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Fallen

Un bambino è caduto, a terra ci sono delle piccole gocce di sangue. La palla continua a correre e lui a piangere.

È un momento di calma e malinconia. Ci sei, ma non ci sei. Ti annulli e allo stesso tempo pensi a tutto. Dentro hai una palla di piombo e ti ricorda ogni volta che c'è, sta lì e tu devi ricordartelo. Mi fa sentire così quella stanza.

Vorrei che qualcuno mi togliesse i pensieri dalla testa. Se vogliamo credere che i pensieri non siano nostri, ma che la nostra coscienza li raccolga da chissà quale spazio universale, vorrei tanto che questo spazio sparisse. Voglio il vuoto più totale, voglio il silenzio così da non stare bene per mia volontà.
Devo farmi male per capire che tutto ciò che voglio non sempre posso ottenerlo: non posso desiderare di essere circondato da persone, se questo desiderio non è puro perché ciò implica il suo non realizzarsi, non posso desiderare di essere circondato da persone se vengo respinto.

Le foglie che stormiscono, che coprono strade e giardini mi danno modo di sentirmi più affine alla natura, al vento impetuoso e alla pioggia spostata dalle raffiche di vento. È così che mi sono sempre sentito, è questo che sono stato per mia madre.

Quando è stata sepolta, al cimitero c'erano poche persone perché non era amata da molti. Era esigente e delicata, una persona dalle idee chiare che si faceva rispettare.
Se avesse trovato qualcosa di te che non l'aggradava, lo avresti saputo anche solo dal suo volto: lo sguardo fisso su qualsiasi cosa non fossi tu, le labbra serrate e le braccia incrociate. Una volta finito di parlare, andava via e ti sussurrava un flebile "ciao" di circostanza. Seppure si sarebbe potuta considerare unica, fu quella stessa dote a isolarla, a renderla distante da ogni persona, da ogni discorso che non la interessasse direttamente.

"Figliolo, vorresti mai una vita piena di gente che di te conosce solo nome e università? Non sarebbe meglio se accanto a te ci fossero persone capaci di amarti per qualcosa di più di quello che solitamente la società richiede?"
Mi chiedeva sempre di non essere ordinario, perché essere ordinari è per gli sciocchi e per tutti coloro che credono nella vita mondana del sabato sera, negli amici estivi e in quelli di gioventù. Essere sciocchi è scegliere la via più semplice e io, mi diceva, non potevo esserlo, non dovevo. Non ero nato per questo: nei nove mesi di gravidanza mi venivano lette sette pagine a sera di "Cent'anni di solitudine", perché dovevo sapere fin dall'inizio che la vita non erano i pupazzi, i giocattoli e i lego che vengono dati a tutti i bambini. Oh no, io dovevo sapere che c'è gente che mangia la terra, che muore di parto. Dovevo sapere dell'alchimia e delle bellezze celestiali. Dovevo sapere ciò che lei voleva, cose di cui gli altri della mia età non erano a conoscenza.

Per splendere fra la folla, studiò scultura e dedicò la sua vita ad un'unica opera: il Ratto di Proserpina. La gente si arrende e lei non lo sopportava, così abbiamo avuto per anni e anni bozzetti di Plutone, ma nessuno di Proserpina. Non le chiesi mai il motivo perché sapevo che ogni suo gesto era dettato dall'unicità, da quel malsano desiderio di essere la luce nel buio.
Plutone era negli inferi, tutti i suoi simili su sull'Olimpo.
Plutone rapì una donna per i suoi desideri personali, stravolgendo la vita di lei e di un'umanità intera, tutti i suoi simili soddisfavano i loro desideri con una certa persona per poi solitamente abbandonarla.
Plutone per tutti gli dei era "lì", tutti i suoi simili erano "qui", anche Proserpina.

Un giorno morì. Un urlo che assomigliava alla gioia, un tonfo, un rumore sordo. Salii nella sua sala dei bozzetti e trovai il volto di una donna: di Proserpina. Aveva ceduto e non l'aveva accettato. Non aveva accettato che il suo Plutone c'era e che gli serviva Proserpina, la sua Proserpina, una dei tanti dei. E lei perché avrebbe mai dovuto accettare di dedicare il suo tempo a una donna che passeggia contenta della vita degli dei? Perché avrebbe mai dovuto accettare di vivere altri quindici anni per Proserpina e non più per Plutone?

Aveva l'età sufficiente per rendersi conto di cose che non si vogliono sapere: sì, arriva quel momento in cui la propria mente viene scossa, in cui una sola parola, un solo pensiero o un solo evento possono cambiare la vita e non c'è sempre gente che lo accetta. 

Quando è stata sepolta, al cimitero c'erano poche persone perché non era amata da molti.
Il vento soffiava, mandava urli striduli con impetuosa e costante insistenza, il cielo accoglieva tante nuvole piccole e scure. Durante le parole del sacerdote, le foglie investivano i volti e la polvere irritava gli occhi di chi, senza nessuna lacrima per la donna, guardava i fiori e si chiedeva quanto fosse costata l'intera funzione, come avesse mai potuto un giovane senza esperienza, senza aiuto di nessuno prendere di petto la situazione e organizzare un funerale. Non sapevano che io e tutti loro eravamo parte di un piano prestabilito e premeditato.
Accettai le condoglianze, mi occupai delle questioni burocratiche e tornai nella stanza.

Nella sala dei bozzetti l'ordine era immacolato e, nonostante fossero passati cinque giorni, dallo stereo si sentivano ancora i brani della playlist preferita di mia madre, che si susseguivano uno dopo l'altro senza interruzione alcuna.
Chopin, Beethoven e Schubert. Notturni e composizioni che richiamassero la notte, rifugio degli artisti, a detta di molti.

Camminai per la sala per un'ora, notando che i bozzetti erano numerati e datati: cinquecento bozzetti che al mio occhio ingenuo, a livello scultoreo, sembravano non avere nessuna differenza, nessun errore tecnico.
Eppure erano diversi. Ognuno di loro mi trasmetteva qualcosa di diverso ed erano gli occhi a farmelo notare.
Il Plutone n. 37 aveva tratti che esprimevano ira, tanta ira incontrollata; il numero 59 tristezza, accentuata da una piccola goccia che nella statua originale non è presente; l'ultimo Plutone era il Plutone di Bernini in tutto e per tutto.
Maledissi quella scultura, maledissi tutte quelle giornate in cui mia madre mi lasciava solo per lavorare su un progetto neppure completato, un progetto che le aveva modificato il rapporto con me.
Non ero estremamente affezionato  a lei, perché riservavo la mia ammirazione all'idea che avevo di lei. Stimavo la sua indipendenza talmente prepotente da farsi strada in ogni rapporto che fosse mai esistito tra lei e qualsiasi altra persona. Ero affezionato alla sua dedizione per Plutone, ai modi caldi, ma non troppo, di rivolgersi a me e alla premura che aveva nei miei riguardi perché sì, il suo motivo di vita era distinguersi, ma sapeva benissimo che c'ero, che la mia presenza le avrebbe dato forza. E sapeva di star crescendo un figlio unico, in qualsivoglia senso. 
La mia ammirazione terminava lì però perché, al suo fianco, avevo la tristezza di un bambino a cui la madre non ha insegnato i valori basilari, una madre che vivesse con lui, che sbagliasse con lui, che cadesse con lui.
Non mi aveva insegnato che se si commette un furto, si pagano le conseguenze.
Non mi aveva insegnato che se si mente, due mesi dopo quella stessa menzogna viene rimossa.
Non mi aveva insegnato che se si è  soli, si muore.

Maledissi quella scultura e scaraventai la prima della serie a terra. Un rumore assordante invase la sala, i detriti di argilla si sparsero sul pavimento, ma un pezzo di carta bianco catturò i miei occhi. Lo raccolsi e potei leggere le due parole più liberatorie della mia esistenza, parole che tramutarono i miei desideri in realtà.

"Distruggili tutti".

Ogni Plutone aveva all'interno un messaggio e potei scoprire con tanta meraviglia che ognuno di essi erano accorgimenti e insegnamenti di una madre, dai più strani ai più banali.

"Se la testa ti scoppia, riposa".
"Quando ti sposerai, non desiderare un figlio. Concepiscilo".
"Se vuoi mangiare, non chiedere alla tua donna di accontentarti perché tu, uomo, hai due mani e hai il dovere quindi di alzarti e di provvedere ai tuoi desideri."
"Se dentro ti senti male, se un dolore acuto e profondo ti lacera il petto e la testa non smette di concepire pensieri, estirpa le parole e brucia il dolore".
"Quando piove, bagnati, fatti colpire dalle foglie e inginocchiati. Assapora la natura, assaggia i colori della pioggia e la tenacia del vento sferzante. Osserva le gocce che cadono, volgendo il tuo sguardo al cielo che ti spara negli occhi l'acqua dei mari. Svuota la tua anima  e abbandonala ai sensi."

I bozzetti contenevano biglietti del genere, ma solo uno mi tagliò il respiro e mi bloccò le gambe.

"Se la tua vita non ti soddisfa e se i tuoi tentativi sono risultati vani, ammazzati."

DIECI ANNI DOPO

La barba mi è diventata lunga. Io puzzo e i ragni amano i posti sporchi, trascurati e abbandonati a se stessi. Sono ancora vivo.
Il dolore mi mangia, ma l'ho bruciato così tante volte che la mia pelle ora è sensibile al vento e troppo delicata per la pioggia sferzante. Il dolore mi ha mangiato vivo e ora trascorro le mie giornate ad imparare i biglietti di mia madre, accuratamente conservati in tredici quadri appesi lungo il corridoio.
È una poesia, lunga e infinita.
Un sussurro continuo, che sfinisce le corde vocali.

Sto imparando i biglietti in base alla numerazione, ma il lavoro più duro è memorizzare la lettera che mia madre scrisse prima di buttarsi dal tetto, contenuta nell'ultimo Plutone.

Non hai visto tua madre salutarti.
Non mi dispiace, perché così hai un ricordo sgradevole in meno nella tua testa.
Non sono stata una brava persona, me ne rendo conto dopo troppo tempo passato ad insegnarti la solitudine, dopo quindici anni dedicati a Plutone.
Ti ho insegnato il mio modo di vivere permettendoti di osservarmi, facendo in modo che tu sentissi la pesantezza della mia assenza di insegnamenti orali e di abbracci e di coccole continue.
Ti ho insegnato ad essere combattivo, a raggiungere i tuoi obiettivi e a non mollare la presa.
Ti ho insegnato ad essere paziente.
Ti ho insegnato tutto questo e molto altro senza parlarti, perché per un'anima solitaria, abituata alla concentrazione ossessiva per le cose e al silenzio, è difficile parlare con un bambino, un ragazzo non sufficientemente cresciuto per condividerne la compagnia.
Fra pochi giorni morirò per mano mia e ho organizzato già tutto ciò di cui c'è bisogno per la celebrazione e le restanti questioni.
È una mia scelta: mi sarei uccisa nel momento in cui avrei capito che da soli non si può vivere, che tutti abbiamo bisogno dell'altro, della compagnia di qualcuno. E l'ho capito, scolpendo questo Plutone che hai appena distrutto.
Ti ho insegnato la solitudine, ma spero che ora tu possa chiedere aiuto a chi è grado di procurartene.
Quando sarà, esci di casa e prova a vivere.

Provo tanto rancore verso di lei per il modo in cui mi ha cresciuto perché in dieci anni sono uscito, ho frequentato persone e ho scoperto che non so parlare con loro. Non so di che cosa parlare. Mi sento troppo diverso perché lo sono e, quando loro si voltano verso di me, vedono solo il figlio di una donna scultrice per niente famosa che si è uccisa in casa sua davanti a suo figlio. I loro sguardi sono tanto crudeli, troppo malvagi e pieni di giudizi negativi sulla mia incapacità di prender la mia vita in mano, in modo da farne qualcosa di nuovo.

La società è crudele. Se reputa giusto comportarsi in modo malvagio e meschino con qualcuno, non indugia. Mi sono stati fatti molti danni quando uscivo di casa e si sono presentati molti modi per beffarsi di me, non una volta ma tante.

Dopo tre anni di tentativi mi sono chiuso in casa. Il dolore è stato bruciato e io come antidoto ho sussurrato le sue parole per sentirmi meglio.
Però sto bene, mi sento solo una pietra troppo piccola per dare fastidio, ma tanto grande da essere notata e calciata.

È da ore che sussurro i suoi biglietti e ormai sono quasi alla fine.

~

Sono alla fine. La casa puzza ed è ora che dia pace a tutto, a tutti, a me stesso.
Accendo un fiammifero e delicatamente cade sulla scia di benzina che ho lasciato per casa.

"Mamma, ho provato a vivere, ma tu mi hai ucciso troppo presto."

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