65- Per evitare di perderti
P.O.V.
Ethan
L'acqua fresca mi sferza il viso, generata dallo schiaffo d'onda delle mie mani, e tenta di salvarmi dal profondo abisso nel quale sono caduto, precipitando.
Perché il ricordo di Naijya fa ancora tanto male da privarmi del respiro, trafiggendomi come un nemico ad ogni angolo di strada. Eppure quello che più uccide è il pensiero di dover tornare alla vita di tutti i giorni, dimenticando ogni dramma che ti affligge pur di sopravvivere.
Non vorrei mai farlo, per non rendermi cosciente della privazione di quell'arto amputato eppure mi rendo conto che una parte di me già era a conoscenza della sua morte da tempo e non aveva mai voluto accettarla.
La donna della quale mi ero innamorato nonostante tutte le differenze psicologiche e culturali... mi aveva lasciato.
Trattengo il fiato.
Sono venuto in questa città, mio malgrado, per un motivo. Non volevo più affrontare il mio dolore da solo. Volevo andare avanti, con il supporto dei miei amici e di un lavoro. Lo voglio ancora. Desidero interiorizzare ed andare avanti. Convivere con quell'arto venuto a strapparsi, ma mai avrei pensato che sarebbe stato così difficile.
Per questo prendo un profondo respiro di fronte alle porte scorrevoli, non appena arrivo alla società.
So cosa mi aspetterà entrando, eppure una domanda primeggia, come una speranza, sulle altre.
Oltre i miei amici... ci sarà anche lei ad aspettarmi?
Non dovrei pensarlo. Supero l'ingresso e mi dirigo verso il mio ufficio, ma mio malgrado mi accorgo di starla cercando. Gli occhi percorrono gli spazi dove l'ho vista di solito e ne escono vuoti, ricolmi solo della sua assenza.
Katrina non c'è, ma Lexie è di fronte a me e mi fissa con stupore.
«Ethan... sei venuto.»
«Che cosa mi sono perso, Lexie?»
Mi mette in pari sulle novità, ricordandomi della mia mancata completezza degli ultimi preparativi della mostra che io e Katrina avremo dovuto redigere insieme, ed inevitabilmente il mio sguardo si dirigere verso la sua postazione vuota, unendola ad un senso di smarrimento.
«Arriverà. Ha lasciato qualche appunto sulla sua scrivania, però, se vuoi vederlo.»
Non so se sia il caso, e mi trattengo dall'avanzare mentre Lexie mi fissa, quasi ad offrirmi il giusto supporto.
«Eth, si tratta di lavoro.»
Passo i polpastrelli sulla fronte, indeciso su cosa fare e poi annuisco leggermente, convincendomi.
Mi lascia libera la strada ed è così che, senza alcuna attenzione dei presenti adesso, riesco a raggiungere lo studio di Katrina e chiudermi la porta alle spalle. Rimango per alcuni minuti immobile, indeciso se andare fino in fondo.
Dalle tapparelle sollevate contro il vetro, dal quale spiavo un suo possibile ingresso, noto la sala principale della società quasi del tutto sgombra. Segno che Reiner stia per ordinarci tutti in riga di fronte alla ghigliottina delle scadenze.
Io, però, ho altri programmi più importanti di cui occuparmi, come la direzione della mostra, così come molti altri.
E tuo figlio, Naijya, è uno di questi.
Avanzo nella stanza fissandomi intorno, e nella pace di questo luogo vuoto mi rendo conto di poter analizzare tutto con più calma. Non avevo mai fatto caso alle piccole piantine posate su uno dei mobili alle pareti ma a quanto pare Katrina se ne prende un'instancabile cura. Ci sono alcuni prodotti per loro, nascosti in un angolo poco in vista, e sul calendario è segnalato anche il giorno per la loro cura, insieme ad una sfilza instancabile di appuntamenti.
Immaginarla china su quelle docili piante, che ne accarezza le foglie mentre dona acqua al terriccio, non è affatto difficile da fare. Come vederla in piedi dietro la scrivania con un telefono all'orecchio, come già le ho visto fare, a passeggiare su e giù lungo il lato più corto della stanza, ma cosa c'è su questo tavolo? Una luce moderna che rievoca, in un minimalismo perfetto, forme antiche del vintage. Un portapenne, una bottiglia d'acqua, un orologio, una calcolatrice ed un profumatore d'ambiente. Caratterizzato da una specie di liquido arancio, quest'ultimo, si diffonde nell'aria tramite lunghi bastoncini di legno.
Dopo di che, un tappetino rettangolare per posarvi il computer, fogli stampati con riportate caselle di appuntamenti ed orari ed un blocnotes.
Lexie ritiene che tutte le considerazioni di Katrina sulla mostra siano scritte là dentro, per quanto non escluderebbe un approfondimento alla sua agenda. Si tratta di una cosa troppo personale, però, e non voglio spulciare dentro il regalo di mio zio che, nonostante le varie proteste, Katrina continua a portarsi gelosamente dietro. Nella sola eccezione di questa giornata.
Mi accontenterò dei segreti di questi appunti, così da capire come procedere.
Rimanendo in piedi di fronte alla scrivania, lascio scivolare verso di me il blocco di appunti ed inizio a scorrerne le pagine.
La sua grafia è leggermente difficile da tradurre ma i pensieri sono chiari, come la scaletta mentale che si è costruita per presentare le varie opere della mostra.
Capto poche delle informazioni perché mi accorgo come, inevitabilmente, lo sguardo continui a direzionarsi verso l'agenda.
Sospiro e cedo nell'afferrarla, ripetendo a me stesso che una veloce occhiata non può certo far male.
Scorrere rapidamente le pagine solo per vedere se la dedica di mio zio è ancora là dentro o se è stata strappata via.
Dunque, mi approccio a questa mossa azzardata, piegando i fogli in modo tale che possano correre veloci sotto le mie dita, ed il secondo dopo osservo le date slittare rapide di foglio in foglio. Alcuni capitoli bianchi li interrompono in piccoli salti ma poi i numeri tornano a correre, in una specie di conto alla rovescia.
A un tratto, però, noto qualcosa di diverso e senza volerlo torno indietro. Ripercorro i giorni che mi separano da quell'imprevisto e poi lo trovo.
Quello che vedo mi immobilizza per un lungo attimo. C'è un mio ritratto, fatto a penna, su quelle pagine.
I miei polpastrelli forzano l'apertura dell'agenda e trascorre del tempo prima che i miei occhi riescano a cogliere i particolari di quel disegno, e non sono pochi. Katrina mi ha ritratto quasi di profilo, senza esclusione di colpi e cogliendo, nonostante la piccolezza della pagina, ogni dettaglio del mio viso.
Di colpo capisco. È venuta a casa mia, il giorno della morte di Naijya, forse per dirmi di avercela fatta. Era davvero questo che avrebbe voluto raccontarmi? Sarebbe venuta mai da me per dirmi di avermi ritratto? E in questo modo. In questo modo... che mi lascia senza fiato. Non è solo brava, è... qualcosa di più. Davvero mi vede così?
«Sei venuto a rubare qualcos'altro di tuo gusto?»
La sua voce mi raggiunge alle spalle, ed io rimango immobile, nascondendole il mio nuovo tesoro. Potrei voltarmi e prendermi gioco di lei con questa nuova scoperta, chiederle spiegazioni... ma preferisco che rimanga un mistero per entrambi. Nessuno dei due conosce il motivo per il quale è stato disegnato, per quanto si trovi in quell'agenda ed è un dato di fatto.
Chiudo lentamente le pagine con un mezzo sorriso e poi mi volto, nella speranza di non lasciar intravedere la mia soddisfazione.
Mi aspettavo di fare i conti con la sua ostilità. Sì, insomma, la posa da braccia incrociate e sguardo di fuoco, visto il tono che ha utilizzato. Riavere indietro la calma e la fraternità di quel pomeriggio, durante il quale era rimasta all'ascolto del mio lutto, era quasi impossibile da credere... ma mai mi sarei aspettato questo.
Katrina ha la faccia scavata e sembra più magra dall'ultima volta che l'ho vista. Inoltre, i suoi occhi sono stanchi e non c'è più alcuna fiamma combattiva che li alimenta.
Nonostante la cura che ha riservato a capelli e abiti, Katrina mostra tutt'altro... e sembra cadere a pezzi.
Il sorriso mi muore sulle labbra. Non ho più voglia di scherzare.
«Non hai risposto alla mia domanda» prosegue, avanzando dalla porta della stanza con i manici della borsa in una mano, lasciando quasi quella sacca grigia strusciare per terra e, allo stesso tempo, avanzando debolmente nei passi.
Arrivare fino alla scrivania pare un'impresa titanica.
«Che cosa ci fai nel mio ufficio, Ethan?»
Avendola seguita con gli occhi rimango parallelo al suo corpo, ed ora a dividerci c'è solo la scrivania.
«Speravo di poter parlare con te in merito alla mostra dell'eco ambiente.»
«D'accordo. Possiamo fare più tardi? Ho altro lavoro da sbrigare prima, e devo essere in ufficio da Reiner tra mezz'ora.»
«D'accordo» mormoro di rimando, sperando che aggiunga altro. Non lo fa, per cui sono costretto a uscire.
Torno alla mia postazione e recupero le foto analogie restanti da analizzare, osservando solo per un attimo oltre il vetro del suo ufficio e vedendola levarsi il cappotto, accomodarsi alla scrivania ed
iniziare a lavorare.
Finisco presto con la catalogazione dei materiali fotografici e non avendo altri compiti decido di essere d'aiuto a Lexie. Gli altri dipendenti hanno bisogno di particolare supporto e riescono a comunicarmelo. Sono contento che il muro dell'imbarazzo tra noi sia caduto del tutto: permette una più semplice convivenza ed equilibra i bisogni di questa società. Non ho ancora mansioni particolari, per il momento, e la scelta è stata di Reiner. Non voleva mettermi addosso troppe responsabilità, ma credo di essere pronto per tornare a farlo ed equilibrare il mio tempo con i dipendenti pare un'ottima gavetta per ritornare in sella.
Almeno tra noi c'è uno scambio.
Ho saputo che Katrina si occupa del cinquanta per cento del carico lavorativo di questa azienda e che non lo condivide con nessuno. Mi chiedo come possa resistere tanto ma ecco spiegato il motivo per il quale la trovo sempre di corsa.
Se la sua vita potesse essere riportata in un'opera d'arte, credo che per prima cosa ne enfatizzerei il movimento. Azzarderei una figura scomposta, che la rappresentasse senza farla vedere del tutto a causa della velocità, ed al tempo stesso dovrei trovare un equilibrio per ricreare la sua figura perché, quanto è vero iddio, non passa inosservata.
Tra i corridoi c'è uno strano silenzio quando Katrina li affronta, quasi alla pari della marcia di una professoressa crudele di fronte all'area fumatori di giovani studenti.
Ritengo sia dovuto alla sua ambizione.
Katrina è una tipa decisa e lo lascia chiaramente a intendere, almeno quanto riguarda l'aspetto lavorativo, e può arrivare in alto, più di tutto noi, più di quanto una persona possa augurarsi mai di fare.
Questo provoca l'invidia di molti, ma che cosa dire riguardo a lei? A che cosa la condanna tutto questo stress a cui si sottopone?
Nel timore di una risposta a questo quesito, non allontano gli occhi da lei mentre sono intento a svolgere le mie mansioni, domandandomi con quale frase tornare all'approccio di una comunicazione, tra noi due.
Non ho scuse da utilizzare eppure, più semplicemente, potrei ancora vestire gli abiti dell'amico ed affermare di essere preoccupato per lei. Katrina lo ha fatto, decidendo di accomodarsi alla sedia della mia cucina per ascoltare il dolore che mi usciva dalle labbra. Non c'è niente di diverso adesso. Il meccanismo, a controllo del nostro corpo, si sottomette ancora alla legge dell'autodistruzione. Lo vedo chiaramente, ne riconosco i tratti.
Soffro della stessa disfunzione mentale, purtroppo, e credo che sia inguaribile. Almeno che non ci sia una persona che ci sostenga.
Sto attraversando ancora una volta il salone principale, con una scatola di cartone tra le braccia, quando accade tutto in un attimo. Con la coda dell'occhio la vedo in piedi, con le spalle alla stampante. La mano le corre alla fronte e il corpo si inclina.
In una frazione di secondo abbandono la scatola a terra e corro verso di lei, e non appena la raggiungo Katrina sviene tra le mie braccia. Un brusio di sottofondo accresce di tono alla vista di noi.
Ho entrambe le ginocchia a terra, il suo corpo addosso salvato dal pavimento per una frazione di secondo e le braccia strette attorno a lei.
La allontano quanto basta per vedere i suoi occhi chiusi e toccarle il viso.
La pelle è particolarmente fredda.
Lexie si fa largo tra la folla di curiosi che ci ha raggiunto e si china a fianco a me, veloce, prima ancora che possa fare qualsiasi altra cosa.
«Hai visto cosa è successo?»
«È svenuta davanti ai miei occhi, dobbiamo portarla in ospedale.»
«Okay, ti aiuto a caricarla in macchina.»
«Ce la faccio, tu prendi le chiavi, non conosco la strada.»
Mi sollevo senza alcuno sforzo, continuando a stringere Katrina a me e storco le labbra al pensiero della sua leggerezza. È troppo magra.
Lexie nel frattempo affonda le mani nella tasca destra del mio cappotto e lo porta con sé, lasciando in una mano ondeggiare le chiavi finché non saliamo sulla vettura.
Riesco ad accomodarmi ai sedili posteriori continuando a mantenerla tra le braccia. Non so cosa abbia, e non me la sento di lasciarla così.
La bionda, invece, assume il proprio ruolo al volante e parte spedita, bruciando le tappe in direzione dell'ospedale. Alterno lo sguardo dalla strada al volto di Katrina, mai stato così vicino.
Al di sotto dello strato di trucco riesco a notare le lentiggini del suo viso che le colorano il naso e le guance, troppo bianche e fredde per dimostrare un benessere. Proprio come il mio riflesso allo specchio ogni mattina.
Le accarezzo con il pollice della mano che le sorregge la testa per tutto il tragitto della nostra corsa. Poi un uomo con addosso un camicie mi chiede di lasciarla stesa su una barella, e la porta via con sé dentro il pronto soccorso.
«Sono certa che non sia niente di grave. Non guardarla così, Ethan, starà bene. Katrina starà bene.»
Lexie ha entrambe le mani posate sul mio torace e cerca di catturare il mio sguardo mentre io nemmeno la vedo. Sono concentrato solo sul dottore che si sta occupando di lei e dei suoi parametri.
Capisco che è una reazione esagerata per me, per me che sono solo un amico ma non posso evitare di provarla. Avrei dovuto rendermi conto del suo stato di salute, essere più presente alla società.
Io... io non voglio perderla, non voglio perdere anche lei.
«Adesso vado dentro e parlo con il dottore, d'accordo? Tu aspettami qui.»
Annuisco poco prima di vedere Lexie allontanarsi e raggiungere Katrina alla sua postazione, e un improvviso freddo mi pervade. Che appartenga al vento dell'oriente o dell'occidente, o al mio animo, non ha più importanza se è in grado di trasmettermi simili brividi che mi lasciano tremante, da solo con l'angoscia e la speranza.
P.O.V.
Caitlin
Non riesco a capire il luogo dove mi trovo. La mia guancia è posata su un tessuto particolarmente morbido. Credo di aver avuto un altro cuscino, prima di questo momento, sotto la testa, e anche un altro odore che riempiva la stanza. L'appartenenza non riesco davvero a categorizzarla, ma c'era come un retrosapore di disinfettante nell'aria ed un chiarore generale visibile anche a palpebre socchiuse.
Ora, però, è tutto diverso. Riesco a malapena a intravedere il verde di un tessuto, e nelle narici sento una fragranza che non mi è estranea, un mix di arancia e cannella. Provo, con tutte le mie forze, ad aprire gli occhi e capisco di colpo quanto sia infattibile. Scorgo un volto nel mio tentativo. Attorno a lui vi sono dei capelli biondi e pieni di riccioli, degli occhi chiari. Una mano, adesso, mi sta sfiorando ma io quasi non l'avverto.
Mi gira forte la testa e provo un dolore all'altezza della cervicale. Inoltre anche un peso è presente proprio all'altezza del petto, mi ostacola la fuoriuscita del respiro.
«Calma, Katrina, non alzarti. Non ti sei ancora rimessa in forze» mi dice quella voce dolce, dai toni gentili.
Tento di spiare nuovamente il volto di quell'angelo, sperando che non si accorga di tutta la difficoltà che comporta.
«Dove sono?» Domando, avvertendo le labbra secche.
«A casa di Lexie, ti abbiamo riportato dall'ospedale.»
Lexie. Ero a lavoro e sono svenuta. Quindi...
Apro con più forza gli occhi e adesso riesco a vederci. Sono stesa su un divano di tessuto verde scuro, nel salotto di Lexie ed Ethan... è inginocchiato a fianco a me. Il cuore batte veloce in uno scompenso mentre vedo il modo in cui mi guarda. Devo essere in uno stato pietoso e lui... lui è così perfetto.
«Come ti senti?» Mormora piano, e non devo pensarci molto per rispondere.
«Spaesata. Piena di dolori. Che mi è successo?»
«Lexie ha parlato con il dottore e ha detto che si è trattato di un semplice squilibro di zuccheri, accompagnato a una dose massiccia di stress. Ti sei dimenticata più volte di mangiare e hai lavorato troppo.»
Oddio. Ospedale. Dottori. Lexie.
Mi tiro su a sedere dando il via a una scarica di fitte di dolore in ogni parte del corpo. Ethan mi guarda con un tono accusatorio ma presa dal terrore non posso farci niente.
Lexie, Reiner, non sanno nulla dell'hiv. Non gliel'ho mai rivelato. Se fosse venuta a saperlo adesso e quello che ha detto a Ethan fosse solo una bugia?
«Non vuoi proprio stare a sentire tu, eh?»
«Mi hai portata tu all'ospedale?» Gli domando, e lo vedo annuire.
«Ti ho vista svenire e ti ho presa per tempo.»
«I soliti ottimi riflessi» affermo in un mezzo sorriso, ma non sembra capire. Il riferimento è alla scheggia di vetro che mi ha risparmiato nella casa blu a nome di Frida Khalo, con la quale mi stavo per puntellare la mano. È stata la prima volta che ho avuto testimonianza della sua prontezza, ma di certo non l'unica. Lui, però, non ha ancora notato la cura che ho di quel piccolo particolare che di lui racconta così tanto.
«Credo che sia meglio se ti porto qualcosa da mangiare. Non muoverti di qui, arrivo subito.» E detto ciò, assicuratosi che seguissi il suo consiglio, si allontana in direzione della cucina, scomparendo alla mia vista. Rimango da sola quanto basta per sollevarmi leggermente dal divano quando poi la figura di Lexie si fa strada nel soggiorno.
Non arriva fino a me, semplicemente se ne resta sulla porta a braccia incrociate. Interpreto il suo sguardo molto bene e capisco che abbiamo bisogno di parlare.
Ethan torna con una spremuta d'arancia in un bicchiere, un pezzo di cioccolata e un panino con salame e formaggio. Osservo il tutto sollevando un sopracciglio ma non accetta repliche, così sono costretta ad eseguire quel suo ordine. Mangio in completo silenzio mentre Ethan risponde, tramite il telefono, a Reiner che lo ha chiamato per sapere come sto, il tutto mentre Lexie continua a fissarmi. La conversazione tra i due si chiude con una saluto accennato, Ethan deve tornare in sede. Reiner ha bisogno del suo aiuto di traduttore a causa di alcuni ospiti internazionali, e così si scopre l'utilità anche del suo multiculturalismo.
Non se ne va via, però, senza un'ultima raccomandazione.
«Chiami se ti serve qualcosa, d'accordo?»
«D'accordo» mormoro, cedendo a questa specie di rimprovero velato dall'altruismo.
Ethan esce dalla stanza lasciando una leggera carezza sul braccio di Lexie che gli sorride e gli assicura che staremo bene, poi esce del tutto. Non rimaniamo che noi due, adesso.
Un tavolino da fumo con sopra la mia spremuta a dividerci e un sacco di parole non dette.
«Hai l'hiv. Lo sapevi questo, vero?»
Vorrei fare una battuta sulla sua mancanza di tatto, nel caso non lo avessi saputo prima, ma non riesco nemmeno a ridere. Lascio che le paure escano del tutto fuori, con il loro tremore.
«Non è niente che lo riguarda, questo svenimento, vero?»
«No. Si è trattato di un calo di zuccheri e della tua testardaggine. Ti deciderai mai ad aprirti con noi? Con me? Credevo di essere la tua migliore amica, Sneg, ma scopro che nemmeno ti conosco.»
«Lo so» mormoro, mordendomi un labbro per evitare di piangere. Lexie mi fissa dalla sua lontananza e non mi dice niente, ma osserva il lento declino che sta avvenendo di fronte ai suoi occhi e rimane all'ascolto affinché io possa, con coraggio, dire ad alta voce ciò di cui ho bisogno. «P-posso... posso restare da te, per un po'?»
Non ho la forza di dire altro. Lexie rimane in silenzio per un lungo tempo, prima di aprirmi finalmente il suo cuore.
«Tutto il tempo che vuoi, lo sai.»
Scoppio a piangere, ed il peso contro il petto scivola via.
P.O.V.
Michael
Forse l'ho letto da qualche parte o forse è stata proprio Caitlin a dirmelo, ma so che la finestra temporale durante la quale può manifestarsi il virus dell'hiv è di novanta giorni. I test possono mettere in evidenza l'infezione già nel giro di tre o quattro settimane.
Non saranno un problema. La carica virale di Caitlin al momento è molto bassa. Lo so per certo dalle sue schede mediche, personalmente recapitatemi per posta elettronica, e, per di più, se anche fosse stata possibile una trasmissione, credo che ormai ci sia più di un modo di combattere l'infezione. Cat fa una tragedia per niente, si sente sporca dove non dovrebbe ed avverte l'errore dove non ve ne è.
Quello che abbiamo fatto è stato più di un semplice azzardo. Su quel letto abbiamo forse generato una vita, e se la mette in secondo piano rispetto alla sua carriera vuol dire che è solo un'egoista. Mi domando se abbia già buttato giù quella pillola omicida. È scappata di corsa da casa, la notte del nostro ultimo rapporto, e nemmeno ha preso le chiavi della macchina.
Avrei potuto seguirla tramite il gps che vi è installato. Ora, invece, non so nemmeno dove si trovi. Non rientra da giorni, è arrabbiata con me. In parte, forse, può pure esserlo. Avremo dovuto parlarne meglio. Avremo dovuto fare una gravidanza assistita ma sono certo che, se le avessi chiesto di iniziarla ora, lei non avrebbe mai accettato per non prendersi un periodo di pausa dal lavoro. Risulta così semplice seguire il filo dei suoi pensieri, niente è imprevedibile se non la sua locazione al momento.
Oh, mi avesse lasciato anche solo un minimo indizio.
Potrei semplicemente aspettarla fuori dal posto di lavoro, però, se solo volessi, e seguirla. Non è certo la prima volta che capita ma sarebbe tutto inutile, fuggirebbe ancora.
Le occorre del tempo e sono disposto ad offrirglielo.
Sto camminando per strada mentre penso a questo, e nel corso dei miei mille pensieri una figura femminile mi si scontra addosso. La sorreggo per le braccia, evitandole di cadere sul marciapiede in questo trambusto di gente. Poi, nel rivedere tratti troppo somiglianti del suo viso, la bocca mi si apre leggermente.
Questa ragazza è identica alla giovane bionda che vedo ovunque, camminando per strada. Quella figura eterea che era a Los Angeles, nel mio teatro e di fronte alla casa di Jeremy, eppure è come se non vi fosse simile affatto.
«Faccia attenzione! Lo vede dove mette i piedi?» Mi rimprovera, scostandosi i capelli biondi dal viso ed io sorrido.
«So bene dove sto andando» commento, aspettando la sua risposta stizzita e non tarda a raggiungermi, dopo un istante di silenzio.
«Beh, buon per lei. Ma forse è la strada sbagliata, guardi avanti!»
E detto questo se ne va via, producendo stavolta un rumore continuo per ogni passo che mi lascia alle spalle.
Più si allontana, più che quel volto non le somiglia affatto ma la sua sfrontatezza è la stessa e di quella donna sconosciuta, stranamente familiare, ancora una volta non rimane che un volto e la forza, mescolata alla tristezza. Mi domando se esista davvero, in qualche parte del mondo, o sia un altro dei miei scherzi mentali.
Forse non voglio scoprirlo. Forse voglio continuare a divertirmi con lei mentre aspetto il ritorno di quell'angelo dai capelli rossi che, in un attimo, aveva spazzato l'inferno presente sulla mia strada, offrendomi una dimora eterna che non può essere abbandonata.
P.O.V.
Caitlin
Oltre il bordo della tazza, il vapore del tè fuoriesce in fiamme grigie che ne evidenziano l'ustione. Aspetto che il tempo raffreddi ogni cosa; la bevanda che sto per ingurgitare con più impazienza del dovuto, visto l'imbarazzo, così come tutte le parole che ho scambio con Lexie.
Adesso è a conoscenza di tutto. O almeno, di quasi tutto. Non mi ero mai aperta così tanto con nessuno da anni. L'ultima volta era stata con Evie.
«Come ti sei sentita, una volta uscita di casa?» Mi chiede, e non mi aspettavo certo una domanda tanto personale.
«Confusa. Lui era arrabbiato e sembrava essere... troppo gelido. È ridicolo da dire. Se ci penso, Michael è la persona più passionale che conosca ma in certi momenti... è quasi come se avessi di fronte uno sconosciuto, ha senso per te? Non so come spiegarlo, è come se qualcosa tra noi si fosse scalfito.»
«Non rotto?»
Aggrotto le sopracciglia e all'improvviso il terrore mi assale.
«Ti prego, non dirlo» scongiuro.
«Che cosa non dovrei dire?» Rimango in silenzio. Avrei creduto che anche Lexie fosse una delle molte persone che mi hanno messo in guarda da Michael ma probabilmente mi sbagliavo, e ho rivelato un'altra crepa nella nostra relazione.
Lexie sospira profondamente e si solleva dalla poltrona sulla quale si era accomodata, trascinandosi verso il corridoio delle stanze da notte.
«Non dirò niente, Sneg. Lo sai tu quello che provi per tuo marito.»
«Lexie, aspetta!» Al mio richiamo si ferma, e con incertezza sono costretta ad avanzarle il mio timore.«È vero che sono svenuta alla Land Art?»
«Sì, Ethan ti ha afferrata giusto in tempo. Devi avere più cura di te stessa, Katrina, ed ammettere quando non hai le forze per fare qualcosa. Credo che tu debba appoggiarti di più a noi tre, almeno finché non ti riprenderai appieno. Fisicamente come... mentalmente.»
Abbasso la testa e non dico più niente, lasciando cadere quell'offerta di aiuto in un abisso privo di suono.
Lexie, dunque, non dice altro e mi consente di rimanere sola, improvvisamente colta da uno strano terrore.
Avevo l'agenda con riportati tutti gli appuntamenti della settimana, da qualche parte. Frugo nella borsa, sporgendomi oltre il divano, e ne riemergo a mani vuote. Ricordo solo dopo alcuni istanti di aver visto Ethan di fronte alla scrivania del mio studio, avente su di essa l'agenda agognata.
Afferro il telefono per comporre un messaggio a Lexie, avendo già verificato quanto il suono si disperda nella lontananza tra la sua camera e il soggiorno.
Le, ho dimenticato l'agenda sul tavolo dell'ufficio.
Osservo la linea dell'invio scorrere verde e veloce lungo la barra in alto.
Passano appena pochi secondi prima che la mia amica mi risponda.
Chiedo a Ethan di riportartela, così vi occupate degli ultimi dettagli della mostra.
Blocco il telefono e picchietto lo schermo contro la fronte, maledicendomi piano.
Rimango in ascolto del silenzio nel quale, ormai, regna da ore la casa vuota, rendendomi la sola spettatrice dell'attimo in cui un mazzo di chiavi entra a contatto con la serratura della porta e lascia scattare l'ingranaggio.
Gli occhi sono catturati dalla magia del nuovo visitatore ed ecco che Ethan compare sulla soglia, con la mia agenda stretta in una mano e un pacco di fogli nell'altra.
Mi imbarazzo nel ricordare il ritratto che è presente all'interno di quella mia specie di diario segreto, e arrivo a sperare che non lo abbia visto. Non saprei davvero come giustificarlo, altrimenti, e sarebbe ingiusto. L'ho fatto senza pensarci.
Analizzo la sua espressione, a caccia di un qualsiasi possibile indizio che confermi il mio desiderio di non scoperta, e rimango colpita dalla sua serietà.
Non è mai fuori posto, lui.
Io, invece, accovacciata al di sotto della coperta di lana mi trovo stranamente a disagio, visti gli ultimi eventi che ci avevano visti vicini.
Lo osservo posare tutti gli oggetti sul tavolino da fumo di fronte a noi, notando che per ultima abbandona l'agenda, tornando quindi a fissarmi.
«Ho preso alcune cose dal tuo ufficio, pensando che volessi lavorare.»
«Quelli però non sono miei» commento, puntando con lo sguardo, ed enfatizzandola con il mento in avanti, la seconda colonna di fogli. Me ne offre conferma.
«Eh no, sono miei. Pensavo che potevamo lavorare insieme.»
«Dovremmo farlo?»
Si stringe nelle spalle. «Io non voglio andare in ufficio. Tu non puoi raggiungere l'ufficio senza che Lexie ti ostacoli, e di conseguenza te lo proibisca. Direi che ci conviene restare.»
Non provo a replicare e lo osservo sedersi sulla poltrona opposta rispetto a quella che aveva occupato la mia amica poco fa.
«D'accordo, possiamo provare...» mormoro, spiando e invidiando la sua tranquillità.
Lavorare mi ha sempre privata di molti pensieri ma al momento risulta difficile concentrarsi su qualunque cosa.
Le sue lunghe dita da pianista stanno sfiorando, appena, l'estremità di uno dei fogli che gli appartiene, accartocciandone la punta quasi fosse pronto a cambiare pagina.
Avverto la schiena scivolare lenta lungo i cuscini del divano e permettermi di nascondermi sotto la coperta, l'agenda e i capelli. Funziona a qualcosa? Affatto.
Avverto la pesantezza del suo sguardo ed ho come l'impressione che voglia chiedermi qualcosa.
Giungo fino alla pagina del suo ritratto e sono costretta a chiudere di scatto le pagine.
Il modello che aveva ispirato il mio ritorno all'arte non si è mosso di un centimetro.
«Cosa vuoi chiedermi, Ethan?»
«Che cosa ti fa credere che voglia chiederti qualcosa?»
«Te ne stai fermo lì, a fissarmi...»
«Mi rilassa.»
Strabuzzo gli occhi, colta dalla sorpresa. «E perché mai?»
Si limita a stringersi nelle spalle, e stavolta gli occhi scendono, imprigionandosi per pochi attimi tra le frasi di quello che sembra essere, a tutti gli effetti, la trascrizione di una spiegazione, o una specie di discorso.
«Non saprei, è così e basta.»
«La cosa però non rilassa me» ammetto, attirando nuovamente il suo sguardo addosso. Pare divertito.
«Per quale motivo?»
Per via dei suoi occhi. Sono troppo azzurri e troppo riflessivi per non scorgere qualcosa, mentre mi fissano. Ma non glielo confesso, rimango semplicemente in silenzio ed ogni mia riflessione finisce per essere un'altra delle frasi a metà che rimangono sospese, ormai per abitudine, nell'aria che circonda ogni nostra conversazione.
«Come ti senti adesso?» Esordisce quindi, a caccia della mia voce.
«Molto meglio, grazie.»
«Rimarrai qui?»
«Per il momento, sì.»
Tace nuovamente, restando con la testa rivolta verso di me.
«Non mi chiederai nient'altro?» Domando.
«C'è qualcosa di cui mi vuoi parlare?»
«No, ecco, io... intendevo...» Risulta così difficile provare a spiegare. Prendo un respiro profondo e tento di lasciar uscire fuori tutti i problemi. «Avevo un'amica, a Los Angeles. Si chiamava Marina, era italiana. Ecco... per la verità era stata assunta dalla Land Art ma aveva deciso di non accettare il posto, in modo da lasciarlo a me.»
«Deve averti voluto molto bene.»
«Sono convinta che sia così ma credo... credo che fosse un po' invidiosa. Non so come spiegarlo. Era la tipica ragazza forte che una donna piena di insicurezze come me idolatra ma dopo anni credo che ci fosse qualcosa... in me, che lei avrebbe voluto avere. Forse un aspetto del carattere o forse la calma, non ne ho idea, fatto sta che in alcuni periodi io e lei non parlavamo molto mentre in altri non facevamo altro. Ma per ogni cosa che mi stesse accadendo Marina voleva dire al sua, e convincermi che la sua visione fosse quella giusta. Alle volte confesso che aveva avuto ragione.»
«Era molto attaccata a te.»
«Mi voleva bene, ed io quando l'ho conosciuta avevo bisogno di un simile legame stretto ma ora...»
«...Non credi che fosse del tutto giusto, che in un certo modo ti soffocasse.»
«Come riesci a capirlo?»
«Me lo hai spiegato tu, molto bene. Ma, Katrina... credo che anche l'amicizia abbia dei limiti, deve sempre esserci libertà.»
«Aveva questa abitudine di preoccuparsi sempre per me ma a pensarci adesso... quella sensazione mi soffoca.»
Concepirlo è quasi come una rivelazione. Capire il potere che esercitava, a suo modo, Marina su di me dona alla nostra amicizia un sapore dolce amaro, come un dettaglio in grado di far capire che qualcosa... non tornava proprio. Non so se la causa sia stata l'immaturità di entrambe ma provo fastidio, ormai, al pensiero di tutte le preoccupazioni che ha introdotto nella mia vita.
«Sono una persona terribile.» Mormoro, stizzita. Ethan sorride.
«No, non lo sei.»
«Dopo Marina ho avuto un'amicizia un po' particolare. Si chiamava Eve. All'inizio ci odiavamo. Anche lei ha provato a convincermi con le sue idee, ma non provava invidia. Non ha mai lottato fino alla fine per dimostrare di avere ragione, mi lasciava da sola di fronte alle scelte più importanti. Poi è arrivato Rainer, con tutta la sua convinzione e il suo fervore nel volermi fare del bene e subito dopo Lexie, la mia amica che calibra le parole e che si arrabbia solo se scopre che le ho nascosto qualcosa.»
«Perché mi stai raccontando questo?»
«Perché alla fine ci sei tu. E non provi mai a dirmi niente.»
Una curva molto più breve, ora, addolcisce la sua bocca pronunciata, quasi con tristezza.
«Mi consideri al pari di Lexie e Reiner?» Rimango in silenzio, ed Ethan, ad occhi bassi, lascia che siano le sue parole a raggiungermi. «Ci sono molte cose che nemmeno tu mi dici. Non è così?»
Le dita della mano destra sostengono ancora le pagine del suo ritratto, dentro l'agenda, e la voce mi trema appena quando domando quel qualcosa che non mi sarei dovuta spingere a chiedere.
«Che cosa vuoi sapere?»
«Che ti è capitato?»
«Un semplice calo di zuccheri, me lo hai detto tu stesso.»
«Il dottore ha detto che probabilmente non mangiavi da giorni. Ti ho sollevata, pesi meno di una piuma. Perché non ti stai prendendo cura di te?»
La mia mente si allontana dal presente, come fosse un terzo personaggio della scena e rivive, masochista, il momento dell'ultimo contatto che ho avuto con mio marito.
Sento, di nuovo, la sua mano che risale la mia gamba nuda, forzandomi la pelle, lasciandomi i suoi segnali.
Tento di sorridere, mentre l'attimo dopo mi rivedo di fronte alla farmacia ed a quella maledetta pastiglia. Poi di fronte a un albergo ad ore nel quale ho passato tre notti, pur di non rientrare a casa. I pasti erano compresi nell'alloggio ma non avevo mai ordinato niente, rimanendo per un tempo infinito sul materasso della stanza con le ginocchia sollevate e le braccia a stringerle. Rivedevo ogni cosa in quei momenti. Sentivo, nuovamente, tutto.
Mangiare, prendermi cura di me sono state le ultime abitudini da considerare.
«Credo che il lavoro mi abbia preso troppo, non ricordo di aver saltato tutti questi pasti» mento, lasciandogli un piccolo sorriso che rimane a fissare.
«Allora questa, di lavorare, è stata una pessima idea...»
Allunga la mano di scatto ed io non so cos'è che mi spinge a compiere l'azione seguente. Forse il terrore che possa riaprire l'agenda proprio sulla pagina che il mio dito è rimasto a segnalare o forse perché non sono stata in grado di prevedere il suo gesto. Perché in un attimo è troppo vicino. Perché le sue mani si allungano come rami di spine verso il mio respiro... forse perché avevo per un attimo abbassato la guardia...
Ad ogni modo, il mio corpo non riesce a non reagire e di colpo mi fa saltare all'indietro.
Finisco dall'altra parte del divano con il cuore a mille e l'agenda stretta al seno. Le dita di Ethan sono ancora a mezz'aria ma non sono più loro che vedo. Quello che vedo è il desiderio di contatto di Michael, e ne sono terrorizzata.
Devo combattere contro ogni forma di pensiero che sta generando la mia mente per lasciarle comprendere la verità chiusa in questo soggiorno: siamo io e Ethan, ed ho appena fatto una mossa sbagliata. L'ho respinto, ho reso inutile forse l'unico gesto di conforto che aveva deciso di donarmi.
Siamo sempre così distaccati, noi due. Né amici né rivali. Una specie di reciproco rispetto ci ha sempre tenuto al nostro posto ed è per questo motivo che il distacco appare un fatto quotidiano.
Vedo la sorpresa che la mia ritorsione gli ha provocato e mi aspetto di scorgere anche il risentimento, ma Ethan non si pente di niente. Questo... perché ha intravisto altro.
Afferro una ciocca di capelli e la sistemo dietro l'orecchio in un gesto nervoso. Pessima mossa, sento le guance rosse ancora più esposte.
«Scusami, è stata solo...»
La mia voce si disperde quando noto la mano di Ethan afferrare i documenti vicini a dove ero seduta poco fa. Divengo ancora più rossa.
Dunque non voleva toccarmi. Quanto sono patetica.
«Mi sono ricreduto, per questo ho preso di nuovo i documenti. Non sei pronta per affrontarlo, ora» mi dice, continuando nella sua placida lentezza a mettere apposto tutto ciò che mi appartiene della Land Art.
Vorrei oppormi e chiarire il mio bisogno di quelle pratiche, ma ho ancora il cuore in gola e, in fondo, anche la consapevolezza del mio stato d'animo: non è il momento giusto, è vero.
La mano di Ethan si solleva di nuovo, ma stavolta rimane distante ed ha il palmo aperto, rivolto verso l'alto. Mi sento così piccola mentre me ne sto rifugiata nel mio angolo di divano immaginando che i problemi non possano raggiungermi.
«Vuoi lasciarmi quell'agenda?»
Lo chiede con un tono di voce che risente di uno stanco divertimento, quasi stesse parlando con una bambina che, però, non si sente sminuita.
Invidio la capacità che ha nel mettere a proprio agio le persone, non appena viene abbattuto quello strano imbarazzo che può venirsi a creare una volta di fronte a un ragazzo tanto alto quanto silenzioso, senza alcun mistero o cattiva azione capace di renderlo affascinante. Bastano solo che i suoi occhi non si facciano pesanti come quando mi scrutano, e che l'espressione al loro interno evochi un'età che non gli appartiene, per renderlo tale. Ethan non conosce la rotta dei miei pensieri perché noi non parliamo, ma è questa la verità: il rispetto che nasce da ogni nostro confronto, di natura ironica o crudele che sia, mi dona sempre la possibilità di fidarmi, ed io lo faccio. Ogni singola volta.
Gli tendo l'oggetto richiesto con le mani che leggermente tremano, vedendolo scivolare dalle mie alle sue e avvertendo un lieve capogiro.
«Se non dobbiamo lavorare allora che proponi di fare?»
«Che ne dici di parlare d'altro?»
«Vuoi avanzare delle domande scomode?» Chiedo, con finta allegria.
«Sai, riesco anche a tenermi sul leggero, se non hai voglia di rispondere a domande importanti.»
Sorrido appena. «Cosa ti fa pensare che io non ne abbia voglia?»
«Non metterti nei guai da sola, Katrina, avrei un mondo di interrogativi da sottoporti.»
«Ancora non ci conosciamo abbastanza? Che altro c'è da chiedere?» Domando, sinceramente divertita dalla sua costanza.
«Non conosco ancora bene nemmeno Lexie e Reiner, figuriamoci te» commenta sbuffando e intrecciando le braccia al petto.
«Non sei obbligato a farlo... alla fine sono loro i tuoi vecchi amici.»
Richiamato da una simile frase torna a me, ed i suoi occhi chiari quasi mi trafiggono.
«Ma io mi sento molto più simile a te che a loro.»
Rimango inchiodata dal suo sguardo finché non diviene insostenibile. Abbasso la testa e mi muovo appena, cercando una posizione più comoda.
«Può essere, ma come hai detto anche tu non mi conosci abbastanza.»
«Vuoi confutare la mia tesi?»
«Dico solo che se siete rimasti amici per così tanto tempo deve esserci qualcosa che vi accomuna.»
Sorride. «Non ho detto che non ci sia. Dico solo che ho più cose in comune con te che con loro.»
«Anche tu soffri di svenimenti improvvisi?» Tento di buttarla sul ridere, e mi sorprende l'ampiezza che assume il suo sorriso.
«Avanti, ribatti con qualcosa di più concreto.»
Senza volerlo, sento il piede iniziare a picchiettare contro il tessuto della mia seduta, seguendo il tempo di un lento ritmo. Lo faccio sempre quando sono nervosa, o quando sto pensando.
«D'accordo, parto io. Abbiamo abitato entrambi a Los Angeles, apparteniamo al ramo dell'arte e siamo pupilli di mio zio.» Inizia con il dire, e io sono pronta a contrattaccare.
«Io però non provengo da Los Angeles» commento divertita, credendo di aver già vinto la nostra sfida.
«Nemmeno io.» Resto sorpresa.
«Di dove sei?»
Un breve silenzio accompagna la sua risposta.
«Di Los Angeles.»
Scoppio a ridere, non potendo crederci. «Mi hai appena detto una bugia?»
«Il fatto di non essere nati nello stesso luogo non significa nulla, ma ammetto di aver tentato di barare» commenta, difendendosi troppo bene. «Però ho viaggiato molto.»
«Anche io.»
«Tu da dove vieni?»
«Donegal, Iranda.»
«Avrei dovuto immaginarlo. Si tratta di un lungo viaggio.»
Non so cosa intenda con quella prima constatazione. Forse si riferisce ai capelli rossi, o alle lentiggini. Faccio parte di uno stereotipo del luogo, in fondo.
«Dove altro sei stato, oltre l'Afghanistan?»
«Conosco molto bene la Francia ma sono stato molte volte anche in India ed in Giappone, per motivi di lavoro e per piacere. Solo una volta sono capitato in Kazakistan e due in Russia, a Ivanovo. Non ho mai visitato la Norvegia ma mi piacerebbe molto andare. Dicono che sia simile all'Irlanda del Nord, per alcuni paesaggi.»
«Non l'ho mai vista, quindi non saprei dirti.»
«Tu dove sei stata?»
«Non ho girato tanto il mondo come te, ma ho fatto tappa molte volte in Spagna, in Grecia e in Georgia.» In Italia.
«Non ci saremo incontrati nemmeno volendo.» Tranne che su quella spiaggia a Los Angeles.
Mi perdo nell'afflizione dei pensieri e nel ritorno del viso di Michael tra essi. Stavamo avendo una normale conversazione ma ecco che si interfaccia il dolore, ed il mio volto perde ogni sua colorazione.
Intravedo appena la testa di Ethan inclinarsi a caccia della mia. Capita molte volte. Io mi perdo e lui cerca di recuperarmi, intrappolando il mio sguardo. Nessuna frase. Attende solo, paziente, che io esordisca con un nuovo discorso, connesso al precedente o totalmente distaccato. Eccolo servito.
«Se c'è una cosa che, sul serio, ci accomuna è la nostra amicizia con Lexie e Rainer. Dovevamo riuscire a metterli insieme, lo ricordi?»
«Ricordo.»
«Credo proprio che sia il nostro momento. Scommetto che tra meno di un'ora Reiner sarà qui per chiedermi come mi sento.»
Sorride debolmente. «Un'ora, eh?»
«È un tipo apprensivo» commento, tentando di giustificare la scelta.
«Allora sarà il caso che non mi faccia trovare qui» dice, provando ad alzarsi.
«No!» Esordisco, e la mia voce lo blocca. Tra noi due sono io la più stupita ma ho agito di istinto.
La sua presenza mi calma e con lui accanto... Lexie non azzarda domande troppo personali. Mi convinco che sia questo il motivo, ma per farlo devo sfuggire ai suoi occhi.
«Voglio dire... rimani, se vuoi.»
Era riuscito a mala pena a separarsi dallo schienale della poltrona, ed eccolo riaccomodarsi nuovamente, in un miscuglio di divertimento e stanca apprensione.
«Intendo dire che dovremo fare questa cosa insieme, non ha senso che tu vada via.»
Non voglio che vada via.
Ti prego, Ethan, non andare.
«Un'ora è molto tempo per aspettare. Che ne dici di guardare un film insieme?»
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