44- Dentro ad una foto
P.O.V.
Caitlin
Avere anche solo la forza di poter respirare con piena consapevolezza di sé stessi, e del proprio lavoro, mi sembra una sfida fin troppo ardua per queste ore in cui i pensieri mi molestano con scenari ambigui e preoccupanti.
La presenza di Stephany a fianco di Michael, proprio dopo la nostra litigata, non è niente di auspicabile. Nonostante ci possa essere una bambina di mezzo e lui abbia comunque giurato di amarmi.
Temo di non fidarmi. Dopo le parole che mi ha detto una ferita è rimasta al centro del petto e mi violenta con la continua forza che esercita, su scenari che non vorrei figurarmi e su pensieri che non riesco a controllare.
Vorrei avere più certezze, specie dopo che ho sentito la semplicità con cui mi è andato contro, accusandomi. Tolto Michael non rimangono punti fermi nella mia vita, e potrei seriamente rischiare di allontanarmi, andare a largo verso un punto ineccepibile, impossibile da raggiungere.
Non vorrei allontanarmi troppo, ma se non ho freni... non avere vincoli mi ha portato a chilometri di distanza dalla mia casa, dalla mia famiglia, a miglia e miglia di lontananza, il che vuol dire che possono non esserci affatto ostacoli al precipizio dentro il quale posso cadere e scomparire per sempre, senza niente che mi arresti. Dovrei trovare anche solo un ramoscello di ulivo, flebile pace, per potermi aggrappare e non precipitare nell'otre buio dell'oblio.
Tutto sta nel vedere chi per primo possa tendere la bandiera bianca. Mi sembra come di non essere mai scesa in battaglia, eppure non ho fatto niente per togliere le mine a questo campo di massacro.
Stanotte. Sì, stanotte dovrei tornare a parlargli, per poterci finalmente confrontare, una volta per tutte, e non sentire più il freddo di una comune separazione che ci condanna, come la più temibile delle minacce.
Uscita dal lavoro devo andare da lui, così da potermi scontrare nuovamente con le sue parole che, spero, possano essere stavolta prive di rancore.
Irma mi osserva rimanendo al mio fianco. Non mi dice più niente. Mi osserva e basta. Nessuna battuta ironica nella sua lingua o un incitamento che porti a farmi scrollare il torpore di questo continuo dormiveglia di dosso. Ha capito che stavolta è diversa dalle altre, e non vuole mettersi di mezzo. Ad ogni modo la rispetto, perché vuol dire che ha compreso l'importanza che offro ai consigli, e si procura di offrirmene solo di ottimi. Peccato che in questa situazione scarseggino.
«Quanto manca ancora, Irma?»
«Solo due stanze» mi dice con difficoltà, destreggiandosi malamente con l'inglese ma decidendo di non rinunciarvi.
«Forse, dopo, potremmo tornare a casa» mi auguro, e con la coda dell'occhio la vedo stringersi nelle spalle.
«Chi lo sa.»
Afferro le vecchie lenzuola che avevo lasciato per terra, certa che nessuno mi vedesse, e le forzo a entrare dentro il cestello che le guiderà fino alla lavanderia. Dopo chiudo la porta della stanza che abbiamo appena finito di pulire, dirigendomi verso la prossima.
Irma mi segue, ed è solo il riconoscere una voce femminile nel corridoio che mi blocca nell'aprire il meccanismo del nostro prossimo incarico.
«Mamma mi sono divertita tanto!»
«Anche io, tesoro. Prometto che la prossima volta che torneremo faremo qualcosa di simile, solo noi due.»
«Perché? E zio Michael?»
«Zio Michael ha altro a cui pensare, ed anche noi.»
Il corpo si è raggelato di fronte a queste parole, sentendo la confidenza di quella piccola bimba che, in un pomeriggio di completa solitudine, ho amato quasi fosse mia figlia.
Priva di volontà, vengo spinta dal corpo ad affacciarmi su quel corridoio laterale al nostro, che ospita le voci delle due, e una volta sporta con precauzione la testa trovo Stephany di fronte a me, di schiena, che fruga nella borsa alla ricerca della chiave magnetica.
Tra tutti gli hotel possibili doveva scegliere proprio quello in cui lavoro?
«E-e lui, mamma... Mamma!»
«Ti ascolto, piccola.»
«E lui ha qualcuno, come te hai papà?»
«Vuoi chiedermi se è sposato, amore?»
«Sì.»
«Non è sposato, ma ama molto una ragazza.»
«E come si chiama?»
«Che cosa è tutta questa curiosità, eh? Piccola pulce, che cosa trami?» Le chiede, pizzicandole il naso e abbandonando per un momento la ricerca alla chiave. La piccola ride, e posa entrambe le mani sul piccolo rossore inferto, lanciando sguardi complici alla madre mentre io osservo tutto, alla dovuta distanza.
«È che non ridi da tanto tempo con papà e mi chiedevo se stessi meglio con zio Michael.»
«Ma che stai dicendo, amore?»
«Vuoi bene allo zio?»
«Sì, tanto», le sorride, «ma non nel modo in cui pensi tu. Beh, non più almeno.»
Forse avrei sentito meno dolore se qualcuno mi avesse pugnalato proprio di schiena mentre origlio, in uno dei corridoio dell'hotel in cui lavoro, una vecchia conoscenza dimenticata che un tempo aveva avuto una relazione con il mio ragazzo, assieme al quale ho recentemente discusso.
La loro felicità è la mia condanna, la chiara dimostrazione che senza di me Michael riesce ad essere comunque felice, specie se in compagnia del proprio passato.
«Katrina.»
La voce che mi richiama mi porta a sobbalzare e voltarmi di scatto, finendo in questo modo faccia a faccia con Demetria che mi osserva, tentando di capire cosa stessi facendo.
Per un attimo temo che anche Stephany possa aver sentito il mio nome, ma ho giusto il tempo di voltarmi nella sua direzione e accorgermi del suo effettivo ingresso nella stanza, per poter tirare fuori dai polmoni un leggero respiro di sollievo... per quanto la presenza della figlia del mio titolare non annunci niente di buono.
«Sì, Demetria?»
«Ti vogliono al piano di sotto, alle cucine. C'è bisogno di te.»
Annuisco, disfacendo il nodo dietro la mia schiena e consegnando il grembiule a Irma, affinché lo posi dove il suo, a fine turno, e poi mi allontano dalle due, immersa nei miei pensieri.
Vorrei non aver mai origliato quella conversazione in modo da non trovarmi in questo stato, ma ormai è tutto inutile. È fatta.
Il dolore si accentua nella sua fitta e non mi lascia respirare bene.
Giunta in cucina la situazione non migliora. Gli odori speziati, la confusione, il sovrapporsi delle voci, mi spinge verso uno stato di caos mentale affatto favorevole alla velocità d'azione che richiede questo posto.
«No, Katrina, non sei ai fornelli. Devi servire» mi informa una delle cameriere, non appena sto per mettermi la nuova divisa.
Ricordo immediatamente dopo che la cameriera che mi ero trovata a sostituire in precedenza ha avuto un permesso di cinque giorni, per poter capire cosa le sia successo al piede, e ora il suo ruolo è scoperto, tanto da spingere me a operare il rimpiazzo. Sono una delle poche disposte a fare un triplo lavoro, oltre quello di domestica e cuoca di ristorante, nessun'altra lo farebbe o si spaccherebbe la schiena così, ma non è alcun meccanismo di autodistruzione. Ho bisogno di soldi, di avere un lavoro stabile. Di mettermi in pari con i tanti punti labili della vita così da avere un minimo di certezze.
«Nessun problema» commento, afferrando uno dei vassoi che mi viene porto, già carico dell'ordine del tavolo, e dirigendomi verso la sala allestita a cena.
Con gentilezza, porgo ai nostri ospiti le loro richieste ed è così che trascorrono i minuti, quasi le ore, senza che me ne accorga. La stanchezza sale dalle gambe alla testa dove continua a riecheggiare, nonostante tutto ciò che mi sta accadendo intorno, la scena che sono arrivata a spiare al piano superiore.
Tutto ciò mi spinge verso la confusione, e condanna a una caduta poco dignitosa un bicchiere del nostro servizio che si frantuma in mille pezzi, nella confusione della sala.
Alcuni dei nostri ospiti si voltano nella mia direzione ma è questione di pochi secondi, mi chino subito ad afferrare le schegge, scusandomi con i proprietari del tavolo vicino per il mio sbaglio.
Keiko mi fissa dalla sua postazione d'onore, sopra un cuscino rosso degno di sua maestà imperiale, mentre torno in direzione della cucina, afferrando uno degli ultimi ordini della serata.
Nemmeno mi accorgo, avvicinandomi, che si tratta del tavolo dove siede il marito di Evie insieme ai suoi soliti commensali, ed è solo la voce di lui a farmelo notare.
«Grazie, cara, sei molto gentile» mi dice con dolcezza, e la nube di pensieri scompare dalla mia testa, destandomi.
Sollevo il volto per scontrarmi con il suo, mentre è intento a bere dalla tazzina da caffè che gli ho appena servito, come la prima volta che ci siamo conosciuti, ma a differenza di allora esiste una strana complicità tra noi, merito dell'amicizia che ho con sua moglie. «Va tutto bene?» Si premura anche lui di chiedere, ed Evie deve avere un sesto senso per i luoghi verso i quali viene nominata anche solo con il pensiero perché dalla terrazza ci raggiunge, dopo essersi spenta una sigaretta, e ci fissa entrambi, in attesa della mia risposta.
«Sì, è tutto okay» mormoro, girando il vassoio nero e tondo affinché possa premerlo contro il mio ventre e nascondermi, nella stessa funzionalità di uno scudo, ma niente mi tiene a riparo da Evie e dalla sua inventiva.
«Caro, ho chiesto a Katrina di accompagnarmi a una serata di beneficienza, domani sera. Non è problema per te se andiamo noi due insieme, non è vero?»
Mi ero dimenticata di quella serata. Non sarebbe stato affatto negativo chiedere prima a me il consenso di una simile partecipazione ma a quanto pare mi ha dato per scontata.
O ha donato precarietà al mio ruolo di complice o ho smosso troppo la sua pena, non so quale delle due, ma niente di tutto ciò augura un risultato buono.
Evie otterrà la sua intervista con l'ex capo dell'esercito siriano in merito alla sottrazione dei fondi destinati alla guerra ed io cosa ci guadagno?
Sono certa che si tratti solo di una perdita di tempo ma sembra che non possa disdire.
«No, nessun problema, amore, perché dovrebbe esserci?»
«Magari volevi venire con me...»
«A una delle tue tante noiose feste lavorative? Evito, e lascio l'onore a Katrina, saprà trarne più divertimento di me» mi rimbecca, ed io sollevo le sopracciglia, ironicamente.
«La vedo difficile.»
«Torniamo subito» lo informa, spingendomi in direzione della terrazza dalla quale se ne era appena andata.
Controllo, al solito, che non ci sia nessuno dei miei datori a vedere la mia assenza sul posto di lavoro.
Se continua in questo modo, Evie mi metterà in grossi casini, e non sono certa di voler continuare a perdonare ogni sua trovata.
«Evie, sto lavorando.»
«Ti sottraggo solo un minuto del tuo tempo. Hai un vestito adatto?»
«Per cosa?»
Solleva gli occhi al cielo.
«Mi ascolti quando parlo? Per l'evento di domani sera.»
Stavolta decido che tocca a me mostrarmi divertita, incrociando le braccia sotto il seno e lasciando il cerchio del vassoio steso di piatto, lungo il mio fianco.
«Scusa, devo aver perso il momento in cui mi hai chiesto di partecipare.»
«Sai che è una cosa importante per me, ti ho spiegato il motivo per il quale vado. Devo incastrare quel pezzo grosso per l'intervista.»
«E non vuoi dire a tuo marito la verità di quello che stai facendo. Fa male quando la persona con cui stai insieme non è informata di quello che ti girovaga in mente. Dovresti tenerlo informato di tutto. Ognuno di noi ha già troppe cose a cui pensare, e non può concentrarsi su altro, sarebbe una follia.»
«Che significa questo?»
Sospiro, riscuotendomi dalla mia posizione scontrosa per lasciare libero spago alla donna arresa, che confronta la propria vita con quella di un'amica che sembra avere tutto, a dispetto suo. Maledetta snob.
«Niente, non vuol dire niente.»
«Era riferito a te e Michael, quindi parla.»
«Perché ti interessa tanto?»
«Perché vedo che ci soffri, hai bisogno di parlare con qualcuno.»
«In una vita precedente eri per caso una psicologa?»
«No, in una vita precedente sapevo ascoltare, e molto. Ho anche sofferto a sufficienza, quindi non vorrei che qualcuno percorresse i miei sbagli.»
A passo lento, mi sono avvicinata alla ringhiera di questo terrazzo per poter avere un appoggio, ed eccola che la sento fare lo stesso, chinandosi in avanti in modo da poter posare i gomiti sul freddo ferro e sbilanciarsi in avanti, così da fissarmi negli occhi.
«Un giorno ti chiederò tutto sul tuo passato, Evie» la informo, osservando il suo divertimento celato, «e dovrai rispondere di tutto.»
«D'accordo, un giorno lo dedicheremo a questo.»
Lasciando quella promessa aleggiare nell'aria, mi volto con le spalle allo scenario che questo posto offre per poter osservare all'interno della sala tutte le persone che vi sono contenute.
Ancora una volta ferma, a spiare la vita di altri. Di questi personaggi di passaggio che, come la rondine vista dalla finestra di Evie, resecano io mio cielo solo nel calore di una favorevole estate. Poi sono costrette a migrare, via, lontano da quello che è il mio mondo, abbandonando un posto soleggiato per poter tornare al cupo grigiore della quotidiana vita lavorativa.
«A che cosa stai pensato, Katrina?»
«Al fatto che prima o poi anche tu te ne andrai» la rendo partecipe delle mie idee, abbassando la testa verso i miei piedi rivestiti in scarpe di tela. «Che non ci siamo conosciute in città ma in un hotel, e inizialmente ci siamo odiate.»
«Ah, mi odiavi?»
«Perché, tu no?» Le chiedo, ma non mi risponde, limitandosi a sorridere. «Con quell'atteggiamento da vamp...» commento, ed eccola che scoppia a ridere.
«Ma ancora? Sei proprio fissata!»
Mi stringo nelle spalle, in un mezzo sorriso. «È che è la verità.»
«Hai un bel dono, Katrina, lo sai?»
«Ah sì? E quale?»
«Ti ho visto prima, con mio marito. Eri triste per qualcosa, e sono certa che c'entra il tuo, di ragazzo. Nonostante questo stato d'animo, decidi comunque di farmi ridere. Tieni più agli altri che a te stessa, è un dono magnifico.»
«Si può credere che il mio sia un modo di annullarmi» commento, ricordando gli occhi, e le parole, di Michael quella sera.
Vorrebbe che emergessi, in un certo modo che guadagnassi i miei spazi, ed è l'unica morale positiva che sono riuscita a trarre dal nostro confronto. Il resto mi ferisce e basta.
«Forse c'è bisogno di una via di mezzo, ma non maledico la purezza. È quasi un miracolo che ancora esista. Rafforzala, ma non annullarla per niente al mondo.»
«Vedi? È questo di cui parlo. Chi ci sarà a dirmi cose del genere quando te ne sarai andata?»
«Purtroppo quello che hai detto è vero, Katrina, sono solo di passaggio, ma questo vuol dire che puoi trarre il meglio dall'antipatica ed acida vamp. Un corso di apprendimento ridotto al formato tascabile. Magari vedi di non dimenticarmi, quando me ne sarò andata via.»
Scuoto la testa, piena fin sopra i capelli del suo modo sicuro di fare, scoprendo che anche in lei esiste una fragilità dolce-amara, che ha una fratellanza con la purezza che elogiava. Non gliel'ho mai detto prima, forse lo considererebbe un lato negativo del proprio carattere, ma non dovrebbe, perché anche il suo è un dono perfetto.
«D'accordo, stai palesemente cercando di scusarti per avermi costretto a venire con te alla cena di domani sera.»
«Tornando a questo discorso, l'abito?»
«Ce l'ho.»
«Perfetto.»
«E ti fidi così?» Domando con stupore. «Non mi hai mai vista vestita per il verso. Quasi non mi hai nemmeno mai vista senza questa divisa, come puoi credere che non ti faccia sfigurare?»
«Sembri una donna con del buon gusto» commenta, strizzandomi l'occhio sinistro prima di rivolgersi al paesaggio di fronte a sé. La analizzo con stupore.
«E che cosa te lo suggerisce? Le scarpe da tennis o il look di questi capelli da pulcino?»
«Una donna priva di estetismo non avrebbe mai organizzato quella sfilata a Los Angeles. Avanti, pulcino, sorprendimi. Dimostrami che c'è una vera donna sotto quella divisa e non farmi sfigurare alla festa. Non vorrei essere cacciata via per colpa tua, ci tengo a quell'articolo.»
Scuoto la testa e lascio cadere l'argomento, non essendo in grado in un momento come questo di pensare ai capi del mio armadio.
Segue un leggero silenzio che non si dimostra affatto ostile ai nostri pensieri, dentro il quale entrambe riusciamo a trovare consolazione dalla giornata. Dall'interno della sala vedo le mie colleghe privare alcuni dei tavoli delle tovaglie, in modo da apparecchiare con il servizio del giorno successivo, sintomo di un pensiero comune su un ritorno a casa anticipato.
«A proposito di questo discorso sulle partenze... me ne vado via tra tre giorni, sono venuta in città per l'articolo di domani sera. Non sapevo come riuscire a dirtelo ma visto che hai sollevato l'argomento...»
Dunque ho fatto bene ad anticiparlo. Tento di non mostrarmi troppo ferita dal suo tentativo di addio, facendo i conti con le amicizie che possono considerarsi passeggere. È stato solo questione di settimane, un amore estivo che ci ha fatto divertire, avendoci schierate dal primo momento come nemiche, ma sembra già essere vicino il tempo di salutarci.
Alle volte le persone passano troppo in fretta dalla tua vita e poi ne escono, in un battito di ciglia. Pur avendoti donato tanto, tra cui risate e colpi di testa. A volte succede, ed è strano come vivere ancora una volta un meccanismo che ormai hai imparato a conoscere ti possa comunque ferire, portandoti a scontarlo come una condanna.
«Okay.»
«Okay?» Domanda, corrugando la fronte. «Tutto qui?»
«Ti aspetti che pianga, per caso?»
«Non so se te ne sei resa conto, impertinente, ma da quando ti ho tirata fuori dal carcere ho cercato di evitarlo accuratamente.»
«Per la verità mi hai lasciato sfogare più volte, quasi a dimostrarmi quanto possa essere pazza.»
«È utile. Lasciarsi investire dai sentimenti, intendo. Come quando un bambino lo lasci piangere affinché capisca cosa possa essere il dolore.»
«Non sono più una bambina. Dovrei essere molto più sveglia, per esserlo.»
«La nostra generazione ti ha superata?»
«Senza dubbio la figlia di Stephany l'ha fatto.»
Un lungo silenzio ne consegue, ma non ne capisco l'origine, finché non lo imputo al suo bisogno di ottenere una spiegazione, esplicitato in una domanda successiva.
«Stephany?»
«Sì, lei è... è una donna, sposata, che è stata con il mio ragazzo molto tempo fa. Cioè, prima di sposarsi, ma il suo attuale marito è sempre uno dei vecchi amici di Micahel, della stessa comitiva di un tempo, e ora è tornata, apparentemente per ristabilire con lui i rapporti, questione di pochi giorni. La figlia però lo considera già un secondo padre, e quello che fa più ridere è che entrambe soggiornano qui, nell'albergo in cui lavoro.»
«Stephany ha preso una camera in questo hotel?» E c'è qualcosa di strano, nella sua voce, nel domandarmelo, ma in un primo momento non ci faccio del tutto caso.
«Proprio qui. Negli infiniti posti che esistono al mondo questa donna ha deciso di prenotare una stanza, proprio da noi.»
Rido della mia sventura mentre al mio fianco Evie tace, ma lo fa sempre quando tenta di immagazzinare informazioni. Ormai sono abituata al suo modo di fare e mi chiedo se non si compiaccia della mia sfortuna. Poco importa, dovrà conviverci solo altri tre giorni. Dopo potrà continuare la sua vita in piena tranquillità.
«È il caso che raggiunga mio marito, adesso, si sentirà solo a quel tavolo» esordisce, spingendomi a fissarle quell'espressione che indossa e che mostra una distorsione artefatta, della quale non capisco la provenienza, ma mi spingo ad annuire, distrattamente.
«D'accordo, io rientro e vedo se hanno bisogno di una mano con il resto della sala.»
«Perfetto. Non ti dimenticare domani!» Mi punta di nuovo l'appuntamento contro, quasi affliggendolo al polpastrello del dito che mi indirizza addosso.
Stanca di questo impegno annuisco, anche solo per vederla sparire, e fortuna vuole che finalmente sia costretta a ritirarsi, lasciandomi ai miei incessanti obblighi.
Inserisco la chiave all'interno della vettura che si accende, in un mugolio di protesta.
Ruotare il volante in direzione della strada di ritorno verso casa non è mai stato tanto difficile. Imboccare queste strade nella notte buia, rischiarata solo dal biancore dei miei fari e vedere il tragitto, lentamente, accorciarsi verso quella destinazione fatta di silenzi, e cattivi sguardi, è una tortura alla quale vorrei mettere fine perché ridicola. Sembra quasi una perdita di tempo questo spreco di energie e forze nel rimanere lontani.
Ci amiamo, questo è l'importante. Posso dimenticare ogni sua parola se solo torniamo a fare pace.
Gli pneumatici scivolano sull'asfalto trainando con sé una fila di pensieri che tanto somiglia alla coda, in lattine, di una macchina allestita per dei novelli sposi. La confusione è la stessa. L'abbandono di un tale relitto è quasi in auspicabile, per cui sono costretta a tirarlo con me dietro, e forse è troppo il carico.
A metà del tragitto l'auto emette il suo ultimo respiro, dandomi giusto il tempo di parcheggiare al limite della carreggiata.
Scendo, passandomi entrambe le mani nei capelli per poter analizzare, da lontano, il danno che ho fatto.
Non ho notato nessuna spia e la benzina sembrava essere apposto. Trovare un taxi a quest'ora risulta essere praticamente impossibile, ragiono, e per di più è piena notte, una di quelle gelide, su una strada secondaria dalla quale nessuno passerebbe mai.
La mente si aziona da sola, e mi spinge a cercare nella rubrica un nome in maniera del tutto inconscia.
Mordicchio l'unghia del pollice destro, presa dall'agitazione, mentre osservo il cadavere della mia auto di fronte agli occhi.
«Kat?»
Per alcuni istanti rimango immobile, credendo di aver sbagliato numero. Allontano il telefono dall'orecchio per verificare il nome, e poi torno ad accostarlo.
L'inconscio mi ha riportato alla mente la voce di Michael.
«Evie, ho bisogno di aiuto. La mia macchina ha deciso di morire a metà strada verso casa, puoi passare a darmi una mano?»
«Dove sei?» Nemmeno esita.
«Ti ringrazio, non so che fare, ti mando la posizione per messaggio.»
«D'accordo, ti raggiungo.»
Butto giù la chiamata, mandandole l'indirizzo, e poco dopo riesco a tornare leggermente più tranquilla. Almeno, prima del suono di una nuova chiamata.
Osservo il mittente con timore, indecisa se risponde, ma poi, con dita tremanti, arrivo a farlo. Non completamente pronta, però, mi rivolgo, per la prima volta, dopo molte ore, a lui tramite l'interfono.
«Pronto?» Mormoro.
«Dove sei?»
«Ecco, io...»
Silenzio, dall'altro capo della linea. Michael attende, e non riesco a mentirgli. Una piccola parte di me spera, addirittura, di riuscire a smuoverlo verso la pietà.
«La macchina mi ha lasciato. Sono a metà del tragitto, stavo tornando.»
«Mandami il luogo, ti raggiungo.»
«No, non c'è bisogno, io...»
«Non mi vuoi?»
Taccio, di fronte a questa richiesta esplicita. Quello che desidero è non allontanarlo ulteriormente, dopo il nostro litigio, e così, presa dalla confusione, ammetto la verità.
«Sì, certo che ti voglio.»
«Allora mandami la posizione in cui ti trovi, così arrivo da te.»
«D'accordo.»
«D'accordo.»
La chiamata termina. Michael butta giù, mostrandomi come tra di noi le cose non si siano affatto affievolite ma forse una piccola speranza c'è. Non avrebbe deciso di raggiungermi, altrimenti.
Compongo nuovamente il numero di Evie ma squilla a vuoto, segno che forse sta guidando nella mia direzione e non presta attenzione alle chiamate.
Decisa a non volerla distrare le butto giù dopo una serie di squilli e attendo il sopraggiungere delle due figure con le quali trascorro, a metà, il mio tempo.
La prima auto che parcheggia è un modello stranamente familiare, ma non appartiene a Michael. Dal lato passeggeri scende Evie, in una strana tenuta sportiva nascosta da un cappotto avvitato. Non credo di averla mai vista in abiti tanto informali e forse occorreva un imprevisto per avere modo di constatare l'esistenza di tali capi in suo possesso.
Entrambe, quindi, abbiamo un lato di noi che ancora non è emerso. Che diavolo ci fa in tenuta sportiva a quest'ora della notte?
Quasi vorrei ridere di lei e del modo con cui si è precipitata fino a me, dimostrandomi stranamente quanto tenga a quest'amicizia passeggera, ma un suo sguardo mi blocca.
«Non azzardarti nemmeno.»
«Ma che fai? Segui dei tutorial da fare in hotel?»
«Ci tengo alla salute, ma perché stiamo parlando di questo?»
Non ne ho idea, forse è un modo che ho di smorzare la tensione in attesa dell'arrivo di Michael, o, in alternativa, sono semplicemente curiosa di lei.
Mi stringo nelle spalle e la lascio dirigersi, sorprendentemente, al motore per verificarne i danni.
«In un'altra vita eri anche una meccanica?» La beffeggio, ricordando il nostro discorso sulla terrazza.
«Si da il caso che qualcosa ci capisca quindi vuoi zittirti e darmi una mano?»
«Agli ordini, capo.»
Una decina di minuti dopo siamo nascoste dietro il cofano sollevato della macchina, quando dei fari rischiarano l'asfalto.
Volto la testa nella direzione di Evie che si rialza, mollemente, senza essersi accorta del nuovo arrivato, concentrandosi unicamente su l'impossibilità di operare in una situazione simile. Niente da fare, sembra volermi dire, e non c'è veramente più niente da fare quando sento incedere nella nostra direzione i passi di Michael, la quale macchina, al momento, è accostata al limite opposto della careggiata.
Con uno scatto secco, Evie chiude il cofano e l'attimo dopo, io e lui, siamo occhi negli occhi.
Decorato dal buio della notte che evidenzia la sua carnagione olivastra, i capelli castano scuro tagliati corti, è ancora più bello, o forse è solo la mancanza di lui che ho provato in questi giorni di lontananza. Non so spiegarmelo, ma la voce fugge via dalle corde vocali e mi trova incapace di esprimere una qualsiasi sorta di frase.
«Ciao.»
Le gambe mi tremano leggermente, a causa di una tensione che risiede in ore accumulate da stress di pensieri. Basta un semplice ciao, il fatto che sia venuto fin qui per me, che mi abbia dedicato attenzione, per permettere al mio cuore di volare.
«C-ciao.»
Il mio balbettamento, unito al manifesto della mia incontrollabile allegria, riesce a contagiarlo, anche solo un po', lo vedo. Subito dopo, però, tenta di nasconderlo, e si concentra su cose più importanti e presenti sulla scena come il danno della mia adorata auto o la figura di Evie che si erge dritta, alle mie spalle.
«Ecco, io... ti avrei informato» parto con il dire, rivolgendomi a lui e indicando Evie, «del fatto che non fossi sola. Ho composto il suo numero prima di veder comparire anche la tua chiamata, e così l'ho fatta venire qui.»
«Deve essere importante, allora, se le hai telefonato prima di pensare a me» dice il mio ragazzo in modo ironico, ma anche leggermente risentito nei miei riguardi, tendendo quindi la mano a conoscenza dell'unica persona rimasta in silenzio. «Molto piacere, sono Michael Flint.»
Sfoggia il suo mezzo sorriso cordiale, sincero quanto basta da togliere il fiato, e non si inclina nella propria certezza nemmeno quando trascorrono diversi minuti, prima di veder ricambiata la propria stretta.
«Evie.»
«Solo Evie?»
«Solo Evie» risponde la mia amica con un sorriso. Cerco di cogliere, nella sua espressione, il sentimento di difensiva sfoggiato un tempo da Marina ma non trovo niente, oltre alla sua tipica sicurezza, e mi risulta strano il non riuscire a leggerla. Ormai credevo di esserne in grado, eppure non ricevo indietro niente dal suo sguardo.
«Si è scoperto cosa è stato?»
«Si è rotta una cinghia di distribuzione del motore. Forse i troppi chilometri percorsi o un eccesso di temperatura.»
Michael annuisce mentre io non riesco nemmeno a capire di quale pezzo, nello specifico, stiamo parlando.
«Sì, l'abbiamo presa usata. Ormai deve aver fatto il suo tempo.»
Mi viene quasi da piangere, tenevo a quella macchina.
Michael deve aver captato il mio pensiero perché, per la seconda volta questa sera, mi concede un piccolo sorriso in grado di riscaldarmi.
«Immagino che tu sia la giornalista che soggiorna in hotel. Katrina mi ha parlato di te.»
Evie impiega sempre del tempo a rispondere, quasi che stesse calibrano le parole da dire rispetto al solito, ma può essere solamente una mia opinione.
«Sono contenta che l'abbia fatto, siamo diventate amiche.»
«Forse è meglio che andiamo, Cat, possiamo chiamare domani il carrozziere. Non scomodiamo ulteriormente la tua amica.»
Mi sta incentivando a un ritorno verso casa, posandomi la mano dietro la schiena, e ripristinare con lui il contatto mi fa sobbalzare leggermente di sorpresa. Sollevo lo sguardo e mi rendo conto del modo in cui lo sto fissando: in una maniera adorante che è assuefatta nell'avere di nuovo la sua presenza affianco ma non mi importa di manifestarmi così, è la verità.
Forse dovrei essere triste, addirittura arrabbiata per quello che mi ha fatto passare, ma non so fingere e non gli voglio mentire. Lo amo e mi è mancato. E riesco a vedere come anche il suo sguardo ammetta di amarmi. Non lo ha mai smentito, ma in qualche modo è come se avessi continuo bisogno di certezze da parte sua, per poter essere serena, perché è normale litigare. Fa male, ma accade anche il trovarsi a dire discorsi contro difficili da digerire, basta potersi chiare ed ho voglia di farlo. Ho voglia di tornare a casa, adesso, e poter parlare faccia a faccia. Vivere separati è una tortura.
Il nero scuro degli occhi di Michael, che mi aveva stregata dalla prima volta che l'avevo notato all'interno di una biblioteca, è immobile come lo sguardo di un carnivoro che punta la propria preda ma ho imparato a decifrarlo, e dietro di esso vedo molto altro che vorrei accarezzare, trattare con mani gentili in modo da infondergli tutto l'amore che merita. Questa era stata la mia promessa alla Bocca della verità a Roma, perché anche allora vi avevo scorto qualcosa, l'ho sempre fatto, e non posso semplicemente rinunciarvi.
«D'accordo» mormoro, rimanendo ancora cullata nel suo semi abbraccio, con il mento rivolto in su verso di lui. Quando diviene troppo profondo, però, sono costretta ad allontanarmi, timida, arrivando così a concentrarmi su Evie che per tutto il tempo ci ha osservato, senza donare indietro niente, non una parola, non un'emozione.
«Allora noi andiamo, Evie. Grazie per essere passata, anche se non abbiamo potuto fare niente l'ho apprezzato molto... buona serata.»
Sono io per prima a salutarla, ricevendo in cambio un mezzo sorriso di congedo che mi lascia, in un certo modo, insoddisfatta. Mi sarei aspettata qualche parola che mi garantisse il suo non disturbo di un simile buon gesto, anche se è ridicolo perché mi ha già dimostrato tanto, e sono costretta a lasciar perdere.
Michael mi incita ad andare nella direzione del rientro ed io eseguo, e nel tragitto non riesco a non notare quanto, persino lui, sia incuriosito dal modello dell'auto di Evie, parcheggiato poco lontano.
«Va tutto bene?» Domando. In risposta annuisce.
Non riuscendo a comprendere bene il ricordo che mi suscita l'oggetto preso in atto, non rinuncio nemmeno alla volontà di scoprirne la provenienza, dentro l'oblio della memoria, almeno fino a che io e Michael non rimaniamo soli all'interno di un abitacolo improvvisamente molto stretto, con l'unica luce in alto al tettino che ci rischiara.
Osservo con la coda dell'occhio il profilo di lui mentre il viaggio riprende, e la meta si fa sempre più vicina. Non mi perdo un solo particolare, dall'austerità del naso alla morbidezza delle labbra, scendendo dal mento al collo, fino al pomo d'Adamo.
La mia indagine non passa inosservata, ma nemmeno una volta Michael volge lo sguardo, lasciandomi libera di continuare a spaziare.
Una volta arrivati, nel silenzio, ci accomodiamo all'interno della nostra abitazione finendo, rispettivamente, uno seduto su di una sedia, al fianco del letto, e una sul materasso, a una diversa altezza ma occhi negli occhi.
Con le mani intrecciate, i gomiti sopra le ginocchia, la schiena inflessa, Michael è pronto per questo nostro confronto che non necessita di molte parole.
«Mi dispiace» mormoro, e la sua testa si abbassa, di conseguenza.
«Abbiamo bisogno di parlare di più, tra di noi. Capire come stanno veramente le cose, per entrambi.»
«E come è che stanno?» Chiedo, in un sorriso molto triste che richiama nuovamente i suoi occhi. «Sei stanco? Odi il tuo lavoro?»
«Tu?»
«Non ho più aspettative, Michael, tranne che quella di vivere felice e in maniera stabile. Appartengo già a te, ma voglio appartenere anche a un luogo, a un posto. Voglio la mia patria, per non sentirmi più un'estranea, e so che questa è quella giusta, non voglio sottrarmi.»
Michael tace, tirando da solo le proprie conclusioni senza rendermi momentaneamente partecipe dei suoi pensieri.
«D'accordo, allora» dice, sorprendendomi in parte per la facilità con cui scende a un simile compromesso.
«D'accordo...» mormoro, notando come la tensione scivoli via dai nostri corpi, sciogliendo la contrazione dei muscoli. Le sue spalle appaiono più rilassate e anche la mia schiena, una volta fatto uscire dalle labbra il fiato, si piega improvvisamente, sgonfiandosi come un palloncino alla puntura di un ago.
«Vado a farmi una doccia» mi informa a un tratto, sollevandosi lentamente in piedi e dirigendosi verso il bagno. Senza che mi veda, avendomi ormai rivolto le spalle, annuisco e seguo con gli occhi la sua ritirata. Mi dedica un ultimo sguardo prima di chiudere la porta scorrevole dietro di sé e lasciarmi sola, nel soggiorno.
Maldestramente, mi sollevo e mi guardo intorno, senza alcuna voglia di prepararmi da mangiare, pur avendo saltato la cena. Opto per la pulizia della casa, costantemente in disordine visto il poco tempo che ci passiamo, e parto con l'afferrare il suo giubbotto, per riporlo al suo giusto posto.
Qualcosa però, nell'agguantare la stoffa, mi rende partecipe di un oggetto nascosto nella tasca interna. Tasto quella consistenza, tentando di decifrarla, e successivamente faccio scorrere la piccola cerniera presente ad occultarmi la vista per poter afferrare quel mistero, e passarmelo sotto gli occhi.
Sono delle fotografie, vecchie fotografie, che ritraggono Michael con i suoi amici di un tempo. Logan e Stephany, in particolare, ma anche Jeremy.
Scorro quei ritratti di anni fino ad arrivare a un'ultima diapositiva che mi lascia immobile, a fissare un volto finora sconosciuto.
Non serve alcuna dedica per attribuire ad esso un nome, è sufficiente vedere il contorno di quel ristorante tanto noto, la sua divisa da barman e il modo con cui risponde all'occhiata del mio ragazzo.
Sebastian finalmente si rivela ai miei occhi e non posso non notarne la particolarità del viso, la pelle chiara, i tratti somatici raffinati come le leggere onde che gli caratterizzavano la cute.
Il passato adesso ha un volto, e torna ad essere rinchiuso nella propria prigione di stoffa. In modo da acquietare le grida di entrambi, lasciandoci corrompere da nuovi, per quanto vecchi, timori.
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