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Le prime, grosse gocce di pioggia si annunciarono battendo un ritmo sconclusionato sulla tettoia di lamiera della stazione ferroviaria. Frank sospirò e affondò ancora di più il viso nel giaccone, tentando di scaldarsi il naso gelato. Sentì che, negli stivali, i piedi stavano perdendo sensibilità e li pestò con forza sul pavimento crepato per riattivare la circolazione. Guardò con disgusto i binari neri e viscidi disseminati di sacchetti di patatine, lattine arrugginite di cola e pezzi di un ombrello rotto. Il treno era in ritardo di quindici minuti e lui, nella sua impazienza, era arrivato con dieci di anticipo. Non poteva fare altro che restarsene lì in piedi, fissare il vuoto e sentire il calore del suo corpo abbandonarlo lentamente.
Mentre la pioggia cominciava a cadere sempre più costantemente, lo sconosciuto accanto a lui tentava invano di leggere un quotidiano gratuito, rapito dalla storia di un raccapricciante omicidio compiuto nel West Wildwood. La tettoia offriva un riparo poco efficace e le goccioline che cadevano fitte sul giornale annacquavano l'inchiostro riducendo il foglio a un'esplosione di macchie scure. Brontolando, l'uomo lo ripiegò e se lo ficcò sotto il braccio. Poi si guardò intorno cercando un diversivo e Frank distolse immediatamente lo sguardo. Non gli andava affatto di dover sostenere una conversazione di cortesia.
Non era stata una bella giornata. Per chissà quale motivo, la sveglia non aveva suonato e da quel momento in poi tutto era andato a rotoli.

«Sveglia! Alzati! Farai tardi. Sei rimasto attaccato al telefono anche ieri sera? Se non sei capace di darti delle regole, vedrai che parteciperò molto di più alla tua vita sociale, e la cosa non ti piacerà!».
La voce sonora di sua madre si intrufolò in un sogno che coinvolgeva un affascinante sconosciuto. Aveva un tono tanto acuto da spaccare i vetri, perciò trapassare il subconscio di Frank fu un gioco da ragazzi. Mentre tornava nel lungo corridoio del loro appartamento, sua madre continuò a brontolare, ma Frank già non la sentiva più. Stava tentando di ricordare il sogno, di trattenerne qualche dettaglio per dopo. Una passeggiata lenta, una mano calda stretta nelle sue. nell'aria il profumo inebriante di foglie e terra umida. Frank sorrise, sentendo un fremito caldo nel petto, ma il freddo del mattino dissolse l'immagine prima che lui potesse fissare nella mente il viso dello sconosciuto. Sospirando, si costrinse ad aprire gli occhi e si stiracchiò, crogiolandosi nel calduccio confortevole del piumone, poi sbirciò a sinistra, in direzione della sveglia.
Oh, Dio.
Avrebbe fatto tardissimo. Correndo per la stanza, tentò di mettere insieme gli indumenti puliti da indossare. Una spazzolata ai capelli corvini, lunghi fino alle spalle. Mentre sistemava il ciuffo dietro l'orecchio in modo disordinato, Frank non sprecò neanche un'occhiata per guardarsi nello specchio.
Non fare la doccia era fuori questione, ma quel giorno dovette accontentarsi di una rapida piroetta sotto il getto dell'acqua, che era sempre ustionante, a prescindere dai rubinetti girati o dalla pressione del getto. Si strofinò la pelle con un asciugamano ruvido e infilò a strattoni i jeans neri e una camicia bianca. Corse in cucina, e un'occhiata al frigorifero rivelò che non c'era niente che potesse mangiare velocemente. Non c'era tempo neanche per una scappata in caffetteria. Sarebbe rimasto affamato, punto. Se non altro, sulla carta della mensa scolastica aveva abbastanza credito per pagarsi un pranzo decente. Era venerdì, che di solito significava fish&chips – anche se ovviamente non ci sarebbero stati sale, aceto e nemmeno ketchup. Non nella nostra scuola ipersalutista, pensò Frank, seccato.
«Hai fatto i bagagli?».
Il ragazzo si voltò e vide sua madre, Lydia, in piedi sulla soglia della cucina. Era già in uniforme, pronta per l'estenuante turno di dodici ore in ospedale.
«No, li farò dopo la scuola. Il treno non arriva prima delle cinque. c'è un sacco di tempo». Ficcanaso come al solito, pensò. A volte le sembrava che proprio non riuscisse a farne a meno.
Lydia sollevò un sopracciglio di disapprovazione, accentuando le rughe che le solcavano la fronte nonostante le costose lozioni e creme che vi applicava ogni sera.
«Quanto sei disorganizzato», cominciò. «Avresti dovuto farli ieri sera invece di chattare con i tuoi amici».
«D'accordo!», scattò Frank. «Ce la farò».
Per un attimo sembrò che Lydia avesse parecchie cose da aggiungere, invece si limitò a scuotere la testa e andarsene. Era facile indovinare il motivo del malumore di sua madre. Non le andava proprio giù il fatto che Frank partisse per passare un fine settimana con suo padre, l'uomo che lei, un tempo, aveva promesso di amare e onorare finché la morte – o in questo caso la vita – non li avesse separati.
Intuendo che la madre non aveva ancora rinunciato a dire la sua, Frank si infilò scarpe e giacca e si incamminò nel corridoio, tentando di ignorare il borbottio che il suo stomaco stava già producendo. Si fermò sulla porta per urlare un saluto forzato – che non ebbe risposta – prima di trascinarsi fuori, nella pioggia.
Dopo un quarto d'ora di cammino, il suo giaccone scadente aveva perso la battaglia contro la pioggia e Frank sentì l'umidità filtrargli nella camicia.
Sibilò fra i denti qualche imprecazione, non c'era tempo per una volata a casa. In realtà, nonostante corresse a perdifiato, avrebbe fatto tardi comunque.
Magnifico.
A testa bassa si lanciò a capofitto fra le pozzanghere della strada principale, superò negozi dell'usato, sogni falliti sigillati da tavole inchiodate, caffetterie piene di arredi dozzinali e torte esagerate, e una o due imprescindibili agenzie di scommesse. Non aveva senso tentare di evitare il pantano, visto che aveva i piedi già completamente zuppi; adesso erano l'ultima delle sue preoccupazioni. Per un attimo considerò l'idea di attraversare la strada e nascondersi nel parco finché Lydia non fosse uscita per andare al lavoro, ma si conosceva bene. Non ne aveva il coraggio, punto e basta.
Bofonchiando una sfilza di lamentele miste a parolacce, lasciò la strada principale e varcò i cancelli della Rowan Academy, nel Glassboro.
Tre piani di cubi tutti uguali, in differenti stati di degrado, Frank era certo che la scuola fosse stata progettata per tenere a freno qualsiasi entusiasmo, creatività e, soprattutto, spirito. L'appello si teneva all'ultimo piano nell'aula della signora Murphy – un altro monotono cubicolo che la professoressa aveva tentato di vivacizzare ricoprendone le pareti con poster e disegni vari. Stranamente, i suoi sforzi avevano soltanto reso la stanza ancora più deprimente – soprattutto adesso, piena com'era di trenta cloni che blateravano di fesserie come se fossero stati drammi che ti cambiavano la vita.
L'essere entrato in ritardo procurò a Frank uno sguardo tagliente. Non appena si sedette, la voce stentorea e lamentosa della professoressa sovrastò il chiasso dell'aula. «Iero. La giacca».
Sorprendente come gli allievi debbano essere educati con i professori, ma non il contrario, pensò il ragazzo.
«Ho freddo. Fuori si gela» E anche dentro, pensò, ma non lo disse.
«Non mi interessa. La giacca».
Frank ebbe l'intenzione di resistere, ma sapeva che sarebbe stato inutile. Oltretutto, ulteriori proteste avrebbero attirato l'attenzione su di lui, cosa che, di norma, tentava di evitare. Con un sospiro, armeggiò con la zip e si sfilò la giacca. Un'occhiata verso il basso confermò i suoi timori. La camicia fradicia era trasparente e, sotto, si vedeva praticamente tutto. Non che importasse più di tanto, ma lui si sentiva comunque in imbarazzo, soprattutto conoscendo i suoi compagni. Si sedette a spalle curve e si chiese per quanto avrebbe potuto sperare di restare invisibile.
La risposta fu: circa quarantacinque secondi.
Cominciò dalle ragazze. Da qualche parte, alla sua sinistra, scoppiarono delle risatine.
«Cosa? Che succede?». La voce stridula e maligna di Erik Shaw superò le risatine.
Frank guardò risoluto verso la lavagna, cercando -o più che altro imponendosi- di non pensare ad altro e concentrarsi su quella. Erik era talmente ottuso che gli sarebbero serviti ancora alcuni secondi prima di accorgersi che stavano indicando Frank.
«Ah!». Di nuovo, un'altra immagine mentale degli sputi e spruzzi di cola che sarebbero atterrati sul suo banco ora che c'era finalmente arrivato. «Ehi, Iero, riesco a vederti il culo!».
Frank si rattrappì e scivolò più giù sulla sedia mentre le risatine prorompevano in aperta ilarità.
Da quando Jimmy se n'era andato, in quella scuola nessuno dava la benché minima impressione di appartenere allo stesso pianeta di Frank, men che mai alla stessa specie. Erano pecore, tutti quanti. I ragazzi indossavano tute da ginnastica, ascoltavano musica hip-hop e passavano i pomeriggi allo skatepark. Ma non per andare sullo skate, soltanto per compiere vandalismi e scolarsi qualsiasi tipo di alcolico su cui riuscivano a mettere le mani. Le ragazze erano anche peggio. La pelle arancione per i cinque strati di trucco e delle vocette stridule e malevole uscite direttamente dai film americani per adolescenti. I dodici flaconi di lacca necessari al loro "look" sembravano avergli ridotto il cervello in pappa, dato che non riuscivano a sostenere una conversazione che non comprendesse abbronzatura, orrenda musica pop oppure – ancora più allarmante – quale dei Casanova in tuta fosse il più attraente. Certo, c'erano altri emarginati, ma anche loro tendevano a essere solitari, tentando solo di tirare avanti ed evitare di essere presi di mira dal branco.
Jimmy era stato il suo unico amico. Si conoscevano sin dalla scuola elementare e passavano il tempo a scimmiottare i loro compagni di classe e a tramare piani per evadere da quel posto. L'anno precedente era cambiato tutto. I genitori di Jimmy avevano deciso che, dato il reciproco disprezzo, era arrivato il momento di separarsi. Si odiavano da quando Frank aveva conosciuto Jimmy, perciò lui non capiva perché dovesse accadere proprio adesso. Ma Jimmy aveva dovuto scegliere se vivere a Filadelfia con il padre alcolizzato, oppure trasferirsi insieme alla madre ossessiva. Presa tra l'incudine e il martello, Jimmy aveva scelto di andare con la madre in un minuscolo villaggio chiamato Riverside. Da quando lui se n'era andato, la vita era stata molto più dura e molto più solitaria. A Frank mancava molto il suo amico. Tanto per cominciare, Jimmy non avrebbe riso della sua camicia trasparente.
Sebbene la camicia si fosse mezzo asciugata durante la prima ora, il danno ormai era fatto. Ovunque andasse i suoi compagni di corso – e alcuni che nemmeno conosceva – lo seguivano e ridevano facendo commenti ironici. Arrivata l'ora del pranzo, Frank ne aveva avuto abbastanza. Non ne poteva più dei ragazzi che lo prendevano in giro, degli sguardi maliziosi e dei professori che si fingevano ciechi e sordi.

Quando suonò la campanella, al termine della quarta ora, Frank oltrepassò la sala mensa, ignorando il profumo di fish&chips e la fitta nello stomaco, e uscì dai cancelli della scuola insieme alla folla diretta alla friggitoria o al forno. Quando arrivò alla fine della fila di negozi, continuò semplicemente a camminare.
Il cuore gli batteva a velocità doppia mentre raggiungeva strade in cui gli studenti non si avventuravano mai all'ora di pranzo – a meno che, ovviamente, non volessero fare esattamente quello che stava facendo lui. Non aveva mai saltato la scuola prima di allora, in realtà non l'aveva mai nemmeno preso davvero in considerazione. Lui era lo studente timido, serio, silenzioso, diligente, ma non particolarmente brillante. Tutti i suoi successi dovevano essere ottenuti attraverso un duro lavoro, cosa facile quando non avevi amici. Ma adesso si stava trasformando in un ribelle. Una volta terminato l'appello della quinta ora, accanto al suo nome vi sarebbe stata la A di "assente". Anche se avessero chiamato l'ospedale, Jane non avrebbe potuto fare niente. Per quando il suo turno fosse terminato, suo figlio sarebbe stato già a metà strada per New York. Frank scacciò dalla mente l'agitazione che provava. Quel giorno aveva cose più importanti a cui pensare.
A casa, per prima cosa si strappò di dosso la camicia che l'aveva messo in imbarazzo per tutto il giorno. La gettò nel cesto dei panni sporchi e rimase in piedi davanti all'armadio per esaminare i suoi vestiti. Qual è la cosa più appropriata da indossare quando stai per incontrare tuo padre per la prima volta? Qualcosa che faccia una buona prima impressione. Niente di troppo dark perché, conoscendo suo padre, la buona impressione non l'avrebbe fatta; niente che avesse i personaggi dei cartoni animati, perché l'avrebbe fatto sembrare infantile. Qualcosa di carino e di adulto. Scostò i vestiti per vedere cosa vi fosse nascosto dietro. Alla fine, dovette ammettere di non possedere niente che rispondesse alla descrizione. Prese una maglietta blu scolorita con il nome della sua band preferita stampato davanti, e sopra indossò una felpa grigia con il cappuccio. Sostituì i jeans neri un po' stretti e ne mise un paio di comodi. Si scrutò allo specchio nella stanza di Lydia. Si sarebbe dovuto accontentare.
Poi prese un vecchio zaino dall'armadio dell'ingresso e lo gettò sul letto. Vi infilò un altro paio di jeans e due magliette, dei boxer e infine le scarpe nere. Telefono e portafoglio li infilò nella tasca davanti insieme ai prodotti da bagno.
Infine prese un ultimo, importante oggetto dal letto. Willy, il suo orsacchiotto. Era ingrigito dagli anni e piuttosto malconcio, senza un occhio e con uno strappo lungo la cucitura posteriore da cui sfuggiva l'imbottitura. Non avrebbe mai vinto un concorso di bellezza, ma stava con lui da quando era nato e averlo vicino lo faceva sentire al sicuro. Voleva portarlo con sé, ma suo padre avrebbe potuto giudicarlo infantile. Se lo strinse al petto, indeciso. Poi lo mise sul letto e lo guardò. L'orsacchiotto sembrò restituirgli lo sguardo di chi è stato rifiutato e abbandonato. Con un subitaneo senso di colpa, Frank lo afferrò e lo appoggiò con delicatezza sopra ai vestiti. Chiuse la zip della borsa, poi la riaprì e ritirò fuori l'orsacchiotto. Stavolta Willy cadde a faccia in giù e non poté guardarlo affranto con l'unico occhio accusatore. Frank richiuse la borsa e uscì deciso dalla stanza.
Esattamente venti secondi dopo, rientrò di corsa e agguantò l'orso.
«Scusa, Willy», mormorò, prima di ficcarlo nella borsa mentre filava fuori dalla porta.
C'era un bar sul percorso che portava alla stazione, magari poteva farci un salto e comprarsi un hamburger per resistere fino all'ora di cena. Frank accelerò il passo, pregustandolo già con l'acquolina in bocca. Poi, mentre passava accanto all'alta cancellata di ferro del parco, qualcosa lo fece fermare di colpo. Fra le sbarre osservò la vegetazione disordinata, incerta su cosa stesse davvero guardando.
Un déjà-vu.
Strinse gli occhi per tentare di capire che cosa avesse scatenato quella sensazione. Da sotto i rami di una grande quercia fece capolino qualcosa di bianco e spettinato. Per un istante, Frank ebbe la visione sfocata di una macchia di capelli che incorniciavano un viso anonimo, tranne per due incredibili sfumati occhi verdi. Il sogno.
Prese un respiro, il cuore d'un tratto martellante, ma lo sghignazzare sonoro di un ragazzo infranse l'illusione. La testa si girò rivelando una bocca tesa in un sorrisetto da cui pendeva una sigaretta, socchiusa per lasciar uscire un soffio di fumo. Erik Shaw con i suoi amici. Frank arricciò il naso, disgustato, e indietreggiò prima che lui potesse vederla.
Attraversò la strada scuotendo la testa per scacciare gli ultimi strascichi del sogno, con gli occhi fissi sull'insegna dipinta a mano appesa sopra al bar.

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