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Il secondo giorno più brutto della mia vita

L'Ombra ha una fiamma
la cui luce è un inganno.
Il suo ardere invece è realtà,
sfiorarla causerebbe la distruzione del mondo.
Può riaccendere la luce del cuore
o spegnerla per sempre.
L'Ombra inghiottirà le altre Ombre,
l'Ombra è la salvezza delle Fiabe.

Così si apre il libro di fiabe che mi è stato regalato al mercato, con una profezia che non ho mai sentito prima. Nemmeno da bambina, quando i miei genitori mi leggevano storie prima di andare a dormire, ne hanno mai fatto cenno. Le scritte del libro sono state mangiate dal tempo, ma pare che questa prima facciata sia stata miracolosamente risparmiata. L'inchiostro sembra fresco di stampa. La copertina è logora, ha un odore spiacevole, e le pagine sono gialle e usurate.

Nulla di questo libro di fiabe è comune, contiene l'opposto di ciò che pensavo ci avrei trovato: le storie non sono quelle che conoscevo io, quelle che mi venivano raccontate. In ognuna di loro c'è un elemento macabro, il lieto fine non è contemplato. Se c'è, viene guadagnato con fatica e dopo tanta sofferenza. Non comprendo, dunque, per quale motivo quel signore me l'abbia donato rifilandomi la storiella della speranza e della morale. Sarà probabilmente uno di quelli che odia noi giornalisti, e ha pensato di farmi uno scherzo.

Ho appena letto la storia di Biancaneve e non c'è nulla di positivo, tantomeno un insegnamento da cui prendere ispirazione. Leggere queste fiabe mi fa automaticamente pensare a tutte le notizie che sento al telegiornale, quando, rassegnata, mi costringo a spegnere la televisione per non subire altra tristezza o violenza. Ovunque io mi giri, non c'è speranza. C'è anche da dire che il mio lavoro non se ne fa nulla di essa, si nutre anzi dell'angoscia altrui. Ci nutriamo delle insicurezze e delle menti deboli delle persone, offrendo sempre titoli o articoli che potrebbero spingere le persone a volerne sapere sempre di più. È un lavoro persuasivo e non c'è nulla di più persuasivo dell'invitare una persona a simpatizzare con delle vittime, o aizzare la rabbia verso il colpevole.

Passo le dita sul disegno di Biancaneve, una bambina di soli sette anni. La storia inizia con la sua nascita, una neonata bianca come la neve, nera come l'ebano e rossa come il sangue. Una principessa così bella da togliere il fiato, che scatena la gelosia della madre e il suo forte desiderio di ucciderla. Finisce a vivere con i nani, ma non è salva dall'odio della madre, che in tutti i modi cerca di togliersela dai piedi. Prima con un pettine avvelenato e poi con una mela, una mela rossa come le sue labbra, che le si incastra in gola.

Biancaneve però era troppo bella per essere sepolta e dunque i nani decidono di esporla in mezzo al bosco in una bara di vetro. È qui che entra in gioco il principe, quello che avrebbe dovuto svegliarla con un bacio, ma che in questo caso si innamora del cadavere di una bambina che decide di portare con sé al castello. La bara da trasportare è così pesante da scatenare l'ira della servitù, che decide di picchiare il cadavere. Scuotendola, il pezzo di mela avvelenata viene sputato da Biancaneve. Tornata cosciente, si sposa con il principe.

Non c'è nessuna morale, in questa storia, solo odio, rabbia, necrofilia e pedofilia. Biancaneve era una bambina. È assurdo come le cose cambino nel tempo, come tempo fa era proprio questa la storia che veniva raccontata ai bambini. Eppure, non è poi così lontano da ciò che succede ai giorni nostri: i tempi cambiano, ma le persone no. Ci sarà sempre qualcuno malato, qualcuno disposto a ferire un bambino.

Il cellulare squilla. Sospiro, amareggiata dalla storia appena letta, e lo prendo per leggere chi mi sta chiamando: mio fratello. Di male in peggio, oserei dire. Vorrei non rispondergli, ma probabilmente questa è la sua risposta al messaggio in segreteria che gli ho lasciato ieri.

«Pronto?»
«Cass,» dice. Il suo tono di voce forzatamente allegro non premette nulla di buono, infatti chiudo già gli occhi e faccio un respiro profondo per mantenere la calma. «Ho riflettuto su quello che hai detto, e hai ragione. Tu e la zia non potete fare i salti mortali di continuo, per questo ho personalmente scelto una badante che si prenderà cura ogni giorno di papà.»

Sgrano gli occhi. «Cosa?»
«Sì, è la soluzione migliore. Pensa...»
«No» lo interrompo. «Questa è la situazione migliore per te. Hai deciso di assumere una badante pur di non prenderti cura di nostro padre?»

«Non ho intenzione di litigare. In più sono a lavoro, ho giusto il tempo per darti informazioni su di lei.»
«Allora smettila di non prenderti le tue responsabilità, tu...» Mio fratello chiude la telefonata prima che io possa finire la frase. Chiudo gli occhi e provo di nuovo a respirare, ma non funziona. Sento la rabbia farmi tremare le mani.

Mi alzo dal letto e afferro la borsa. Questa volta non ho intenzione di fargliela passare liscia, a costo di raggiungerlo sul posto di lavoro. Mentre guido non posso far a meno di pensare a tutte le cose peggiori che potrei dire a mio fratello. La pazienza e il tatto non sono mai stati un mio punto di forza, soprattutto quando sono in preda alla rabbia. Mi ritrovo sempre a vomitare parole che nemmeno penso, l'importante è ferire chi c'è dall'altra parte. Un tempo non ero così, un tempo tenevo pronta fra i denti una parola gentile per tutti, ma le cose sono cambiate dopo l'incidente di mio padre, quando avevo così tanta rabbia dentro ma nessuna valvola di sfogo. E così l'ho accumulata e accumulata, fino a scoppiare.

È sempre mio fratello, però, a ricevere la mia rabbia. In parte perché se la merita, è colpa sua se sono ridotta così, e in parte perché è l'unica parte della mia vita su cui non ho controllo. Con fatica sono riuscita a rimettermi in piedi, ma lui è lì per trascinarmi ogni volta sul fondo. È l'unica parte che non sono ancora riuscita a sistemare.

Quando arrivo davanti al bar, lui sta fumando una sigaretta sotto a una tettoia. È lì che sfoggia il suo sorriso più rilassato, che espira verso il cielo. La parte peggiore è vedere come lui, invece, abbia tutto sotto controllo, come sia riuscito a rialzarsi senza me e papà. Ha un lavoro che lo soddisfa e la sua indipendenza, io ho un lavoro che mi rende felice ma porto sulla schiena il peso del passato della nostra famiglia.

«Cercavo te, stronzo!» Lo spintono contro il muro, rischiando di fargli perdere l'equilibrio. Normalmente non ci sarei riuscita, è molto più alto e muscoloso di me, ma l'effetto sorpresa ha aiutato. «Pensavi che saresti riuscito a cavartela chiudendomi la telefonata in faccia? Perché, per una volta, non provi a fare l'uomo o, magari, la persona responsabile?»

«Non avevo voglia di discutere, Cassandra, o di sentirti fare l'isterica» ribatte. Si passa una mano sulla giacca, controllando se l'ha sporcata. Lancia la sigaretta a terra e la schiaccia con la punta della scarpa, e non mi sfugge il nervosismo che sta iniziando a sconvolgere anche lui.

«Non farei l'isterica se ogni tanto mi aiutassi, ci hai mai pensato?»
«Assumere una badante è un modo per aiutarti!» esclama. «A te, però, non va mai bene niente. Non faccio nulla, non va bene. Faccio qualcosa, non va bene comunque. Cosa devo fare, Cassandra? Dimmelo. Nella tua testolina quale sarebbe lo scenario migliore?»

«Che mi aiutassi tu a vedere di papà, alternarci, essere presente» rispondo. «Non chiedo tanto. La badante non è un modo per aiutare me, ma è un modo per lavartene le mani. L'ennesima scusa per stare lontano da casa nostra, per non fare il fratello o il figlio...»

«No, questa è la tua visione del mondo» mi interrompe. «Trovare una badante è la soluzione ideale. Io lavoro, tu anche. Abbiamo entrambi una vita.»

«Ah, sì? Perché mi sembra tu abbia tanto tempo, dato che ti vedo sempre in discoteca o a divertirti con gli amici» Mi lascio sfuggire una risata sarcastica. «La verità è che hai ventisei anni, ma ti comporti come un bambino.»

«Passerò a trovare più spesso papà, questo ti farebbe stare meglio?»
«Quando è stata l'ultima volta che sei venuto a trovarlo?» domando.
Rimane spiazzato. «Non...»
«Quando?»
«Cassandra...»
«Non girarci attorno. Ti ho chiesto quando.»
Mi guarda dritta negli occhi. «Non lo so.»
«Otto mesi fa» dico. «L'ultima volta è stata otto mesi fa.»

Restiamo in silenzio, le mie parole riempiono lo spazio fra i nostri due corpi. Ci sono momenti in cui mio fratello è vicino a me, come adesso, eppure sembra che la distanza fra noi due sia come un oceano. Un vuoto incolmabile, che ci terrà separati per sempre.

«Devo tornare a lavorare, ero in pausa» dice. Si volta e rientra nel bar.

Sbuffo e mi lascio andare con la schiena contro al muro, sentendo la puzza dei cassonetti dell'immondizia intrufolarsi fra le mie narici. Per scacciarla, mi accendo una sigaretta. Il mio amato pacchetto di riserva, che tengo solo per le occasioni in cui mi innervosisco tanto. Inutile dire che ne fumo una sempre dopo aver parlato con mio fratello.

«Fumare fa male» dice qualcuno.

Alzo la testa con uno scatto, inchiodando con lo sguardo l'uomo davanti a me. Metà del suo volto è nascosto dal buio, ma riesco a intravedere uno dei suoi occhi azzurri come il ghiaccio. È lo stesso uomo che ho incrociato ieri sulla scena del crimine. Sento il panico assalirmi di nuovo, ma devo mantenere la calma: sono in un bar pieno di gente, qualche passo e potrei correre dentro per chiedere aiuto.

Faccio per spostarmi di lato, ma lui sembra anticiparmi e si mette fra me e la porta. Ora il suo volto è completamente esposto alla luce di un lampione. Sarebbe un ragazzo affascinante, penso abbia circa l'età di mio fratello, se qualcosa nel suo viso non fosse sinistro. La sua presenza è inquietante, toglie l'aria. Sento la schiena, più precisamente la mia cicatrice, incendiarsi di nuovo.

«Mi stai seguendo?» chiedo.
«No, vengo spesso in questo bar» risponde.

Potrei spaventarlo dicendogli che mio fratello ci lavora, e che dunque potrebbe smascherare subito questa sua bugia, ma così gli darei troppe informazioni sul mio conto. Opto dunque per il silenzio e resto a fissarlo negli occhi. Prendo un altro tiro dalla mia sigaretta e sbuffo.

«Come ti chiami?» chiede.
«Perché ti interessa?» ribatto.
«Fai la giornalista?» riprova.
«Lavoro spesso a contatto con le forze dell'ordine» rispondo, accennando un piccolo sorriso minaccioso.
Si lascia sfuggire una risatina.

Tenta di avvicinarsi a me, ma mi schiaccio subito contro il muro. Lascio cadere la sigaretta e avvicino la mano alla borsetta, senza mai distogliere lo sguardo dalla sua figura. «Non ti avvicinare, ho una pistola nella borsa» lo minaccio. «Hai qualche secondo per girarti e sparire dalla mia vista, o ti piazzo un proiettile in fronte.»

Lui mi osserva in silenzio. Sta per dire qualcosa, ma alle sue spalle sbuca mio fratello. «Hai sentito mia sorella» dice. «Sparisci, o chiamo la polizia.»

L'uomo sospira, alza le mani in segno di resa e se ne va. Tengo gli occhi sulla sua schiena finché non sparisce, inghiottito dal buio. Mio fratello mi afferra per un braccio. «Sei impazzita? Tu non ce l'hai una pistola, dovevi entrare a chiedere aiuto!» esclama.

«Lo so di non avere una pistola» ribatto. Accenno con il capo verso la direzione in cui è sparito quell'uomo inquietante. «Lui, però, non lo sapeva.»

______________

Ancora con i capelli umidi, esco dal bagno. Vado in camera mia per cambiarmi e indossare il pigiama, ma prima osservo il mio torso nudo allo specchio. Guardo la schiena e osservo il riflesso, studio la cicatrice che mi percorre dalla base del collo a quella della schiena. Ci sono cresciuta, i medici avevano detto che diventando grande si sarebbe rimpicciolita, ma così non è stato. È cresciuta insieme a me, è rimasta indelebile sulla mia pelle.

Mamma e papà mi hanno raccontato solo una volta cosa accadde il giorno in cui mi feci questa ferita. Avevo circa sette anni e mi avevano portata in campeggio, con noi c'era anche mio fratello. Non seppero dirmi come, ma mi allontanai. Non ero una bambina agitata, anzi, ero molto timida e non osavo mai staccarmi dalla gamba di mia madre. Non parlavo con nessuno, me ne stavo immobile a fianco ai miei genitori. Quel giorno, però, decisi di allontanarmi.

I miei genitori se ne accorsero subito e si divisero per cercarmi, mio padre portò con sé mio fratello. Fu mia mamma a trovarmi, stesa a terra e in lacrime. Immersa in una pozza di sangue. Il mio giubbotto era stato ridotto a brandelli e la mia schiena era stata graffiata in profondità. Mi portarono subito in ospedale, dove mi fecero dei punti e delle trasfusioni di sangue.

Il chirurgo disse ai miei genitori che ero stata attaccata da un lupo, ma i miei non ne erano convinti. Per quale motivo un lupo avrebbe dovuto attaccarmi per poi lasciarmi lì? Non avrebbe avuto più senso se mi avesse portata via per nutrirsi? In ogni caso, decisero di non parlarne mai più. Erano stati fortunati, io ero stata fortunata, e loro potevano ancora abbracciarmi.

Tuttavia, quella storia è ancora impressa sulla mia schiena. Vado in salotto e raggiungo mio padre sul divano. «Papà, posso farti una domanda?» chiedo.
«Anche due.»

«Ti ricordi altro del giorno in cui quel lupo mi attaccò?»
«Solo che è stato il secondo giorno più brutto della mia vita» risponde.

Resto in silenzio, scalfita dalla sua risposta. Non deve aggiungere nulla: so che il primo giorno più brutto della sua vita è lo stesso in cui la nostra famiglia è andata in mille pezzi.

Ciao raga,
è iniziata quella fase in cui mi fa schifo tutto ciò che pubblico e ho già iniziato ad avere dubbi su Fables 😀
La porterò avanti, ma vedremo come andrà. Spero, nel frattempo, che questo capitolo vi sia piaciuto.
Un abbraccio forte 💖

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