Prologo
Milano, Italia
14 febbraio 1943
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L'uomo camminava con il capo chino, alcuni sfollati lo osservavano inquietati dalla sua aura quasi minacciosa. I suoi vestiti puliti e il suo viso limpido lo facevano sembrare un alieno rispetto alle persone divorate dalla fame e dalla sporcizia che erano occupate a ringraziare Dio di essere ancora vive. Alle volte il suo piede calpestava qualcosa, un osso che scricchiolava sotto al suo peso o delle macerie di case ormai distrutte. L'odore acre del sangue gli pizzicava le narici, mischiato a quello della paura.
I bombardamenti erano cessati da parecchie ore, ma i danni erano rimasti come testimonianza. Era impossibile non notarli, ovunque lo sguardo volgesse s'incontrava con una scena che il cervello non avrebbe mai dimenticato. C'erano corpi di bambini riversi sulle strade, quelli sopravvissuti osservavano i loro compagni di giochi senza vita grattandosi i capelli infestati dai pidocchi. Donne che cercavano figli, o mariti. Soldati che urlavano ordini, altri che organizzavano lo sgombero delle strade. C'era qualcuno ancora cosciente ma ferito, con pezzi di ferro, o proiettili, in qualche parte del corpo. Sembravano angeli mentre osservavano il cielo, le braccia spalancate come ad abbracciare le nuvole. Al posto della neve, il sangue.
L'uomo si fermò a osservare il corpo esanime di un bambino magro: gli occhi ambrati erano ancora spalancati, riflettevano il cielo plumbeo ricoperto da polveri pesanti e che impedivano di intravedere l'azzurro che ci sarebbe stato a quell'ora del giorno. Le sue dita erano ancora strette attorno al braccio di un piccolo orsacchiotto di peluche a cui mancava un occhio e che era stato rattoppato infinite volte. Gli baciò la fronte e gli abbassò le palpebre, per poi continuare a camminare.
Con la mascella scolpita e gli occhi color ghiaccio, quell'uomo poteva sembrare rude e senza cuore. Quasi che la guerra non avesse alcun effetto su di lui, o forse l'aveva già fatto cadere in un'apatia tipica di chi di orrori ne ha già visti a sufficienza da non inorridire più. Il suo sguardo non trapelava alcuna emozione, erano vuoti.
Avanzò cercando di incontrare lo sguardo di Belle, in quel momento impegnata a soccorrere, insieme ad altre infermiere, un gruppo di uomini riversi al suolo. I capelli lunghi e scuri erano stretti in una treccia che le scivolava lungo la schiena, la divisa bianca le fasciava perfettamente il corpo evidenziando il suo fisico magro. La sua pelle chiara era stata macchiata da polvere e fumo.
Non appena incontrò lo sguardo di Wolf, Belle sgranò gli occhi. Era sorprendente vederlo nella sua forma umana, non faceva spesso visita alle altre Fiabe. Preferiva starsene da solo, rintanato chissà dove. Eppure era lì, in carne e ossa, in Italia, in una città distrutta dalle bombe.
Belle si avvicinò a Wolf ignorando la paura che le suggeriva di ignorarlo. Quell'uomo le faceva paura, le ricordava la Bestia. Dunque, vederlo riportava alla memoria tutto ciò a cui era sopravvissuta. «Non mi aspettavo una tua visita. Qualcosa non va?» chiese Belle.
«Ho saputo del bombardamento e volevo accertarmi tu fossi ancora viva.»
«Sono una Fiaba, Wolf. Non posso morire» rispose. «Perché sei qui?»
«Ci sono novità.»
Belle sbiancò all'improvviso. «Sulla ragazza della profezia?»
Wolf annuì.
Quella ragazza sarebbe stata la rovina delle Fiabe se non fossero riusciti a controllarla. Era una piccola fiammella che se spenta avrebbe portato alla distruzione di secoli di vita e storia, che avrebbe portato alla morte di tutte le Fiabe. Tutti si sarebbero dimenticati di loro.
«Abbiamo una data.»
«Quando?»
«21 marzo 2022, alle cinque e sei minuti del pomeriggio» disse Wolf. «Nascerà fra settantanove anni.»
«Isabelle, torna qua, abbiamo bisogno di te!» urlò un'infermiera.
Belle esitò, ma prima di andarsene guardò Wolf dritto negli occhi. «Abbiamo ancora tempo» sussurrò. Mentre si allontanava per tornare dalle altre infermiere, Wolf riuscì a fiutare anche la sua, di paura.
Abbandonò la strada sentendo l'odore della speranza farsi sempre più debole, mentre le Ombre si facevano strada nella mente delle persone. In periodi storici come quello era sempre più difficile restare in vantaggio. Nessuno voleva provare speranza, nessuno credeva in un futuro migliore.
Wolf si accucciò in un angolo deserto. Le mani divennero delle zampe, con gli artigli ricurvi che graffiarono i ciottoli della strada. La sua mascella quadrata si allungò lasciando spazio al muso, e quando aprì la bocca si poterono intravedere le sue zanne appuntite. Il suo corpo si ricoprì di una folta pelliccia grigia.
Mentre Belle fasciava il braccio di un bambino, sentì un ululato risuonare per tutta Milano. Il bambino la guardò impaurito, le strinse forte la mano. Belle sorrise e gli accarezzò il viso. «Non c'è bisogno di aver paura» disse. «Se vuoi, posso raccontarti una fiaba.»
Il bambino annuì.
«La conosci quella dei Tre porcellini? Due di loro si ritrovarono con la casa distrutta, ma alla fine il bene prevale sempre.»
E quando il cuore del bambino si scaldò di speranza, Belle giurò di vedere un leggero raggio di sole sorpassare quelle pesanti nuvole di polvere.
Ne è passato di tempo.
Chissà chi di voi si ricorda di me, di Non te l'ho mai detto o Mystery.
Avevo abbandonato Wattpad, ma la necessità di sentire di nuovo la scrittura come qualcosa di leggero e piacevole mi ha spinta a tornare.
Questa storia è un po' particolare, non è il genere di cui scrivo solitamente, ma volevo provare.
Non vedo l'ora di farvi conoscere i personaggi.
Al prossimo capitolo 🌸
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