77- Le scarpe rosse
"Balla non aver paura se la notte è fredda e scura
Non pensare alla pistola che hai puntato contro
Balla alla luce di mille sigarette e di una luna
Che ti illumina a giorno balla il mistero
Di questo mondo che brucia in fretta quello che ieri era vero
Dammi retta
Non sarà vero domani
[..]
Ama davvero senza nessuna certezza
Che commozione che tenerezza".
Lucio Dalla - Balla balla ballerino
P.O.V.
Caitlin
Sono trascorse due settimane dalla partenza di Evie ed eccezione fatto per il viso di Reiner quasi niente è tornato al proprio posto. Quello che mi sono trovata a fare è stato ricostruire un principio di fiducia con il mio avvocato, in modo da sopportare al suo fianco il procedere della causa. Assieme siamo rimasti all'ascolto dello sproloquio dei due testimoni, affiancati da un terzo, la cui presenza mi ha completamente disintegrata.
Isaac si è mostrato al banco dei testimoni con un'aria colpevole, afflitta nei miei confronti per quello che stava per fare, ma non poteva essere altrimenti. La sua testimonianza è stata importante, per non dire fondamentale, nell'evolversi del processo ed a niente sono servite le prove che ho fornito, in merito agli esiti medici che Michael mi aveva nascosto. La sua esperienza da cameriere ha creato un forte testimonianza, di fronte alla giuria, che sembra essere sempre più convinta della sua innocenza.
La loro sicurezza destabilizza la mia forza di volontà.
Ed eccoci in un punto morto, bloccato secondo un volere giuridico che ci congela come statue di vetro, snaturando la nostra importanza vista la nostra trasparenza.
Le motivazioni da entrambe le parti sono specifiche, solo il volere non coincide. Michael non si è mai presentato in quell'aula di tribunale. Non ho visto il suo viso. Non ho guardato la sua espressione piena di rabbia, a seguito di ogni mia prova portata e di conseguenza...non ho potuto aggrapparmi ad essa per continuare a lottare. Ed ad ora in mano non mi è rimasto niente se non una lieve speranza ed un'unica consapevolezza: è tempo che io torni a lavoro.
Un'ordinanza tiene Michael lontano da me, e ho già pesato troppo sulle spalle di Lexie e Reiner. Persino su quelle di Ethan che, senza dirmi niente e con il consenso degli altri due, si è fatto carico di parte dei miei doveri. Li ho sentiti parlare la scorsa notte, in cucina.
Dunque, eccomi tornata qui. Di fronte all'ingresso della Land Art Society, questo posto che mi ha regalato tanti problemi quante soddisfazioni e che adesso torna ad accogliermi al suo interno, come un gentile ospite.
Le porte sembrano ancora più pesanti, nella loro composizione in vetro, di quanto ricordassi, ma una volta superate trovo la mia cara amica segretaria all'ingresso che mi saluta in un mix di sorrisi e strette micidiali che mi tolgono il fiato. È felice di rivedermi. Mi dice che sono dimagrita troppo. Io mi stringo nelle spalle e le dico di essere stata semplicemente malata. In fondo è la giustificazione che ha dato a Lexie all'intero ufficio. Ora, però, sono ritornata.
«Lexie e Reiner sono già arrivati?»
«Entrambi. Reiner è in ufficio, in videochiamata con nuovi operatori per la prossima mostra.»
«Perfetto, e Lexie dove è?»
«Nel salone principale, si sta occupando dei nuovi temi da esprorre.»
«Fortuna che sono arrivata io» commento, visto che si tratta del mio ambito. Lexie può cavarsela grazie ai suoi studi liceali, virati verso l'approfondimento del ramo artistico, ma non ha comunque occhio per le creazioni.
«Sì, Katrina, siamo tutti felici che tu sia tornata» mi dice in un sorriso sincero. Riesce a farmi sciogliere non poco.
«Grazie... allora raggiungo Lexie nel salone.»
«Ma certo, vai pure.»
Ormai parte stessa di questo luogo, recupero il mio ritmo all'interno di questi corridoio e raggiungo la stanza designata all'esposizione dei nuovi temi della mostra.
Trovo la mia amica di spalle, intenta a destreggiarsi tra un sacco di tessuti e di dipendenti.
«Allora, ragazzi, uno alla volta e con ordine. Venite da me seguendo uno schema alfabetico, così posso vedere i prodotti!»
Non ho idea di cosa si tratti ma mi diverto abbastanza nell'immaginarlo, mentre resto al margine di questa scena tragi-comica.
Lexie è molto vicina all'esaurimento nervoso, non sa più su quale di questi fantastici tessuti aggrapparsi, ed entrambe la mani disperse nei capelli ne sono il chiaro esempio.
«Posso essere di aiuto?»
Quando si volta, è come se avesse sentito la voce di un angelo. Le occhi assumono la dolcezza che si conviene di fronte ad una grazia divina e mi fa ridere l'esasperazione, mista alla tristezza, che indossa il suo viso.
Sfoggia, addirittura, un metro girato intorno al collo.
«Sneg... dimmi che non è un sogno e che sei realmente qui» mi dice, manifestando parole che nella mia testa ero già stata in grado di prevedere.
«Sono proprio qui, amica mia.»
«Oh, grazie al cielo!»
Al diavolo la professionalità. La mia amica mi si getta addosso e mi stringe tra le braccia, procurandomi una risata sincera mentre la ricambio divertita.
«Vuoi dirmi che cosa stai facendo o preferisci rimanere appesa al mio collo per sempre?» Le domando, eppure non la sento allontanarsi di un passo.
«Preferirei un profondo bicchiere di Martini bianco, invece, con una sola oliva. Non hai idea di quanto bisogno abbia di una dose puramente alcolica, ora.»
«Avanti, allontanati e raccontami che sta succedendo» le suggerisco, permettendole di tornare dritta ed incurante dei dipendenti che cercando di contenere l'ilarità. Alcuni di loro, di mia conoscenza, si approcciano ad un saluto nei miei riguardi che ricambio allegra.
«Allora, stammi bene a sentire. Dovremo esporre degli abiti di questo importante marchio. I loro prodotti sono completamente sostenibili ed intendo dire che provengono da processi di riciclo di materiali esausti, ovvero da bottigliette di plastica fino ad arrivare all'olio per friggere» inizia a raccontarmi, mostrandomi con un dito, volta volta, l'esempio di uno di questi capi. «Quindi quello che dobbiamo fare è creare uno spazio di esposizione per loro ma, prima ancora, abbiamo bisogno di scattare il set per la pubblicità. A questo fine, ho chiamato Javier, saluta Javier» mi dice, puntando il dito contro l'uomo sul fondo della stanza che affianca un telo bianco e altre quattro ragazze. «Lui sarà il fotografo. Poi ho chiamato delle modelle, ma c'è un'incidente lungo una delle strade principali e non arriveranno mai in tempo quindi ho scelto quattro delle ragazze più magre e carine della nostra equipe» prosegue, senza nemmeno abbassare troppo la voce.
Sollevo le sopracciglia alla sua mancanza di tatto, ma non se ne rende nemmeno conto.
«E il dramma non finisce qui perché mi manca una quinta ragazza. Vuoi, gentilmente, prestarti a tale servizio mentre mi metto in contatto con il notaio dell'azienda per valutare il budget?»
Credevo di poter essere utile in tutt'altro campo. Non ho molto altro da dire ma non voglio che Lexie torni a parlare della nostra situazione di emergenza e dunque mi presto anche a questo. Dopo, forse, mi sarà concesso tornare a fare il mio lavoro.
«D'accordo, nessun problema.»
«Ottimo. Accanto a Javier c'è la stilista. Sulla sinistra c'è la maxeup artist. Passa da entrambe e lasciati guidare, sanno tutto loro. Grazie, Seng, sei una manna dal cielo!»
L'ultima parte della frase la urla, quasi, mentre se ne va, lasciandomi sola nell'enorme sala di dipendenti.
Ruoto il corpo in un mezzo sorriso e mi blocco subito dopo, incontrando un'altra figura di fronte.
Ethan mi fissa con sorpresa, quasi non riuscisse a capacitarsi del mio essere qui. Con un sorriso, arrivo fino a lui, con passi lenti e incerti, ed ecco che finisco con il raggiungerlo.
«Ciao» mormoro piano ed i suoi occhi scorrono lungo il mio volto, accertandosi della mia presenza.
«Ciao» risponde poco dopo, proseguendo prima di lasciarmi andare. «Sei tornata a lavorare?»
«Era il mio desiderio, ma Lexie mi ha affidato qualcos'altro.»
«Che cosa?»
Mi mordo un labbro divertita e devo assumere di nuovo la serietà per tornare a rispondergli.
«Mi ha ingaggiato come modella.»
Solleva le sopracciglia e lancia uno sguardo alla stanza alle mie spalle, focalizzandosi sugli abiti.
«Indosserai uno degli abiti della Amir?»
«È il marchio della nuova stilista per la mostra?»
«Hai già un fotografo?»
«Perché?» Domando, inclinando la testa per riavere la sua attenzione. I suoi occhi celesti tornano ai miei, stavolta fissandomi con divertimento. «Saresti disposto a tornare a scattare?»
«No» mormora, suscitando la mia delusione ma non perdendo nemmeno una punta del suo tono umoristico. «Voglio sapere chi è il fotografo che lo farà.»
«Un certo Javier...»
Storce la bocca. «Javier Prem?»
«Sono appena arrivata, piano con le domande! Non so ancora niente.»
«Si tratta di lui, lo vedo sul fondo della sala...» commenta, a un tono di voce basso ed ecco che il fotografo sorride e solleva una mano nella sua direzione. Ethan ricambia, e non so come possa apparire a Javier ma qui, da vicino, non mi sembra affatto convinto. Abbassa il braccio e torna a fissarmi negli occhi, con più certezza stavolta. «Vengo con te, quell'uomo non sa tenere le mani apposto.»
«E che cosa vuoi fare? Tenerlo sotto controllo se si avvicina troppo?»
«Nessuna di queste ragazze è una professionista, so dell'incidente lungo la strada, inoltre per te vale lo stesso. Me ne starò, semplicemente, li vicino ad osservare.»
«E si avvicina troppo attacchi?»
«Che cosa vuoi sapere, esattamente, Katrina?»
«Hai un lato violento?»
«Perché me lo domandi?»
«Tu dimmelo e basta.»
«Difendo ciò a cui tengo. Divento protettivo solo se qualcuno arriva a procurargli fastidio.»
«E a me tieni?»
Ispira di scatto e mi fissa disorientato. «Katrina...»
«Non importa, lascia perdere, è stata una domanda sciocca» rispondo per entrambi, andandomene prima ancora che possa farlo lui.
Arrivo fino a Javier e lo supero, dirigendomi verso la stilista e la ragazza dell'ambito trucco. Mi lascio guidare e le seguo, insieme alle altre ragazze, fino ai camerini.
Una volta da sole, noi cinque con queste due signore, ci sentiamo tutte libere di dimenticarci del nostro orario di lavoro. I miei nervi si distendono leggermente dalla tensione alla quale li aveva costretti l'incontro con Ethan e le orecchie si tendono verso gli argomenti frivoli delle ragazze.
Specie verso quelli di una di loro.
«Ogni giorno diventa sempre più bello! Ma come è possibile?» Chiede alla sua manica, posandosi persino una mano sulla bocca in un modo infantile. È udibile da tutte.
«Credo proprio che pensi lo stesso di te! Altrimenti perché starebbe lì ad aspettare?»
«Lo credi davvero?»
«Certo che sì, guarda un po' dove si è seduto! Proprio alla tua scrivania!»
Un sottofondo complice di cinque differenti risate unisce il gruppo di ragazze che si è radunato di fronte all'unica feritoia che consente questo telo d'appoggio, in direzione della stanza.
Vedo l'uomo di cui stanno parlando e sprofondo fino a terra... si tratta di Ethan.
«Che cosa succede, ragazze?» Lo domando, presa dall'incertezza, avvertendo il gruppo zittirsi di colpo. Non conosco nessuna di loro, fanno parte del team di Lexie, ma probabilmente sanno chi sono perché mi osservano con incertezza. Poi, l'imbarazzo ha la peggio contro il buon umore.
«La nostra Diana si è innamorata di un ragazzo, della nostra compagnia!»
«Julia!» La rimprovera, probabilmente Diana, ed io analizzo quest' ultima da capo a piedi, notando la gentilezza della sua figura. È piccola ma ben fatta, mora e con un viso dolce, dagli occhi ambrati. Più bassa di me ma con tutte le curve al posto giusto, lo evidenziano anche i soli capi di biancheria che le sono rimasti, dovendosi spogliare per indossare i nuovi prodotti.
«E di chi si tratta, Diana?» Le chiedo, vedendola imperterrita nel fissarmi in risposta. Avrei creduto che abbassasse lo sguardo, io lo avrei fatto di fronte ad una donna quantomeno più importante di me in ambito lavorativo, specie quando l'argomento è così poco pertinente al luogo in cui siamo... ma lei non lo fa, il che significa che ha coraggio.
«Ethan» conferma i miei dubbi, ed io non posso non sorridere. Sì, a lui piacciono le donne piene di grinta, forse dovrebbe provare.
«Se ne sei davvero così innamorata come credi dovresti farti avanti, non pensi?»
«Temo che sia innamorato di un'altra.»
«Non c'è nessuna nella sua vita, posso dirtelo per certo. Siamo amici, è appena uscito da una storia importante e molto dolorosa... ma forse ha voglia di rifarsi una vita.»
«Quindi, secondo te dovrei provare?»
«Sì, Diana, fallo.»
Alla fine, se non la vuole, sarà lui a rifiutarla ma almeno lei ci avrà provato.
«D'accordo, allora... grazie.»
«Di niente» le dico sorridendo, e poi torno alla mia postazione.
Lascio passare la maglia oltre la testa, rimanendo in reggiseno, e poi mi occupo di aprire la gonna senza mostrare le ferite del fuoco di Sant'Antonio sulle gambe, a chiunque mi sia intorno.
Dal riflesso dello specchio vedo Diana osservarmi, e poi sorridermi non appena incrocia il mio sguardo.
Non sono bella quanto lei, dovrebbe rasserenarsi della sua presenza scenica sulla pagina dei cartelloni pubblicitari. Non le toglierò spazio.
La stilista mi raggiunge e mi porge il mio abito. Consiglia di indossarlo prima del trucco ma di porre uno dei fazzoletti, nella scatola kleenex a me di fronte, sul bavero del colletto, in modo da evitare ricadute dell'ombretto.
La ringrazio ed indosso con attenzione il vestiario, avvitandolo con la cerniera di lato, per poi recuperare i fazzoletti.
Attendo la truccatrice mentre mi fisso allo specchio, vedendo me, il mio riflesso ed il colore di quest'abito tutto in un unico contrasto.
La stoffa è bianca, immacolata ma cucita abilmente con dei tagli, dei cambi di stile, da lasciarmi scoperte le spalle e una porzione di petto, un fianco tramite un taglio per poi concludersi a sirena lungo le gambe.
L'ultima volta che ho indossato un abito bianco è stato al mio matrimonio con Michael. La penultima nella mia vecchia casa a Los Angeles, quella nella quale avevamo convissuto, i primi tempi, assieme a Marina e che aveva una vetrata bellissima nel soggiorno.
Avevo raccontato a mio marito l'importanza del ricordo che aveva l'abito bianco per me. La memoria del giorno di Natale, quando nel Donegal ci vestivano di quegli abiti immacolati per poi farci cantare, con in testa corone di alloro, inni alla sacralità del giorno. Era simbolo di una purezza che sentivo di aver perso, e che lui in quella giornata, tramite un semplice regalo, mi aveva ridonato. Non voglio pensare a quello che è successo dopo. A come il mio essere indifesa fosse stato infranto dai suoi artigli di predatore... voglio concentrarmi unicamente su quella notte di Natale, circondata d'amore, in cui ci siamo promessi l'eterno.
Quello che indosso adesso, invece, è un abito bianco dal taglio sensuale. Un connubio perfetto, che mi destabilizza. Che significa?
È possibile rimanere donna, ferita dal dolore degli anni e dalle delusioni, pur restando pura? È possibile sul serio?
Essere sensuale ma sincera. Candida e feroce. Donna come bambina...
Posso esserlo davvero?
«Siamo pronte, Katrina, devi solo indossare le scarpe» mi avverte la truccatrice che, per tutto il tempo delle miei torbidi pensieri, si è preoccupata di rimettermi al mondo e sono soddisfatta anche di questo risultato.
Il trucco è leggero ma elegante, arancio con una punta di rosso. Indosso le scarpe senza pensarci troppo, con lo sguardo perso dentro i ricordi che mi vincolano alla visione di un punto indeterminato della stanza, per poi pensare ai gioielli che mi vengono suggeriti. Dopodiché supero il lenzuolo che mi separa dalla stanza.
La prima cosa che vedo è il sorriso di Javier in piedi, di fronte alle luci del set fotografico, poi mi rendo conto dello straordinario silenzio.
Nemmeno una parola viene dispersa nell'aria. Né per quanto riguarda i camerini né per il resto della società. Nel salone sono tutti in silenzio e fermi, ad osservarmi.
Straordinariamente a disagio, vado a caccia di occhi noti e li trovo molto presto... Ethan è seduto a una delle postazioni, come detto dalle ragazze, e mi sta fissando.
Ogni parte di me sibila in una scintilla quando le sue iridi passano su ogni porzione del mio corpo. Vedo, distintamente, le sue palpebre abbassarsi per concludere con attenzione la sua analisi, prima di ritornare al mio viso.
Quando lo fa... la sua espressione è difficile da decifrare. Noto un piccolo bagliore nello sguardo, ma siamo troppo distanti e potrei essermelo immaginato.
«Katrina, partiamo da te. Vuoi accomodarti su quella sedia alle tue spalle?» Chiede con gentilezza Javier, indicandomi la sedia designata.
Lancio uno sguardo ai camerini, alle ragazze dietro al telo.
«Loro non vengono?» Dal mio tono traspare il terrore.
«No, si tratta di scatti singoli ed è una fortuna che tu sia stata pronta per prima: Lexie mi ha detto di partire proprio da te, così potrai tornare a lavoro.»
Afferro con una mano il mio braccio esposto, nudo, presa dall'imbarazzo di non sapere cosa fare. Tutti questi occhi addosso, poi, mi incutono timore.
«Mi siedo, quindi?»
«Sì, proprio alle tue spalle» mi conferma il fotografo, ed io faccio quanto mi richiede. Con lentezza arrivo alla sedia e mi accomodo, con la schiena rigida.
«Cerca di essere meno composta, sono foto per una propaganda.»
La sedia ha il supporto dei braccioli in legno laterali, dunque vi poso i gomiti cercando di assumere un atteggiamento più rilassato.
«Come devo fare?» Chiedo, completamente in difficoltà in questa situazione.
Javier inclina la testa quasi stesse cercando, nella sua mente, la posa migliore da farmi assumere... ma resta in silenzio, ed io cado ancora più nel panico.
«Non è a suo agio» sento sussurrare da una voce conosciuta e subito dopo averla pronunciata Ethan si alza in piedi, rivolgendosi all'intero personale presente in stanza ed iniziando a battere le mani. «Forza! Tornate al proprio lavoro e chi non ha niente da fare qua dentro torni alla propria postazione! Non abbiamo tempo da perdere, forza, forza!»
Grida e come topolini su di una nave destinata ad affondare vedo ognuno di loro separarsi dall'altro, correre impazziti in una postazione opposta, prendere le distanze e tornare a lavoro. In poco meno di un minuto, il salone si svuota per metà e le poche persone che sono rimaste presenti sono troppo occupate per focalizzarsi su di me.
Torno a respirare, ma per Ethan non è sufficiente. Non appena vede che Javier muove un passo nella mia direzione, ne compie due lui, per primo, accorrendo verso di me veloce.
«Ti do una mano a trovare la giusta posa» mi dice, a un passo dal viso ma troppo occupato per fissarmi negli occhi mentre è chino su di me.
«Ethan...» sussurro, in imbarazzo e piena di sorpresa, ma lui non mi da credito.
«Lasciarmi fare, so come gestire la cosa.»
Ed infatti sa come fare. La sua mano, con gentilezza, afferra la mia gamba destra e la solleva, lasciandomi scivolare leggermente lungo la sedia e mi sorprende, nel posarla sopra il bracciolo destro.
L'abito risulta comodo, ma non sufficientemente largo da impedire all'altra gamba di muoversi di conseguenza.
Prima che possa farglielo notare, si è già occupato di tutto, ed eccomi con le gambe tese, rigide, verso il vuoto sulla destra, sostenute dal supporto in legno.
In questo modo, viene evidenziato all'obbiettivo il fianco tagliato del mio abito e la pelle scoperta al di sotto. La cucitura della gonna e l'asimmetria dei tagli. Una posa, dunque, perfetta e sorrido di compiacenza.
«Solleva leggermente la testa» mi sussurra.
«Come?»
Delicatamente, mi afferra con una mano il viso posando il palmo contro il mio collo e le dita al di sotto delle mascelle, in un gesto simile a quello compiuto sul balcone di casa.
Mi esorta a lasciar cadere il volto leggermente indietro, incastrandolo lievemente la testa all'unico vuoto contesso nella parte più alta dello schienale. In questo modo i ricci finiscono per essere scompigliati senza una precisa direzione, che poi le dita di Ethan tendono a dare, mantenendone la confusione.
È sopra di me a sfiorarmi i capelli mentre compie un gesto simile. Dopo lunghi attimi ce ne rendiamo entrambi conto, ed è così che i suoi occhi si fissano nei miei, rivelando il bagliore che prima avevo solo intravisto.
«Così è perfetta» mormora, per poi allontanarsi di scatto. Lo vedo retrocedere fino all'angolo in cui la telecamera non può riprenderlo.
«Avanti, Javier. Scatta» incentiva ulteriormente il fotografo, ed è allora che si sussegue una concatenazione di flash.
Una volta terminati, secondo i consigli a distanza di Javier riesco ad assumere un ulteriore posa, più contenuta, che mi vede con le gambe sovrapposte, i piedi a terra, il corpo sporto su un lato e il gomito, a sorreggere la testa, sul braccio del lato verso il quale pendo.
Le correzioni di Ethan non mancano e tramite quelle mi torna, di nuovo, vicino. In uno o due scatti, grazie alla sua ironia, riesco anche a sorridere. Ma non mi piaccio, particolarmente, nelle foto in cui sorrido ed è per questo che torno seria.
Assumo, nonostante questa nuova posizione, la dovuta compostezza ed è allora che abbasso gli occhi fino a terra, notando il colore delle mie scarpe.
Si tratta di un rosso vivo, particolarmente accesso, che si abbina ai gioielli che indosso, oltre che agli strati di trucco.
Per un lungo minuto il mondo si silenzia di nuovo ed io non vedo altro che quelle scarpe, sul telo bianco. Il cuore accelera i propri battiti.
Esiste un'opera, che ho studiato nel mio primo anno di università, identica al momento che sto vivendo, ed è di Elina Chauvet.
Prendo un profondo respiro, ricordando il significato che comporta l'installazione che ha creato, lo sfoggio di quelle scarpe rosse sul pavimento di una piazza. Un'installazione dura, di denuncia, che non accetta repliche.
Quelle scarpe sono il simbolo della violenza sulle donne. Delle donne stuprate, uccise, violentate, perseguitate, oppresse ed annullate, riunite insieme in un moto di denuncia che dichiara la fine di un sopruso fisico quanto mentale.
Mi alzo di scatto e le levo di colpo, mandandole lontano. I flash terminano la loro trafila di scatti ma nessun altro si è accorto di questa mia reazione improvvisa. Solo Javier, che mi fissa senza comprendere, e come potrebbe? Forse per lui è pure normale, secondo quanto detto da Ethan... Ethan che mi fissa e sembra capire. Nel suo sguardo non leggo, adesso, che la pena per la mia angoscia e vorrei scappare dalla deformazione del suo viso. Scoppiare in un pianto liberatorio ma è proprio in questo momento che Lexie torna fino a me correndo e mi riprende tra le braccia.
«Sneg, che succede?»
«Io quelle scarpe non le indosso» espiro, completamente priva di fiato ed in tachicardia. Non ho mai sofferto di crisi di panico ma stanno capitando troppo di frequente per essere anormali.
Lexie lancia uno sguardo al capo che indosso e annuisce, cercando di trasmettermi una sicurezza che nemmeno sembra possedere. Quello che sembra fare è maledire la coincidenza del destino per la quale un simile paio di calzature doveva capitare proprio a me, ma ormai non mi meraviglio di niente.
«Non le indosso.»
«Va tutto bene, Katrina, non devi farlo. Rilassati, adesso, va tutto bene. Cambiati ed occupati della catalogazione dei prodotti. Potremo scattare delle tue foto una volta da sole, al termine del turno di lavoro, che cosa ne dici?»
Mi fisso intorno, per verificare che le ragazze dall'altro lato del camerino non si siano accorte di niente. Non sembrano averlo fatto. Si confrontano, con naturalezza, tra di loro, mentre sono intente a vestirsi ed a truccarsi grazie ai consigli della makeup artist.
«Katrina...» mi richiama la mia amica, ed io sperduta arrivo fino a lei, decidendo di annuire.
«D'accordo, ma senza quelle scarpe.»
«Senza quelle, promesso» dice e con ciò mi permette di andarmene. Cammino scalza fino ai camerini, recuperando i miei vestiti. Poi mi dirigo a testa bassa, fino al mio ufficio, chiudendomi all'interno per poter allontanare tutti da me.
Forse, anche quella parte inaccettata di me stessa.
Non proviene alcun suono da questo luogo di lavoro, segno che in molti sono già tornati a casa, se non, addirittura, tutti.
Si è rivelata una giornata intensa, produttiva se si evita di nominare il dramma nato sul set fotografico e che ora sono costretta a rivivere.
Sono anche già tornata con l'abito da sfoggiare. Accomodata, pronta, sulla sedia. Le gambe al petto, strette dalle braccia, i piedi nudi a fissare quel paio di scarpe che sono state riposte su questo telo bianco, in attesa di un mio utilizzo, e che mi fissano pazienti.
Studio, da lontano, il loro colore senza riuscire ad alzarmi e prenderle. Senza provare a farle calzare, nuovamente, ai miei piedi. Temo di non farcela, nonostante le luci spente intorno ed il silenzio mi sappiano trasmettere la giusta calma e intimità.
Dei passi, dal buio, mi stanno raggiungendo. Sollevo la testa e nonostante il faro di luce puntato contro riesco a vedere Ethan emergere da questa oscurità.
Giunge fino a me e poi si china a terra, sostenendo il peso del corpo sui talloni mentre appoggia le mani sulla sedia, negli spazi vuoti al mio fianco destinati alle gambe.
Lo osservo di rimando, non muovendomi di un solo centimetro e cercando le sicurezza nel suo sguardo.
«Dove è Lexie?»
«L'ho mandata via. Siamo soli.»
«E Javier?»
«Ho lasciato che se ne andasse anche lui.»
«E le foto?»
«Le vuoi fare sul serio?»
Rimango in silenzio, tornando a fissare le scarpe. Potrei fingere, indossando, che non esistano. Potrei illudermi che siano di un altro colore, mentre le porto ai piedi. Andrebbe bene lo stesso, per dei semplici scatti...
«Katrina, guardami.»
Lo faccio e una parte di me, completamente libera dalle responsabilità, vorrebbe gettarsi al suo collo come una bambina e pregarlo di non farmelo fare.
«Si tratta di semplici fotografie, ce la faccio.»
«Non devi, se non vuoi. Non devi con le scarpe.»
«Sono parte della linea.»
«No. La marca è solo degli abiti, puoi non metterle.»
«Non posso non metterle! Si tratta di una pubblicità, mi sono occupata anche da sola di sistemare il trucco!»
Ethan rimane in silenzio per un lungo istante e poi sembra autoconvincersi di un fatto. «D'accordo, ho un'idea» mi comunica e le sue mani afferrano le mie, permettendomi di sollevarmi in piedi.
«Che cosa vuoi fare?» Domando, ed il cuore velocizza di paura, temendo la sfida alla quale può sottopormi.
«Sai ballare?» Mi chiede, ed io lo fisso senza capire. La bocca mi si apre leggermente mentre lo vedo spostare la sedia e l'arredo scenico che era stato previsto, distruggendo l'intera immagine di un mondo e di uno sfondo che era stato pre impostato.
«Non credo che tu lo possa fare...»
«E chi me lo vieta?»
Sorrido, perché in effetti nessuno può impedirglielo. Siamo soli ed io sono troppo curiosa di rendermi parte della sua idea.
«Allora? Vuoi rispondermi? Sai ballare?»
«Non molto...»
«Allora, forza, prendi le mie mani.»
Su questo telo bianco non è rimasto nient'altro che noi due e le scarpe ma sono troppo lontane rispetto a dove ci troviamo. La luce è proiettata contro di noi e ci rende gli unici protagonisti in quest'edificio buio e vuoto.
Di fronte a me, Ethan in dei pantaloni neri e in una pullover grigio avvitato, mi porge le mani ed io, con un finto timore stemperato dal mio sorriso, gliele afferro.
Non intendeva ballare come avevamo fatto in quel locale, insieme, in maniera lenta. Intendeva farlo sul serio, ed è per questo che azzarda alcuni passi di danza da sala.
Sgrano gli occhi, senza riuscire a concepire cosa vuol fare e non credendo alla sua maestria. Riesco a malapena a distinguere le categorie dei balli. Swing, tip tap, zumba, salsa... pura follia. Tiene il tempo facendo schioccare le dita della mano destra, sospesa tra noi, mentre le gambe e il corpo vanno per proprio conto.
Scoppio a ridere e tento di sostenermi a lui, prima che con una virata improvvisa, come quella fatta poco fa, torni a farmi girare di colpo, destabilizzandomi.
«Ethan, ma si può sapere che fai?»
«Avanti, lasciati andare» mi dice, sorridente. «Appoggiati a me.»
Lo faccio, e mi lascio condurre in questo ballo privo di senso che mescola troppe regole di troppi stili discinti.
Ogni tanto, poi, Ethan alza gli occhi al cielo come se stesse seriamente riflettendo sulla mossa successiva da compiere. Il mio cinismo tenta, in un primo momento, di vivere in un distacco perfetto con quello che sta facendo ma vince il mio desiderio di mettermi completamente in gioco e così... divento sua complice, vittima di questi cambi improvvisi e di virate causali.
Il telo bianco, che si estende anche su di un supporto verticale, sotto i nostri piedi si increspa come le pieghe di un lenzuolo dentro il letto, intrappolando i nostri passi di danza prima che ci blocchiamo del tutto.
Sono priva di fiato, divertita per questo suo strano comportamento, quando torno a rivolgermi a lui.
«A cosa è servito tutto questo?»
«Sai replicare qualcosa dei passi che ti ho professionalmente insegnato?»
«Sei pazzo? No.»
«Allora basterà che ti lasci andare» commenta, arretrando da me per poter tornare in quel cono d'ombra che circonda tutta la stanza.
Lo vedo passare dietro il puntatore di luce sopra le nostre teste e poi tornarmi di fronte.
«E a quale scopo, vuoi spiegarmelo?»
Nonostante l'oscurità alla quale è tornato, lo vedo sorridere leggermente, appena, e poi chinarsi lento verso una borsa a terra.
Il mio sorriso si arresta ed adesso... la concentrazione è tutta rivolta verso di lui che sta afferrando, da una borsa leggermente usurata da tempo, un'elegante macchina fotografica.
Una volta presa, restiamo entrambi immobili a fissarci da lati opposti. Lui nelle tenebre, io nella luce e quello che stiamo per compiere è una mossa troppo azzardata. Un passo troppo folle che sembra essere diretto nel vuoto.
«Ethan...» gemo, con la voce strozzata e senza essere in grado di dire nient'altro. Gli vedo avvitare l'obbiettivo, senza perdere il contatto con i miei occhi.
«Andrà bene... sono sicuro che andrà bene.»
Vorrei sapere da dove la prende tutta questa certezza, per scoprire se può contagiare anche me. Io non sono certa di niente, solo di lui, mi rendo conto a un tratto. Ripongo in lui una fiducia senza eguali ed è per questo che non farei niente di simile con nessuno. A nessuno dei miei amici permetterei di vedere questa parte fragile di me ma a Ethan sì perché, senza remore, lui mi sta porgendo tra le mani la sua, supplicandomi di averne cura.
Fissa la macchina al cavalletto ed imposta l'obbiettivo. Veder scomparire il suo volto dietro la telecamera, lasciando fuori solo i biondi ricci mentre il suo corpo è in tensione mi ricorda la visione del suo corpo di spalle, su quella veggente spiaggia.
È identico ad allora, concentrato allo stesso modo... ma di diverso c'è l'esitazione con la quale il suo dito si sofferma sul pulsante di scatto.
Emette un profondo respiro e compare di nuovo da dietro l'apparecchio, spostandosi leggermente di un passo per fissarmi negli occhi.
«Scatterò delle foto, che poi valuteremo insieme. Quello che devi fare, semplicemente, è ballare. Sentirti a tuo agio con lo spazio intorno e con l'abito, il resto spetterà a me.»
«Ethan, se non te la senti...»
«Voglio farlo» mi dice e la mia voce si arresta. Sul suo volto nasce un sorriso. «Voglio scattarti di nuovo delle foto, Katrina.»
Vorrei non avesse detto una frase tanto personale che mi ha rilegato, di nuovo, in un piacevole imbarazzo eppure, allo stesso tempo, la sua voce continua a rimbombarmi dentro e mi da forza.
«Avanti, Katrina. Balla, senza alcun tipo di regola.»
Sorrido divertita e quando lo vedo tornare dietro l'obbiettivo provo a farlo.
Con stupore arrivo ad accorgermi di quanto i movimenti possano essere fluidi e l'aria, attorno, straordinariamente leggera. Io sono leggera, mentre rido delle espressioni che intravedo sul suo viso e per quelle che mi mostra. Rido per i passi che mi ha insegnato ad eseguire ed all'improvviso è tutto più facile.
Diventa meno complesso percepire l'importanza della danza quando la concepisci senza leggi. Comprendere l'impatto emotivo che comporta lo sfoggiare un sorriso e ridere, lasciando alle spalle i problemi.
Guidata dalla sua voce ogni cosa è possibile e presto una serie di flash arriva a immortalare la mia scoperta, rubandomi istanti danzanti.
Il tempo trascorre, indefinito, ed io sto ancora danzando ma devo fermarmi, perché priva di fiato.
Vedendo la mia resa, Ethan solleva la testa e mi sorride, appoggiandosi con un braccio alla fotocamera.
Quello che abbiamo realizzato è stato qualcosa di importante per entrambi e la scritta "progresso" lampeggia luminosa in ogni angolo del mio cervello.
«Vuoi vedere i risultati?» Domanda la sua voce bassa, ma con una piega carezzevole di dolcezza, divertita dalla mia allegria.
«Sì» certo che voglio farlo e non esito un attimo ad arrivare fino a lui. Riesco a bearmi dell'anteprima della foto non appena digita uno dei tasti e rimango senza parole.
Ethan non ha solo catturato la mia essenza, come tento di fare io per ogni protagonista di un mio nuovo dipinto... ha catturato anche il concetto di libertà, in fasi diverse del mio abbandono ballerino, a piedi nudi, immortalando con una leggerezza indescrivibile attimi in cui il corpo sembra essersi arreso a se stesso. Quello che ha fotografato è sinonimo di delicatezza e sensibilità ed io da sola con un pennello non sarei stata capace di figurarlo.
Noto, però, al margine di ogni foto, la presenza delle scarpe rosse. Lo fisso senza capire, avanzando i miei dubbi mentre rimane in piedi al mio fianco.
«Mi avevi detto che non erano parte della collezione...»
«E infatti non lo sono. Sono quello che sono: un simbolo» mi dice e poi mi indica il protagonista del nostro discorso, direttamente sullo schermo dell'apparecchio. «Solo in una chiave di lettura differente.»
Ed a un tratto capisco cosa si è spinto a fare. Le scarpe rosse sono rimaste sinonimo della violenza sulle donne, in questa foto, ma non dell'oppressione: il mio ballo mette in mostra la nostra libertà, la leggerezza, il controllo su noi stesse. Quelle scarpe sono diventate il simbolo femminile di forza ed è così che ci vede Ethan, così che vuole che anche io creda di essere.
Una donna forte, in un bellissimo vestito candido quanto sensuale, che balla libera ed indipendente, a nome di tutte noi, senza lasciarsi sconfiggere.
Mi auguro di reggere il confronto con le sue aspettative, perché queste fotografie piene di utopia e speranza sono bellissime, ma per il momento mi concedo di vivere unicamente in questo sogno. Lascio che una lacrima mi scorra lungo il viso e incito Ethan, tirandogli una mano, ad abbracciarmi da dietro.
Sorridendo mi accontenta e l'attimo dopo, petto contro schiena e cuore allo stesso ritmo, siamo un intreccio di braccia e mani, immobili insieme a fissare il nuovo ritratto che è stato creato, dedicandogli lo stesso tempo che servirebbe ad un dipinto all'interno di una mostra per poter cogliere a pieno il messaggio che ospita.
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