I segni dell'alba
«Corri o faremo tardi!» mi urlò Destiny mentre in fretta e furia s’infilava un paio di collant neri col serio rischio di smagliarli: «è tardissimo!».
Quella mattina era giustamente intrattabile: finalmente, dopo tanto studio e tanto lavoro, avrebbe sostenuto l’esame per il dottorato. Con i capelli all’aria e la camicia mezza sbottonata, mi precipitai giù per la rampa di scale del condominio, trascinato per il braccio da una Destiny stranamente elegante e agitatissima. Prendemmo l’autobus con più di tre ore di anticipo per evitare di far tardi tra traffico cittadino e burocrazia varia.
Non perderò del tempo a raccontare della sua presentazione brillante, della sua eccellente preparazione né del fatto che ottenne il suo dottorato con il massimo dei voti. Non sprecherò parole per tentare di descrivere quanto fosse bella, lì in mezzo a quel carnevale di abiti eleganti, fiori e paroloni, lei, così semplice nel suo vestitino nero comprato ai saldi estivi che la faceva sembrare una principessa in mezzo a tante contesse invidiose nei loro abiti di qualche rifatto stilista francese...
Ancora una volta, parlerò dei suoi capelli rossi, ribelli e impertinenti come al solito che spiccavano come una fiamma accesa nel grigiore spento di quel tetro anfiteatro. Urlavano vita, una disperata euforia che non accettava di essere inghiottita dallo squallore della routine, dei luoghi comuni e dalla costrizione di una semplice treccia raccolta.
Quel rosso mi ricordava di essere vivo, di avere ancora un motivo per ricercare qualcosa che andasse un po' più oltre del semplice patetico tentativo di sopravvivere trascinandomi dietro la mia pesante e vuota carcassa di essere inutile...
Destiny mi dava una speranza, la speranza che nel mondo potesse ancora esistere un concetto riconducibile il più possibile a quello di bellezza autentica.
Forse me ne accorsi solo in quel momento, mentre con aria sognante la osservavo parlare del dionisiaco in Nietzsche; non riuscivo ad ascoltare ciò che diceva perché ero totalmente ipnotizzato da lei.
Mi accorsi di quanto in realtà l’amassi senza averglielo detto mai e che era lei, soltanto lei ciò che avevo sognato nei miei anni da bohémien trascorsi a cercare un senso di completezza, una risposta a quella strana inadeguatezza che mi portavo dietro da quando ero ancora un bambino e che mi aveva condannato, per la mia sensibilità, a essere un eterno escluso.
Destiny mi aveva salvato e non me ne ero nemmeno reso conto. Era lei quel fiore sbocciato dalla spazzatura, dalla bruttezza, dal male di questo mondo e in qualunque attimo della sua vita, dava senso ad ogni respiro e ne dipingeva ogni sfumatura col sottile pennello della sua inesauribile fame di vita.
Finché Destiny mi fosse stata vicina, sarei stato salvo, al sicuro dal brutto, dal mondo, da me stesso...
Mi resi conto di quanto fossi stato fortunato: tutti quei poeti che avevano sfamato la mia mente e che, probabilmente, mi avevano anche rovinato, avevano cercato in ogni parola, in qualunque spiraglio di sole un’ispirazione che li riconducesse a una realtà lontanamente paragonabile al sublime... Invece, nel mio caso fu lei a trovarmi, dopo averla cercata a lungo ed essermi arreso: entrò nella mia vita come un uragano, la modificò, la stravolse, la migliorò... e la cambiò per sempre!
«Come sono andata?» mi chiese raggiante terminato il suo esame.
«Sei stata meravigliosa» riuscii solo a dire, senza poter trattenere una lacrima.
«Non pensavo la filosofia ti emozionasse tanto!» esclamò felice e mi abbracciò forte. «Grazie, per tutto!».
«Grazie a te» sussurrai con un filo di voce «sei incredibile!».
Tra gli abbracci, le foto e la confusione quella mattinata volò via e, in breve, ci ritrovammo nuovamente al nostro appartamentino, stanchi e sudati dallo scomodo viaggio in autobus.
Sebbene avessi insistito parecchio, Destiny non volle festeggiare.
«Preferisco comprare qualche bottiglia di birra e vederci tutti insieme allo scantinato. È più divertente e anche meno finto non credi?».
Ancora una volta non potei controbattere «lo sai che non riesco mai a vincere con te!» sbuffai.
«Lo so» rispose Destiny sorridendo «è per questo che stai con me!».
Alzai gli occhi al cielo.
«Vado a togliermi questi arnesi infernali» disse Destiny parlando ai suoi collant «che fottutissimo strumento di tortura!».
Ridendo la seguii in camera da letto. «Quindi, a breve dovresti avere le prime supplenze?» chiesi.
«In teoria sì» mi rispose mentre lottava contro le sue calze «non vedo l’ora, davvero!».
«Combattere con degli indisciplinati ragazzini?» chiesi più a me stesso che a lei «io non ce la farei!».
«Secondo me ti sottovaluti troppo invece, alla fine non è difficile farsi rispettare dai propri alunni, basta semplicemente saperli ascoltare, no?».
Non le risposi, distratto com’ero dalla visione del suo corpo. «Ma lo sai che quei collant ti stanno proprio bene? Dovresti indossarli più spesso».
Fulminandomi con lo sguardo esclamò un secco «scordatelo!» e mi passò accanto con solo una mia vecchia maglietta addosso che le copriva metà delle cosce, con i piedi nudi e le gambe scoperte.
«Scherzavo dai» dissi abbracciandola da dietro «così sei diecimila volte più sexy!» e le baciai piano la schiena.
«Smettila scemo!» disse Destiny ridendo «devo ancora preparare il pranzo e sono già le due e mezza».
«Che importa» sussurrai.
Voltandosi mi baciò dolcemente cingendomi il collo con le sue braccia minute.
Se mi fossi mai preso la briga di stilare una lista delle dieci cose al mondo che mi facevano sentire più vivo, almeno sei di queste avrebbero incluso Destiny.
Mangiare a letto dopo aver fatto l’amore probabilmente si sarebbe classificato al quarto posto, ovviamente preceduto dal fare l’amore di per sé.
Era bellissimo stare rilassati, mangiando distesi l’uno accanto all’altra concedendoci sorrisi, baci e battute che avremmo capito solo noi.
Mi arricchiva stare con lei, anche senza far nulla, rimanendo in silenzio mentre le nostre mani giocavano intrecciando le dita e parlando una loro strana lingua.
«Lo sai?» disse Destiny a un tratto «credo proprio che tu debba scrivere un libro».
«Eh?» balbettai io ridestandomi da una sorta di torpore ipnotico.
«Sì, dovresti proprio! Hai un bel modo di parlare e di vedere il mondo e poi ti piace troppo la letteratura per non poter nemmeno provare a farne parte!».
«Ma quando mai!» esclamai perplesso «mi piace leggere, ma crearla da me una storia è troppo complicato. E poi sono così disincantato che mi verrebbe impossibile. Tu dovresti scrivere un libro invece! Chi meglio di te! Davvero Destiny, non c’è nessuno che capisce il mondo tanto bene come te!».
«Balle!» mi rispose «Tu non sei disincantato, è solo una scorza che ti sei costruito per nascondere la tua sensibilità. Ti conosco troppo bene, non puoi fregarmi. Non esiste nessun’anima che lo meriti più di te. Io ho l’intraprendenza, la testardaggine e l’impeto, ma non ho la poesia: quel dono appartiene a te!».
Non risposi, un po’ perché mi sentivo lusingato per quello che mi aveva appena detto, un po’ perché effettivamente scrivere un romanzo era un sogno che mi accompagnava da tempo, ma che, inevitabilmente avevo abbandonato. «Chissà...» sussurrai più a me che a lei.
«Certo che siamo davvero una bella coppia noi due!» esclamò Destiny con voce allegra fissando un punto invisibile sul soff i tto «un poeta pigro e una rivoluzionaria fallita: credo proprio che andremo lontano!».
Scoppiai a ridere abbracciandola forte. «Già» risposi «molto lontano!».
* * *
Quella sera per festeggiare ci ritrovammo tutti insieme alla vecchia cantina e, ancora una volta, finimmo per ascoltare i Nirvana.
«Sto tipo è veramente forte!» diceva Gabriele ogni volta che Kurt Cobain cominciava a cantare dentro le nostre casse.
«È triste» rispose Lia amaramente «si sente prigioniero, lui che vorrebbe solo professare la libertà».
«I soldi fanno sempre questo effetto» disse Destiny con aria pensierosa, parlando più a se stessa che a noi «puoi avere tutte le migliori intenzioni di questo mondo, ma una volta entrato nel sistema, o ti omologhi o muori!».
In quel piccolo cantuccio sgangherato, ascoltando parole difficili non perché fossero in inglese, ci sentivamo speciali. Avevamo la nostra storia, le nostre battaglie da combattere e anche uno scenario relativamente utilizzabile, sebbene lasciasse un po’ a desiderare.
In quei momenti ritrovavamo noi stessi, ci guardavamo in faccia ridendo oppure sputandoci accuse e sentenze senza parlare, senza sentire il bisogno fin troppo naturale di spiegarci. Eravamo insieme, indissolubilmente uniti e contemporaneamente talmente distanti che anche solo poter pensare di sfiorarci le mani, stringerle e proseguire oltre, sarebbe risultata un’impresa titanica.
La musica ci spogliava delle nostre maschere, delle nostre preoccupazioni e, ignari di cosa stesse accadendo, ci ritrovavamo bambini che senza vergogna correvano nudi per strada sapendo che ciò che si è dentro può essere celato solo fino a un certo punto e in piccola, minima parte.
Non capivamo cosa quelle parole significassero, ma ne comprendevamo l’essenza: sapevamo che si parlava di noi, delle nostre ansie, nevrosi e passioni; avvertivamo che non si trattava di un inno di speranza alla nostra generazione, ma di un grido di aiuto per far tacere quell’oblio, quell’opprimente devastante senso di inutilità che ci trascinavamo dietro senza nemmeno tentare di scrollarcela di dosso... avevamo perso e, cosa ancora più divertente, ne eravamo perfino fieri!
Guardai Destiny per qualche istante e mi chiesi cosa ci stesse a fare lì in un momento come quello, in un’apatia talmente opprimente che perfino la tristezza sarebbe risultata più desiderabile.
Mi domandavo cosa ne sarebbe stato di noi, se avessimo avuto la possibilità di lasciare un minuscolo segno del nostro passaggio o se invece fosse bastata una leggera pressione sul tasto delete e di noi non sarebbe rimasta nemmeno la cenere...
«Togli quel disco!» disse Destiny con aria preoccupata guardandomi e interrompendo i miei viaggi mentali «è roba potente: meglio se servita a piccole dosi!».
Gli altri della comitiva scoppiarono a ridere credendo scherzasse, ma io sapevo che era incredibilmente seria e che, ancora una volta, era riuscita a leggermi dentro, capirne lo stato d’animo e salvarmi.
«Andiamo a fare qualcosa di diverso!» continuò, tornando a essere di buon umore «so io come voglio festeggiare quest’importante serata!».
La seguimmo fuori e poi per una strada abbastanza illuminata lì vicino.
Girando l’angolo ci ritrovammo di fronte un’enorme parete ricoperta di murales. Non faceva parte di un condominio né di nessun’altra struttura retrostante: era semplicemente un lunghissimo muro abbastanza alto da doversi servire di una scala per dipingerlo interamente.
Destiny si avvicinò a un piccolo capannone lì di fronte e, scostando un telone, trovò vernici e pitture spray.«Che diavolo vuoi fare, Destiny?!?» la domanda fu praticamente unanime.
«Mi sembra sia abbastanza evidente» rispose senza scomporsi, iniziando a spostare i vari attrezzi.
«Sei impazzita?» la apostrofò Chicca con voce isterica «i writers ci ammazzeranno se imbrattiamo i loro disegni!».
«Chi ha detto che dobbiamo imbrattarli?» rispose tranquilla Destiny sfoderando il suo magnifico sorriso che anticipava la messa in atto di qualcosa di quantomeno assurdo. «Questo è uno spazio libero, un angolo che gli artisti si sono regalati per non sentirsi una volta tanto esclusi. Un mio collega è uno di questi e gli ho chiesto se anch’io potevo contribuire in minima parte per fargli conoscere il rispetto immenso che nutro verso di loro. Era molto lusingato della cosa, mi ha detto che mi avrebbe fatto trovare tutto l’occorrente in questo preciso punto e che mi avrebbe lasciato uno spazietto per il mio murales all’interno del suo» e indicò con il dito un punto sulla parete.
Voltandomi, vidi l’imponente immagine di un ragazzo minuto seduto per terra, dalla cui mente scaturiva un intricatissimo universo di mostri, donne e stelle che riempiva quasi tutta la parete. E in mezzo a quel groviglio di pensieri, un piccolo quadrato bianco al centro, lasciato incompleto, indicava il punto in cui Destiny avrebbe lasciato la sua firma.
«Sai disegnare, Destiny?» le chiese Lia, ancora intenta a ammirare quella meravigliosa e straziante immagine davanti a noi.
«No» le rispose tranquilla e senza scomporsi «ma dovrei riuscire ugualmente a far qualcosa» e arrampicandosi su di una scala a pioli già posizionata, iniziò il suo lavoro.
Dalla nostra posizione e con poca luce a disposizione, vedevamo solo le sue mani muoversi e agitarsi freneticamente sulla parete.
«Finito!» annunciò Destiny dopo un bel po’ di tempo. Una volta scesa, illuminò la sua opera con la torcia. Con colori diversi aveva scritto le frasi di due tra le sue poesie preferite, Il Viaggio e Nuove Stanze. Si distinguevano netti i contorni del suo tratto non perfetto, ma deciso che risaltava nelle parole
Nel fondo dello sconosciuto per trovare il nuovo
Ma resiste e vince chi con te allo specchio ustorio sa opporre i tuoi occhi d’acciaio.
«Non è un granché lo so» disse Destiny allegra «ma l’importante è il messaggio giusto?».
Non risposi, tanto dai miei occhi sapeva già che lo trovavo splendido.
«Voglio che ci siate anche voi!» esclamò un attimo dopo «dovete lasciare un segno insieme a me!».
Come al solito fu inutile tentare di farle cambiare idea: ancora una volta, era riuscita a leggermi nella mente, facendo proprie le mie paure di un momento prima e permettendomi, con assoluta semplicità, di combatterle e sconfiggerle.
Così, Claudio disegnò l’orbitale di un atomo, Chicca delle piccole ali, Lia lo smile strampalato di Cobain e Gabriele una scala stilizzata. Restavo solo io che non sapevo disegnare, che non avevo un simbolo né qualcosa che mi rappresentasse o che sentissi davvero mio.
«Non so cosa…» dissi con un filo di voce a Destiny.
«Lo sai invece» sussurrò accarezzandomi la mano «datti una piccola possibilità di vivere per sempre!» e mi condusse dolcemente fino alla scala a pioli.
Con aria spaventata, salii come se stessi salendo verso il mio patibolo. Osservai i disegni stupendi del writer sconosciuto, quelli un po’ meno belli dei miei amici e quelle parole storte, sgangherate e meravigliose che Destiny aveva voluto imprimere.
Poi mi decisi. Immersi il pollice in una lattina di vernice blu e lo pressai sulla parete. «Questo sono io» mi dissi quasi per convincermene. Sceso di nuovo a terra incontrai le dolci braccia di Destiny che mi abbracciarono forte. «Grazie» mi sussurrò all’orecchio «è la miglior festa che potessi desiderare!».
Passammo buona parte della serata seduti di fronte a quei murales, bevendo birra e cantando canzoni senza musica finché non si fece abbastanza tardi da desiderare solo un letto e un cuscino.
Così la serata terminò tra qualche coccola sotto le coperte, un thé freddo e l’alba fuori dalla finestra.
«Lo sai?» dissi a Destiny accoccolata sul mio petto e già mezza addormentata «credo che abbia ragione tu: dovrei provare a scrivere qualcosa».
«Perché» mi domandò Destiny sbadigliando e con gli occhi chiusi «non lo stai già facendo?».
E senza nemmeno rendermene conto o aver il tempo di ribattere, mi addormentai.
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