Nuovi ospiti
Astore e Buteo erano in viaggio da diversi giorni quando giunsero a Diospasin, presero alloggio nella prima locanda che trovarono lungo la strada principale che tagliava in linea obliqua in due la città.
La gente di passaggio era comune da quelle parti, nessuno avrebbe fatto caso alla loro presenza.
Afrel il locandiere, uomo vicino ai sessanta, basso, tarchiato e stempiato, dai vispi occhi chiari, capiva al volo chi si trovasse di fronte e se avrebbero portato rogne. Vedendoli arrivare con in spalla ognuno la propria sacca smise di sistemare le bottiglie piene dietro il bancone, li guardò un attimo, serrò la mascella e andò loro incontro.
«Salve in cosa posso aiutarvi?» Disse con un sorriso tirato.
«Una camera per un paio di settimane».
«Vi fermate per un po', dunque siete qui per affari?».
«Si».
«Fanno sette testacce al giorno».
«Bene».
I due avevano tutta l'aria di essere ex soldati o comunque uomini abituati fin troppo alla violenza. Negli uomini d'arme aleggiava un'aura di rigore, anche se si erano congedati da tempo o erano stati cacciati.
Il più basso, era anche quello col fisico più vigoroso, teneva i lunghi capelli rossicci annodati sopra la nuca come usavano fare gli uomini dell'est, anche se i colori ed i tratti ricordavano più qualcuno originario del nord. L'altro più longilineo, aveva un leggero tremito alla mano destra e una cicatrice che partiva fra l'anulare ed il medio, creava una scia più chiara fino a scomparire sotto la manica.
Afrel intravide il manico di un pugnale quando quello più alto aprì il soprabito per sistemarsi i pantaloni. Chissà quante ne riuscivano a nascondere lì sotto, poi scosse la testa e prese le chiavi della camera, li guidò su per le scale al secondo piano.
«Non c'è più in alto una stanza?».
«Sopra c'è solo la soffitta».
«Andrà bene anche quella».
Afrel li guardò pensieroso, vedendo che non sembravano voler cambiare idea disse soltanto :«Il prezzo non cambia».
Nessuno dei due obbiettò.
Sganciata la chiave della soffitta dal suo mazzo aprì la porta. Tutto sommato l'ambiente era sgombro, solo il mese prima lo aveva liberato dalle cianfrusaglie per poter permettere i lavori di riparazione del tetto. Afrel accese la lampada a olio poggiata sulla cassa accanto la porta e si mise a cercare sotto le lenzuola che coprivano le cose rimaste, si mise a trascinare qualcosa di metallico.
Astore lo aiutò, prima si sbrigava prima avrebbero potuto occuparsi dei loro affari. Così tirarono fuori un paio di brande in ottone, i materassi li recuperò sotto un altro lenzuolo e le coperte con i cuscini da un baule. Riuscì a trovare anche una brocca e una bacinella.
«Questa ve la farò portare riempita».
Astore mugugnò, Buteo se ne stava poggiato a una delle finestre a guardare il mare, da quelle che si affacciavano dall'altro lato si poteva vedere il castello. Poi prese il denaro e pagò tutto in anticipo.
«Se dovessero esserci spese extra basterà dirlo».
«Non si preoccupi, dovrete solo chiedere e avrete tutto ciò che vi occorre, a proposito io mi chiamo Afrel, se non dovesse trovare me ci sarà Cesareo o mia figlia Gloria» disse in tono fin troppo servile, per lui clienti così erano un dono degli dei e andò via lasciando che si sistemassero.
Mier era alla Rescia, un'altra sorgente, con una minore portata sul lato destro del piccolo paese, la gente vi andava ad abbeverare gli animali, per lavare i panni alla vasca ricavata scavando nella pietra o per riempire gli otri da portare a casa. Da lì alzando lo sguardo oltre i tetti delle case, si scorgeva la sommità del tempio eretto per il nuovo culto, a troneggiare su di esso la rupe col castello. La giovane si domandava come mai il barone non si fosse ancora visto. La gente come sempre aveva iniziato a fare un sacco di congetture.
Alcuni dicevano che fosse deforme, altri che avesse paura della luce del sole. perché lo avevano scorto sola all'imbrunire a camminare sulle mura del castello. Così la giovane si ficcò in testa di volerlo vedere e cominciò a pensare intanto che rincasava a come avrebbe fatto.
Alcune sere dopo ebbe l'occasione che tanto sperava, Teris chiese a Adana, sapendo che lei si sarebbe rifiutata sicuramente, di portare un cestino di fichi a una sua commara. Mier appena sentì da chi doveva andare prese il cestino, si legò il fazzoletto in testa e disse che sarebbe andata lei. La casa della donna si trovava poco prima dell'ingresso per il castello, se avesse corso e non avesse perso tempo a parlare con la donna, le sarebbero rimasti alcuni minuti per poter andare a provare di riuscire a scorgere il barone.
Adana fu ben lieta che la sorella, una volta ogni tanto, si prendesse la briga di fare una commissione e riprese a ricamare il lenzuolo che sarebbe stato parte del suo corredo, doveva sbrigarsi a finirlo, suo padre aveva deciso di comune accordo col padre di lui, di darla in moglie al figlio del vaccaio, anche se ciò avrebbe significato dover andare ad abitare lontano dal paese, dato che i loro pascoli erano al limitare del comune di Clovito.
Mier corse come se la inseguissero i lupi, arrivando a casa della donna che non aveva più fiato, lasciò il cestino e si diresse su per la stradina che conduceva all'ingresso del castello. Non le fu possibile proseguire, ferma in mezzo alla strada, come se stese aspettando proprio lei, c'era Mona.
Aveva qualcosa che si rigirava tra le mani e farfugliava a bassa voce, la donna nel vederla non disse nulla continuava in quel suo lavoro, Mier ebbe paura e cercò di ricordarsi uno di quei scongiuri che recitava sempre la sorella, non gli e ne venne in mente neanche uno. Mona si mise a camminare verso di lei, iniziarono a tremarle le gambe, avrebbe voluto urlare ma non aveva più voce. La donna passò al suo fianco ignorandola, come se fosse stata invisibile, lei fu percorsa da un brivido lungo tutta la schiena. Rimase immobile, ridestandosi da quel torpore ai rintocchi della campana e corse a casa, ma non disse a nessuno dell'accaduto.
Urvag, il sacerdote commerciante, era intento a confrontare il libro delle entrate con quello delle uscite. C'era si un uomo incaricato a quella mansione, per lui avere tutto sotto controllo era fondamentale.
La bottega era chiusa a causa dell'ospite che se ne stava seduto dietro uno degli scafali ingombro di rotoli di stoffe variopinte. Astore si rigirava una cartina che aveva arrotolato, se la passò sotto il naso, conteneva una miscela di farfaro, anice e lavanda, non poteva accenderla poiché Urvag non gli e lo permetteva per evitare che appestasse le stoffe, si divertiva un po' troppo per i suoi gusti a giocare all'allegro bottegaio. Si era persino sposato con una donna del posto, usando le sue conoscenze era riuscito ad evitare di creare una progenie, la cosa avrebbe complicato non poco il suo compito.
«Così possiamo solo aspettare fino alla prima notte».
«Si» rispose senza staccare gli occhi dai libri contabili.
«Non sappiamo quanto ci vorrà».
«Se è la parcella a preoccuparti, sai bene che non è un problema».
«Ḗ solo che al mio amico non piace stare troppo in un luogo».
«Che si trovi qualche passatempo allora, i saltimbanchi verranno solo per i giorni della festa».
Astore fece un mezzo sorriso :«Fosse così semplice» mormorò, compreso che il loro discorso era finito uscì e si accese la sigaretta, incamminandosi per le vie di quella città che a come sembrava li avrebbe ospitati più del previsto.
Le due sorelle assieme a delle amiche, erano andate alle Maline, poco più di un rigagnolo a qualche chilometro dal paese, trovandosi fra le rocce donava in quelle giornate afose un poco di frescura. Se ne stavano con i piedi a mollo, lasciandoli solleticare dai girini che ci si attaccavano.
Il gruppo di ragazze non era da solo, a sorvegliarle c'erano la madre di tre di loro, donna Rosia, che ne approfittò per cercare dell'origano e la zia di un'altra ragazza, seduta su di una roccia a lavorare a maglia. Alle donne con quel caldo non dispiaceva essere andate dietro alle ragazze.
Quattro di loro si sarebbero sposate entro l'anno e andavano custodite come un tesoro prezioso, le donne sapevano bene di essere state seguite da due dei pretendenti, i quali erano andati lì d'accordo con gli altri fidanzati, a controllarle.
I due erano nascosti fra i cespugli di erica, non avevano mai visto le gambe a così tante ragazze tutte assieme e se la ridevano. Erano talmente presi da non accorgersi dell'arrivo alle loro spalle di donna Rosia, che fece prendere ai due un bello spavento. I giovani con la coda tra le gambe, se ne ritornarono al paese.
La donna si accorse che a spiarli non c'erano solo i ragazzi, fra i cespugli sentì muoversi qualcosa, non riuscendo a capire chi o cosa fosse si avvicinò, fra le foglie riusciva soltanto a distinguere una sagoma scura, si fermò ad ascoltare, riusciva a sentire il suo respiro pesante, un brivido la percorse, fece un altro passo, da dietro il cespuglio spiccarono il volo alcuni corvi che l' assalirono, cercando di graffiare il suo volto.
Donna Rosia lasciò cadere il mazzo d'origano e cercando di proteggersi gettandosi faccia a terra, gli uccelli le strapparono i capelli, i vestiti e la riempirono di graffi.
Attirate dalle sue urla le ragazze corsero a guardare cosa stesse accadendo, fortunatamente appena arrivarono gli uccelli scapparono, lasciando finalmente in pace la povera Rosia che con le lacrime agli occhi, si era messa a pregare tutti gli dei vecchi e nuovi che conosceva.
Tornarono subito a casa, tuttavia si misero d'accordo che non avrebbero raccontato a nessuno dell'accaduto, per paura che i loro uomini non le facessero più uscire di casa, fra poco sarebbe stata la festa del nuovo culto e nessuna di loro voleva passare il resto dell'estate segregata.
Così se qualcuno avesse domandato su come si fosse fatta male Rosia, avrebbero detto che era scivolata andando a finire fra i rovi. Una ragazza le prese mazzo di origano che aveva raccolto, se fosse tornata senza nulla il marito si sarebbe lamentato.
Da quel giorno le donne che erano presenti, cominciarono a guardare con occhi diversi i corvi che avevano iniziato a popolare la rupe.
Gloria era intenta a riempire alcune caraffe al pozzo dietro la locanda, una l'avrebbe dovuta portare in soffitta, ancora non c'era stata occasione di incontrare i due nuovi ospiti, dato che in quei giorni stava aiutando sua nonna che abitava a Romite per preparare delle conserve.
Lei era una ragazza minuta, infaticabile, forse un po' troppo curiosa e sveglia e spesso doveva nascondere la sua spiccata intelligenza, dote che non si addiceva ad una ragazza. In età da marito rifiutava uno dopo l'altro i suoi pretendenti, determinata a non volere un padrone da cui dipendere, così per far finire quei corteggiamenti fastidiosi, fece circolare la voce che se la intendesse con i clienti di passaggio, nessuno avrebbe mai voluto prendersi una prostituta.
Alzò lo sguardo verso le finestre della soffitta, si accorse che sul cornicione vi era un corvo che sfregava con il becco contro il legno.
«Uccellaccio del malaugurio» esclamò facendo i dovuti scongiuri. L'uccello era considerato il simbolo di un dio malvagio di cui non si poteva dire il nome ad alta voce, facente parte dei quattro antichi creatori, altrimenti sarebbe andato a prendersi l'anima di chi lo chiamava.
Rientrò svelta e lasciate le altre brocche in cucina salì spedita portandone una ai due nuovi ospiti, bussò, ma non ricevete alcuna risposta, così bussò nuovamente e la porta venne aperta da un uomo alto e magro.
«Buona sera, vi ho portato l'acqua che avete chiesto».
Buteo aprì solo di un palmo in più la porta e prese la brocca.
«Grazie» chiuse senza aspettare la risposta della giovane.
«Che razza di zoticone» e se ne ritornò di sotto senza dar peso più di tanto al carattere dell'ospite, dopo tutto ne conosceva di peggiori. Giù per le scale si incrociò con Astore, che si fermò un attimo a squadrarla per ritornare poi in camera.
Buteo, terminata la sua lettura, si recò a Calinu, si mise a sedere sul muretto in pietra e sfilato il pugnale cominciò a tagliare il muschio che vi era cresciuto sopra, staccandone un pezzo poco più grande della sua mano, lo poggiò e con le dita si mise a pulire la pietra che aveva scoperto, riportando alla luce un antico simbolo. Si punse la punta del dito e col sangue che ne uscì, passò sopra l'incisione, una volta finito la ricoprì nuovamente col muschio.
Pronunciò a bassa voce l'incantesimo che aveva studiato, era semplice, ma non lo eseguiva da tanto tempo. In quegli ultimi decenni si era avvalso soltanto dell'aiuto di Astore e di qualche persona comune, non di magare e spiriti.
Le vide affacciarsi, ripiegate su se stesse, timorose, guardinghe, si sistemarono l'ungo gli argini del fiumiciattolo, aggrappandosi ai cespugli e le edere. Nessuno le aveva più chiamate a sé da secoli ormai. Ritrovarsi di fronte a qualcuno con quel potere poteva significare soltanto una cosa, e immaginavano fin troppo bene chi lo avesse mandato a cercarle.
«Da oggi lavorerete per me, il vostro signore sta per tornare».
«Avete sentito?».
«Avevano ragione le costellazioni».
«Sta tornando».
«Il nostro signore, noi saremo pronte».
«Dobbiamo tenere d'occhio la luna».
«Attende da tanto ormai, sentiamo le sue urla». Dissero in sussurri le magare.
Buteo rimase ad osservare soddisfatto la nebbia che cominciava a divenire più fitta all'interno della gola, presto si sarebbe propagata per tutta la città.
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