alla prima curva sulla sinistra. «Destiny» le dissi perplesso, ma anche abbastanza divertito «credo di aver appena incontrato il mio sosia!». 

«Dicono che ce ne siano sette per ciascuno disseminati nel mondo» mi rispose mentre annotava qualche riflessione sulla sua agenda «sei stato davvero fortunato!». 

«Che strano» pensai. Non mi era mai capitata una cosa simile e mi aveva turbato abbastanza: c'era qualcun altro che viveva una vita totalmente distaccata e diversa dalla mia, ma con la mia stessa faccia? Più ci riflettevo più la cosa mi sembrava inquietante. I miei lineamenti potevano solo essere legati alle mie esperienze, al mio vissuto, ai miei geni perdio! Come poteva qualcuno avere il mio stesso viso e non essere me, con i miei pensieri, le mie ansie, le mie angosce?!? 

«Non preoccuparti» mi disse poi Destiny rendendosi conto che non parlavo più e sapendo che quello era sempre un brutto segno «capita prima o poi, chissà, tra qualche tempo magari conoscerai anche la mia di sosia, moglie di un ricco imprenditore, viziata e piena di soldi fino ai capelli! Non penso ci si possa considerare uguali solo perché per una strana combinazione biologica siamo nate con un viso molto simile. Tu mica sei la tua faccia, no?». 

Non risposi inizialmente, poi riflettendo sulle sue parole sorrisi, rendendomi conto che ancora una volta aveva perfettamente ragione. «Sono uno stupido, perdonami!». «Non sei stupido per niente» mi rispose Destiny seria «il problema è che sei fin troppo sensibile!». 

Continuammo a passeggiare perdendoci nelle nostre strane e originali riflessioni sullo scorrere del tempo, l'inquinamento e lo shopping. Era bello perdersi in quei discorsi terribilmente seri e nello stesso tempo strampalati in cui inevitabilmente andavamo a cadere. Si cominciava con una semplice domanda del tipo «che si mangia stasera?» e si circumnavigava l'enciclopedia atterrando sul capitolo della raccolta differenziata! Eravamo strani, non posso negarlo, ma di quella stranezza che ti fa sentire fiero fino in fondo di quello che sei. 

La quotidianità, la "normalità" non facevano per noi e nemmeno li desideravamo dopo tutto. Eravamo giovani, abbastanza tranquilli economicamente e innamorati, lo stretto necessario e indispensabile per essere felici... non servivano altri ammennicoli superflui e, del resto, troppe decorazioni non mi erano mai andate a genio! 

Sotto i nostri occhi le generazioni si alternavano e il mondo cambiava senza lasciarci nemmeno una ricompensa. Nel giro dei venticinque anni della mia esistenza, avevo visto alternarsi i movimenti, la musica, la moda per poi azzerarsi e ricominciare da capo. Del '68 non potevo ricordare nulla perché avevo solo due anni, ma ho un'immagine vaga degli ultimi hippies rimasti quand'ero ancora un bambinetto delle elementari. 

Il punk, beh quello sì che me lo ricordo! Si era trattato del periodo più strano, più incazzato e anche più divertente della mia vita. Non avevamo bisogno di nulla, se non di un altro motivo per protestare e ovviamente, per avere qualcosa da distruggere. C'era qualcosa di incredibilmente romantico nella nostra rabbia, come se fossimo stati i prescelti di un demone ubriaco per portare avanti una campagna fondamentalmente semplice: distruggere la società dalle fondamenta. 

Ma come fai realmente a farlo? Se ti manca la vita tranquilla a cui sei stato destinato prima ancora del tuo concepimento, che cosa ti rimane da fare? Eravamo stati solo dei pulcini travestiti da sciacalli che per un po' avevano pensato di poter cambiare le cose, ma di fronte alla società la resa è l'unica alternativa. Ancora oggi, ripensandoci, ho la pelle d'oca quando faccio caso a come non avevamo capito niente, a come eravamo talmente sicuri di avere il mondo tra le mani che persino quando la crisi c'è passata davanti, ci ha travolti, investiti, assorbiti nemmeno ci abbiamo fatto caso. 

Siamo quello che rimane dopo la marea, una generazione disincantata, stanca e completamente apatica. Forse, in fin dei conti ce lo meritiamo anche, anzi è tutta colpa nostra santo cielo! Abbiamo ostracizzato le nostre guide, i nostri sogni e tutti quegli ideali che, se avessimo avuto un po' più di ferro nelle palle anziché sui vestiti, ci avrebbero salvato la faccia oltre che la dignità. Dio, quanto è patetico il nostro edonismo, quell'ipocrita consapevolezza di aver capito come vanno le cose unita a quella devastante sensazione di avere finito le energie. "Ben ci sta!", dovremmo urlare. Che cosa ci aspettavamo? una medaglia? Oppure che qualcuno venisse a ringraziarci per il nostro tentativo disperato, fallito miseramente a causa della nostra stessa ignoranza? 

Questo diniego è quello che ci meritiamo, quello che abbiamo scatenato nel momento stesso in cui avremmo potuto cambiare il mondo, mentre ci siamo limitati solo a sporcarlo un po' di più. Questi anni zero sono l'unica cornice degna del nostro nome, il solo posto in cui i nostri cuori malati riusciranno a trovare una pace inesistente alla ricerca di risposte che, sappiamo già, saranno tutt'altro che buone. 

Siamo noi la Generazione X, un surrogato culturale che ci ricorda quanto abbiamo fallito e quanto, inevitabilmente continueremo a fallire. 

X come "signor Nessuno", privo di identità e di bandiere... eppure il nostro passato lo conosciamo fin troppo bene, non ci mancano le origini, non siamo usciti fuori dal niente: le abbiamo semplicemente rifiutate.

 X come il segno della moltiplicazione, presente a ricordarci che per quanto possa essere stato elevato il numero di successi precedenti al nostro arrivo, qualunque cifra moltiplicata per zero, fa sempre zero. 

E poi beh zero, come questi anni senza nome che stiamo tentando di vivere al meglio delle nostre capacità sperando, almeno per una volta, che questo numero tondo possa rappresentare un nuovo inizio piuttosto che un semplice, mero e totale annichilimento! 

«Guarda quella donna!» mi interruppe Destiny mentre esponevo mentalmente i miei sproloqui generazionali. Stava indicando una vecchia signora sulla settantina. Corti capelli grigi incorniciavano un volto stanco e segnato da profonde rughe tra le quali, però, spiccavano due neri occhi vivi da ventenne. Stava ferma all'angolo della strada con in mano tanti palloncini colorati e parlava a dei bambini che si erano radunati intorno a lei. 

«In ogni biglietto scrivete ciò che desiderate» le sentii dire «un sogno, oppure una vostra paura, lo legate al palloncino e poi lo fate volare via». A distanza, io e Destiny assistemmo a quello spettacolo strano che, non so nemmeno il perché, mi aveva commosso. «Sta sempre qui» mi disse Destiny riferendosi alla donna «dicono che dopo aver lasciato andare il palloncino ci si senta davvero meglio». 

Mentre l'ascoltavo osservavo i bambini abbandonare uno a uno all'aria le loro piccole ampolle magiche e solo assistere a quella scena mi aveva dato un incredibile senso di beatitudine. Seguivo con lo sguardo i percorsi che senza controllo intraprendevano per crearsi un varco verso la libertà e poi sparire nel blu del cielo portando con sé i loro preziosi segreti. 

«Vuole provare anche lei?» con lo sguardo ancora rivolto verso l'alto non mi ero accorto che la donna mi stava osservando e si era avvicinata un po' di più a noi due. «Che...?» mi sfuggì dalle labbra senza capire. «Ci sarà qualcosa che vorrebbe finalmente far volare via senza sentirne più il peso». 

Mi misi a ridere «andiamo signora non sono più un bambino! Sarà anche una bella idea, ma davvero non mi sembra il caso!». «Non sono più un bambino» ripeté la signora «chissà perché è la scusa che usiamo praticamente per tutto ciò che vorremmo fare». 

«Ma lei cosa sarebbe?» chiesi con tono abbastanza ironico «una psicologa in pensione?». 

Destiny mi guardò malissimo, ma la ignorai. «Niente del genere» continuò lei senza scomporsi «ai miei nipoti piacevano tanto i palloncini, prima che si trasferissero dall'altra parte del mondo... Sarò stupida, ma in qualche modo sento in questi bambini la stessa felicità che provavano loro e li vedo un po' tutti come miei nipotini». «Oh mi dispiace» riuscii a dire sentendomi un emerito idiota «è un'idea bellissima davvero, forse sono io a non esserne all'altezza...».

 «Sciocchezze» continuò la vecchina «per una volta smettiamola con i forse, i ma, i non siamo all'altezza... Se le va di farlo lo faccia e basta!». 

«Non so cosa...» farfugliai io al mio solito. 

«Chiuda gli occhi» mi disse la donna «e lasci vagare liberamente la sua mente. Provi a pensare al suo primo ricordo, lasci che questo la pervada e la faccia viaggiare oltre la dimensione del tempo». 

«Dai non posso farlo» pensai «è ridicolo!» ma in verità ne avevo soltanto paura. Ricordavo tutto fin troppo bene ed era proprio questo che volevo evitare. 

Il primo ricordo è difficile da dire con certezza. Mi ricordo... sì, credo di ricordare la strada che percorrevo da casa a scuola: era carina al mattino, con quegli alberi gialli che la circondavano. La sera invece era un'altra cosa. Sembra tutto più grande e meno controllabile la sera e perfino rami amici si trasformano in mani dalle lunghe dita ossute. Avevo paura a passare da lì, ma la musica non mi abbandonava mai. 

Pensandoci mi rivedo di spalle, con la schiena un po' curva, come al solito, un po' per i libri un po' per il fardello dell'esistenza che ogni adolescente si trascina dietro. Rivedo i miei capelli lunghi di quattordicenne tagliati alla meno peggio da mia madre la sera precedente. Ricordo che ascoltavo i Cure, sempre lo stesso album, sempre la stessa canzone e mi sentivo incredibilmente libero. Non ricordo i miei compagni però, anche sforzandomi non ci riesco. Ricordo solo una ragazza dai capelli rossi, rossi come quelli di Destiny, ma nemmeno il suo nome... 

Come puoi averli dimenticati tutti? Andiamo, sono passati solo un po' di anni, mica mezzo secolo! Era assurdo, ne ero consapevole, eppure non ci riuscivo. Del resto, avevo chiuso per sempre quella parentesi e la scuola non era di certo stato il periodo migliore della mia vita, anzi! 

Invece, ricordo fin troppo bene la mia cricca di allora, quegli spostati come me fissati con l'anarchia e con tutte quelle stronzate dei sedici anni... non erano stronzate, non lo erano per niente e, per la mia testa, non lo sono nemmeno adesso! Sforzarmi di credere che sono cresciuto, che sono, come si dice, "maturato", è solo una finzione, una stupida finzione. 

Dio, quanto odio quella parola! Ma-tu-ra-re... cazzo è la frutta che matura, non le persone! Sentirmi paragonato a un'arancia o a una mela non mi è mai andato a genio. Del resto, quando un frutto è maturo lo si mangia e, nel momento in cui diventa troppo maturo lo si butta via. Questa prospettiva non mi allettava per niente! Non a caso avevo scritto su una maglietta acerbo per sempre! e non era solo una battuta: non sarei cresciuto mai, mai maturato e nessuno mi avrebbe mai mangiato o buttato via una volta marcito! 

Non so nemmeno il motivo, ma presi il foglietto e scrissi semplicemente Io Sono, lo piegai in fretta e furia senza mostrarlo a nessuno e lo feci volare via. Lo vidi allontanarsi con un misto di gioia e di strana attesa finché, fatalmente, andò a urtare contro un ramo di cipresso ed esplose in un fragoroso botto. 

Lì per lì avrei dovuto scoppiare a ridere per la mia sfortuna, eppure il ricordo dei tempi andati, il biglietto e infine questo mi fecero traballare il cuore quasi avessi assistito a uno spettacolo terrificante. Cercai di mostrarmi tranquillo, ma ne rimasi profondamente turbato.

 «Andiamocene a casa Destiny» dissi con la premura di allontanarmi da lì il più presto possibile.

 «Forse ha sbagliato messaggio» mi disse la vecchia mentre già camminavo dall'altra parte «o forse era semplicemente qualcosa che andava cancellato». Non mi voltai nemmeno, neanche ci provai. La testa mi martellava e non capivo più un accidente. 

«Non preoccuparti» mi disse Destiny «passerà». 

E per la prima volta, feci solo finta di crederle.  

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