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42- Notte di confessioni

"Quanto siamo bravi noi con le parole
quanto ci mettiamo per mangiarci il cuore
prima siamo complici dopo puoi distruggermi
a metà tra le carezze e la guerra.
Se siamo ancora qui si può sbagliare
anche un abbraccio ci può fare male
odiarci è meraviglioso l'amore è pericoloso, pericoloso
pericoloso, pericoloso".

J-Ax - Pericoloso

P.O.V.
Michael

La cenere cade dall'abrasione della sigaretta, depositandosi sull'acqua presente in un bicchiere di plastica che tengo in mano, mentre il resto, intorno, continua a tacere in un pesante silenzio interrotto solo dal rumore della sua auto, intenta a fare manovra.

Per lunghi attimi niente è reale quanto il suono dei passi che la portano fino a me. Si trascinano stanchi, resi vittime di un'abitudine che ci sta spingendo sempre più a fondo.

Sorrido, picchiettando con l'indice destro la sigaretta ormai giunta al termine, inacidito da giorni a causa dei pensieri.

Le chiavi compiono un giro all'interno della toppa e le permettono di affacciarsi con precauzione in questa casa completamente al buio, per poi avanzare, togliendosi la borsa nel suo intreccio a tracolla oltre la testa, e dirigersi così verso il soggiorno. Rimango nella mia postazione mentre la sento passeggiare da una stanza all'altra.

Ancora silenzio. Nessuna parola. Nemmeno un sospiro di sconforto od una leggera rabbia; verso il fornello del gas che non parte non appena tenta di prepararsi un caffè, verso la calca di stoviglie che si sono rese inutilizzabili dal momento che giocano a essere matriosche in uno spazio troppo piccolo, verso di me, non credendomi ancora qua dentro.
Ma ci sono, e ascolto questo silenzio.

Di nuovo la suola delle sue scarpe contro questo pavimento in parquet, alle mie spalle. Lo spostamento di qualche cappotto, dal materasso del letto al centro della stanza all'appendiabiti, gli unici dei pochi arredi presenti, ed eccola che si immobilizza, notandomi. Seduto su questa sedia, nell'angolo più buio della stanza, circondato dal fumo della nicotina, a osservare il mare.

«Michael?»

Con un sospiro, poggio la schiena all'indietro e volto la testa nella sua direzione, rimanendo a fissarla. Gli occhi le scendono immediatamente verso il taglio al mio labbro, ma ancora una volta fa finta di non vedere.

«Va tutto bene?»

Il sarcasmo è la forma più bassa dell'ironia, è così che si dice, giusto? Eppure mi viene da ridere a sentire come le domande su di un disastro in larga scala. Il taglio? Non è importante. Se non vuole parlarne non lo farò certo notare io, e poi non si tratta di niente, ho già perso molto sangue, rimarrà solo una piccola cicatrice.

Il problema è tutto quel "resto" che non si può ignorare, o nascondere come la polvere sotto un tappeto persiano. Mi toccherà sollevare quella copertura e mettere alla luce, una volta per tutte, ciò che veramente sta succedendo, anche se non mi fa affatto piacere.

Vorrei vivere come lei nella continua accettazione, penso, sollevandomi dalla sedia con ancora il bicchiere in mano e lasciandovici cadere anche la sigaretta, posandolo poi su di un tavolo.
Vorrei che tutto fosse come ho sempre stabilito, o meglio che tutto possa andarmi bene, per quanto si dimostri essere fastidioso, invivibile e frustrante. C'è sempre il sole dove lo si ospita.
Con quel calore irradiato forse non mi sentirei così, e avrei modo di proteggere me stesso, lei.

«Dove sei stata?»

Per qualche secondo era tornata a svolgere le sue azioni di normale routine ma adesso riprende a dedicarmi la giusta attenzione, piantandomi i suoi occhi celesti addosso.

«Te l'ho detto. Ero all'hotel a lavorare.»

«Sono passato dall'hotel», confesso, «e non ti ho trovata.»

Faccio particolare attenzione ai minuti che seguono, e al fatto se si trovi, costretta o meno, ad allontanare lo sguardo. A volte le capita, quando è a disagio o nel torto. Stavolta non lo fa. Mi guarda risoluta e la sua certezza quasi mi sorprende.

«Probabilmente stavo pulendo una delle camere. Non sempre la notte ho il turno in cucina.»

Rimango immobile reggendo il peso dei suoi occhi, finché Cat non si allontana da me, rifugiandosi in un'altra stanza. Annuisco leggermente, anche se non può vedermi mentre continua a sistemare. Attendo il suo ritorno, l'attimo esatto in cui si arresta per rimanere a fissarmi con risolutezza, e non accade dopo troppo. Solo per poco.

Caitlin mi scivola via dalle mani, muovendosi da una parte all'altra. Nemmeno con velocità. Quella che regna è la detestabile abitudine a un contesto che odio, ma che finalmente ospita qualcosa in grado di sorprenderla.

Grazie al cielo quel qualcosa, adesso, l'ha sconvolta tanto da non farle prestare più attenzione a quello che ha intorno e alla nostra misera condizione di vita.

L'attenzione di Cat è rivolta a quegli oggetti rettangolari, avvolti dal giornale, dei quali sappiamo entrambi la natura.

«Che cosa ci fanno qui? Credevo di averle messe altrove» parte con il dire, indicando con il polpastrello del dito indice destro le colpevoli chiamate in causa.

Poi si rivolge verso di me e, quale meraviglia!, finalmente scorgo l'accenno delle sue umili lacrime.

Sorrido e mi stringo nelle spalle, drizzando poi la schiena per poterla osservare con risolutezza.

«Pensavo di appendere i tuoi vecchi lavori per casa. Che ne dici? Ti sembra una buona idea?»

La bocca le si apre leggermente, quasi come se stesse per dire nuove frasi. Arriveranno? No. No, Caitlin non si pronuncia, perché anche solo il farlo è un fastidio, pur non facendomi intuire in direzione di chi.
È per se stessa che evita un qualsiasi tipo di confronto? Per non soffrirne troppo, o per non provare a maledirmi?

Si muove immediatamente, preferendo l'azione al confronto.

«No... no, le metto via.»

Rispondo immediatamente, annullando quei pochi metri che ci separavano e ponendomi di fronte a lei, con ancora il sorriso, le mani intrecciate dietro alla schiena che continua a rimanere dritta e con un imperturbabilità tanto arcigna da intimidire.

No, non la sto toccando. Ma non la perdo di vista e con il mio sguardo la inchiodo.

«A me sembra un'idea fantastica, invece.»

Decide di non darmi ascolto, e tenta di superarmi. La ostacolo.

«Michael, togliti.»

«Perché? Sei troppo stanca anche per discutere?»

«Non voglio discutere, voglio solo levare questi vecchi dipinti.»

«Ma certo, non vuoi. Perché se lo facessi sarebbe troppo facile, vero?»

Non sembra capire di cosa stia farneticando ed è ridicolo. Sa benissimo che sono in attesa di qualsiasi sua parola, così da essere in grado di tradurla con attenzione, come ho fatto in tutti questi anni. Certo è che se lei non vuole mostrarmi i suoi pensieri, la sua bocca rimane serrata in conseguenza, e tutto tace stabile.

Tenta di superarmi da sinistra. La blocco. Il suo mento capita tanto vicino al mio petto da farmi sentire il freddo del suo respiro addosso. Gli occhi le si sollevano ed io... non posso che ricambiarli con lo stesso carico di rancore.

Si muove a destra. Tutto inutile.

Dopo non tenta più alcuna mossa.

«È davvero troppo tardi per una discussione del genere. Mi cambio e vado a letto.»

«Perché lì dentro si dimentica tutto, non è vero?»

Sorrido mentre lo stupore la porta a spalancare completamente l'azzurro dei suoi cieli, assorbendo le mie parole con dolore.

«Avanti, non mi guardare in questo modo, non è sempre stato così tra noi? Vuoi scopare? D'accordo, almeno potrai credere di essere riuscita a farmi tacere. Mi spoglio da solo o ci pensi tu?»

Si volta per andarsene ma riesco ad essere nuovamente di fronte a lei. Falsamente sorridente. Comicamente divertito del suo abbandono alle armi. Cosa crede di risolvere così?

«Va bene. Parto da solo, allora.»

Sollevo le mani, iniziando a sbottonarmi lento la camicia, ma riesco a liberare quei piccoli cerchietti di plastica fino al loro quarto componente, prima che le sue dita si sovrappongano alle mie e mi vietino qualsiasi altra ulteriore mossa. Strappando le mie azioni con uno strattone.

«Che cosa vuoi, Michael?»

«Sei stanca, Caitlin?» Le chiedo, vicinissimo al suo viso mentre sono curvo su di lei. «Sei arrabbiata?»

«No.»

«No? E perché no? Io lo sono.»

«Questo lo vedo da sola.»

«Come può bastarti, tutto questo?»

«Che

Distratto dalla miriade di parole che vorticano come uno sciame di api, nella mia testa, le consento di girarmi intorno ed allontanarsi da me, ma è inutile scappare.

«Avanti, Cat.» Riesco nuovamente a congiungermi a lei, e con forza stringo le sue braccia per portarmela a meno di un mezzo respiro dal viso. «Dimmelo, sei soddisfatta di questa vita patetica?»

«Non c'è niente di patetico!»

«No?» Rido. «Pulisci cessi ad ogni ora del giorno, cambi delle lenzuola dove rimane impregnato il sudore di altre persone, e io? Io vivo soffocato da un mondo ingestibile di cartelle, grigie, tutte uguali, ad ogni ora del giorno, su un'infinità di scaffali.»

«Lasciami...»

«E sai perché? Perché ho mollato il teatro. La ragione? Vuoi che te la dica, Katrina?»

Mi faccio ancora più vicino, vedendo così la sua testa muoversi nella direzione di un no, ed io non posso accettarlo.

Le nostre labbra si toccano appena mentre i nostri respiri, dimezzati, si uniscono nella condensa di una nuvola calda, appesantendo la visione dei nostri sguardi ancora uniti.

«Tu.»

Mentre in lei vedo la paura mescolarsi allo stupore, in me non c'è niente che cieca rabbia, e il sottofondo di una risata infelice che mi tramuta da agnello a lupo.

«Ho seguito i tuoi consigli, te lo ricordi? Ho ascoltato le tue parole, eppure a cosa è servito? Alla recita ero troppo distratto. Dominc Lance non mi ha trovato su quel palco, perché io non ero presente. Sai dove ero? Proprio accanto a te. Con tutti quei colloqui andati male, lo stupido litigo con la tua amica, i misteri che ogni giorno mi rivelavi. Quella filastrocca, la possibilità di un figlio... Ti sei accorta del carico che mi hai messo addosso? Mi hai allontanato dal teatro. E lo sai, per questo accetti la nostra nuova vita, che altro non è che una punizione. Lo sai. E non prenderai più in mano un pennello... perché io non potrò più recitare!»

Rimane in silenzio, con la bocca leggermente aperta, mentre le sue dita sono inanimi come ramoscelli di alberi secchi, prosciugati dall'autunno. Sollevati tra di noi perché incapaci di compiere qualsiasi tipo di azione.

Non posso che provare fastidio di fronte a questo suo essere inerme, posta come è dinanzi a qualsiasi tipo di stimolo.

Le ho detto quello che penso, e nonostante questo Caitlin. Continua. A. Tacere.

«Avanti, una parte di te se ne è sempre resa conto. Perché colpevolizzarti, sennò?»

«Non è vero.»

«Cosa, di tutto quello che ti ho detto? Non è vero il passato che ti porti sulle spalle, e che è arrivato quasi a schiacciarmi? Avanti, Cat, parliamoci con sincerità.»

«Ho accettato questa vita per un altro motivo.»

«E quale? Perché mi ami? Molto più di quanto lo faccia io, non è vero? Quale eroe senza macchia!»

Dalle sue braccia il mio tocco, al momento, è risalito fino alle sue spalle e non le consente di muoversi di un solo millimetro dalla posa che aveva assunto. Il mio viso è chinato verso il suo, al pari dell'altezza, e tenta così di scorgere l'imbroglio.

«Se non ti amassi, Caitlin, credi che avrei mai accettato una vita simile? Stare con una donna profondamente ferita da ciò che ha subito, che nemmeno può essere certa di darmi un figlio? No... no, non lo avrei fatto.»

Sotto la mia stretta si ribella, vuole provare a fuggire ma non glielo permetto e nonostante gli strattoni, le sue unghie conficcate nella pelle, mentre tenta di fare presa su qualcosa, non emetto un solo ansito di protesta.

«Avanti, Cat, è la sera delle confessioni. Dimmi cosa pensi. Perché non riesci più a dipingere? Di cosa hai tanta paura? Perché è questo che provi, giusto? Oppure c'è dell'altro? Hai scoperto anche tu di non esserne più in grado?»

«Smettila. Non è così!»

«Allora dimmi come stanno le cose.»

«Non mi piaci in questo modo.»

«Bene e male insieme, Cat. Hai deciso di prenderli entrambi, adesso parla.»

«Ho deciso di sacrificare qualcosa per ottenere la vita che entrambi vogliamo.»

«E che cosa?» Domando, corrugando la fronte falsamente confuso. Le mie mani sono ancora sulle sue spalle, il mio volto chino verso il suo. «Te stessa? È questo che hai sacrificato?»

In qualche modo la forza che non impiega nell'emettere frasi compiute si sfoga nel suo corpo, dandole capacità d'azione. Riesce a sottrarsi da me, anche solo di qualche passo, mentre continua a fissarmi con odio.

Sembra una bambina piccola, indispettita da una figura più grande di lei. E proprio come un infantile germoglio non è in grado di rispondermi affatto. Debolezza. Ecco quello che è.

Caitlin non ha la spinta giusta che le permetta di ottenere ciò che desidera, magari spingendo anche me via dal suo corpo, se tanto le faccio male. Non ha il coraggio di prendere a piene mani le redini della sua vita e decidere come avanzare.

Katrina l'aveva, ma la sua figura era solo una menzogna, o una sfaccettatura troppo minuscola del suo essere, questa è la verità. Ed io non posso confrontarmi con una persona tanto priva di spina dorsale.

«Dimmelo, Caitlin, se mi odi. Sono qui per sentirlo.»

«Non aspetti altro, non è vero? Sei tu a farlo, e vuoi che anche io provi lo stesso, perché ti farebbe sentire meno colpevole o nel torto. Ma per me non è così, io ti amo, solamente, e non ho voglia di litigare. È una questione così sciocca.»

Proprio come aveva fatto la sua mano, poco fa, anche la mia si tende in direzione dei cadaveri delle vecchie tele imbrattate di colore, essendo ormai le dita rese libere dallo sforzo esercitato sulla sua carne. Evidenzio la colpa di quei tessuti costretti al gioco pittorico di vecchi pensieri e attendo che anche lei lo ricordi.

«Hai passato anni a imparare le giuste tecniche. Hai difeso l'arte nelle terre del Donegal quando, curiosa, la gente ti si radunava intorno, bramosa di sentirti parlare dei tuoi studi e adesso... vuoi dirmi che non ti importa di aver rinunciato a tutto? La pittura ti ha fatto litigare con Marina, io te l'ho fatto fare! Per garantirti un posto di lavoro che potesse farti felice. L'ho lasciata volare lontano e ora... vuoi dirmi che non sei affatto arrabbiata?»

Le sue iridi saprebbero comunicare molto meglio delle sue labbra perché lo so, lo scorgo, all'interno di loro vi è la verità che mi aspetto, quel sottofondo di rabbia che Cat ha troppa paura di far emergere perché forse potrebbe portare alla nostra rottura. E lei non vuole perdermi, non vuole farlo.

Ricordo che anche io la amo ma sono tremendamente arrabbiato.

Inaspettatamente a qualsiasi previsione, Caitlin si avvicina, e con entrambe le mani circonda il mio viso, senza soffermarsi sulle ferite del labbro, tentando di fare pace con le carezze ma mi sottraggo di scatto.

«Che cosa ti ha fatto arrabbiare tanto?» Domanda in un sussurro, tentando di capirmi. «Sono i turni a lavoro? Vuoi che stia più tempo a casa?»

Rimango inerte dinanzi alla sua indagine che si macchia di fulgore, nella lucentezza dell'iride, lasciandomi solo a chiedermi se possa essere una verità, la sua.

«Vuoi che torni a dipingere, è questo?»

Ci sono molte cose che avrei voluto prendessero vita, aspettative alle quali da tempo penso ma ce ne è una, su tutte, che mi spinge a parlare ancora una volta ed ammettere la verità, così come è.

«Avrei voluto una vita da trascorrere insieme ma non la stiamo vivendo» confesso, allontanandomi quindi da lei e dandole le spalle, per la prima volta in tutta la sera.

Non è importante il lavoro o tutto quello che ci è capitato di mezzo. Io e Caitlin non siamo più connessi, non siamo più insieme dal giorno in cui ho abbandonato il teatro e non ho la forza di interrogarmi sul motivo. Le mani dalle lunghe unghie nere del demone che mi vive sotto pelle scavano nelle mie membra sempre più affondo, provocando lacerazioni che portano il sangue a fuoriuscire dalle arterie e frastagliarsi nel mio corpo, ribollendo di una fame ancestrale che non sono in grado di saziare.

Perché da tempo non so più come poterla nutrire.

P.O.V.
Caitlin

Il pavimento sotto le mie ginocchia nude è un marmo bianco reso ancora più freddo dall'acqua gelida che sto usando per poterlo lavare. Lo strofino con forza, tanto da creare delle bolle di sapone tra la spugna e il guanto, che avviluppa la mia mano, eppure niente è sufficiente. La macchia presente sembra non volere andare via, nonostante tutti i miei sforzi per cancellarla.

Stringo tra i denti il labbro inferiore per fermare una crisi di pianto che non tiene conto del mestiere che sto svolgendo, quanto di tutte le cose che non sembrano andare bene nella mia vita.

Irma mi fissa con preoccupazione da sotto il cappellino di carta della nostra divisa, accertandosi del mio stato di salute che per tutta la mattina l'ha fatta preoccupare. Non dovrebbe, sto bene, è solo una crisi momentanea.

«Katrina?»

«Va tutto bene.»

Con forza, torno a dirigere la mia frustrazione su questa macchina di fronte all'ingresso principale e tengo lo sguardo basso, diretto unicamente sul punto preso in esame per non lasciar trapelare niente dal mio sguardo.

Delle lucide scarpe nere si affiancano a me e al mio lavoro, lasciandosi intravedere con la coda dell'occhio ma tanto basta per permettermi di riconoscerne il proprietario, prima che la sua voce riprenda a infastidire l'aria.

«La camera 120 è stata preparata per l'ingresso delle quattro di questo pomeriggio?»

Ottenere la calma è qualcosa di impossibile quando il tuo spirito, che la brama, viene infastidito dalla continua e sottile puntura di Raimòn, avente sulla lingua una miriade di spilli che, in certi giorni, feriscono nella loro caduta più di quanto siano in grado di fare della stalattiti.

«Sì, signore, è tutto pronto» risponde per me Irma, donandomi così una fetta di tranquillità ma il destino deve remarmi contro, in una giornata come questa.

Nuove scarpe, stavolta dei tacchi a spillo lucidi e rossi, di una vertiginosa altezza di quindici centimetri privi di plateau, mi fanno pentire di non aver lasciato, come una coperta invisibile, due millimetri d'acqua su tutto l'area della hall.

Subito a destra di quegli oggetti di morte, il brutto muso del suo crestato cinese, quel cane di piccola taglia avente il solo scopo di ricordare al mondo che la sua padrona ha svolto un master importante nel cuore dell'oriente, un tempo governato dall'antica dinastia Han con la quale crede di essere imparentata. Ma Demetria non ha occhi a mandorla quanto un affilato desiderio di provocare fastidio e di evidenziare, costantemente, tutti i suoi abiti di marca.

Deve disdegnare la mia uniforme, perché dall'alto della sua supremazia, noto mentre sollevo la testa, mi fissa con uno sdegno che non riservò nemmeno alla sua creatura infernale il giorno in cui, ignara bestia, fece pipì sui suoi stivaletti bianchi in pelle, mentre parlava in questo stesso punto con dei commercialisti.

Ricordarlo riesce a farmi tornare il sorriso, ma è questione di pochi secondi. Raimòn e Demtria ancora mi braccano.

«Sì?» Chiedo, e la figlia del proprietario di questo posto si destreggia in un sorriso, tanto finto da non essere nemmeno degno di una delle sitcom che dei produttori stanno girando da giorni, all'interno del paese, con del basso budget.

«Come stai, tesoro? Ti senti poco bene?» Avanza nel domandare, con il suo tono di voce cantilenante che, ancora una volta, vorrebbe mettere in mostra la sua conoscenza nelle lingue, in questo caso l'inglese.

«No, perché me lo domanda?»

Le sue spalle si stringono, come a voler giustificare il tutto. «Sembravi preoccupata, ecco tutto. Se hai problemi ti possiamo trovare qualcos'altro da fare. Semplice supporto ai dipendenti.»

Non posso fare a meno che sorridere della falsità che cela, e che si accumula inesorabilmente alla matassa di altri ulteriori problemi che mi porto addosso.

«No. Sto bene.»

«Bene» commenta, per poi girare i suoi tacchi e andarsene, seguita da Raimon. Keiko però, il caro, buon, vecchio Keiko, non si limita a un'uscita di scena tanto silenziosa e si pronuncia in un abbaio stridulo nella mia direzione, rivolgendomisi contro con tanta rabbia da costringermi ad arretrare con la testa per sfuggire ai suoi piccoli ma aguzzi denti. Dopo, trascinato dal collare decorato con perle e stretto in mano dalla sua padrona, si allontana finalmente lasciandomi la segnaletica delle sue orme che sono costretta a ripulire.

Prendo un profondo respiro, non appena torno ad essere sola con Irma, e cerco il giusto coraggio per poter affrontare con grinta questa giornata.

Appena chiudo gli occhi, però, il volto arrabbiato di Michael mi torna in mente.

«Vado a prendere dei nuovi detersivi» sento dire la mia amica, e annuisco con vigore.

Il volto del mio ragazzo rimane impassibile ed è solo il ritorno alla realtà l'evento in grado di scacciarlo.

Le zampe della piccola bestia si sono trascinate dall'ingresso fino alla cucina, per cui decido di partire da quest'ultima per poter risalire, vista l'assenza di clienti.

Con pazienza seguo quel tracciato, strofinando sul marmo con sempre maggiore forza, e lentamente, con lo scorrere dei minuti, mi avvicino sempre di più all'ingresso.

Penso di non poter resistere a nessun'altra interruzione quando nuove calzature si intromettono tra me e il mio lavoro, degli stivali in pelle con del tacco, ma stavolta rimangono immobili, lasciando alla loro proprietaria forse il compito di poter fissare in pace e immobilità il suo cellulare. Mi accorgo che non è così.

Delle dita gentili si posano sotto il mio mento, sollevandomi il capo, e nell'azione un ciuffo di capelli scivola via dalla stretta compiuta sulla testa, e si frappone tra i miei occhi e la mia nuova interruzione.

Fisso il pesante trucco sugli occhi di Evie e rimango in silenzio, senza lasciar trasparire alcuna emozione.

Lei contraccambia, analizzandomi, però, come farebbe con il malcapitato protagonista di una sua qualsiasi intervista, sempre curiosa e provocatoria.

Scende nell'analisi fino alle mie mani che, a causa del contatto continuo con i prodotti di pulizia e l'acqua, si sono tanto rovinate sulle nocche da far uscire in certi punti persino il sangue. Minuscole gocce che però lei non tocca, lasciandomi in un'allerta tranquilla viso che si limita a far passare il pollice sul dorso della mia mano, accarezzando la mia pelle mentre tiene stretto il palmo nell'altra. Flebili e quasi invisibili carezze che indagano, lo so, la gravità del danno che sono stata la sola a infliggermi. Ho esagerato.

Con un sospiro di sconforto, Evie si alza in piedi, e dal momento che la mia mano destra è ancora tra le sue sono costretta a fare lo stesso. Una volta di fronte l'una all'altra, permetto alla sua analisi di setacciare qualsiasi altro problema mostri il mio corpo anche se, in verità, la ferita più profonda non è visibile sull'epidermide.

«Avanti, seguimi.»

Lascia andare il nostro contatto, e con il suo solito, inconscio, ancheggiare, raggiunge il bottone di chiamata dell'ascensore con lentezza, stretta nella sua gonna marrone in pelle, lunga fino al ginocchio.

Nelle mie scarpe da tennis avanzo, una mano stretta nell'altra, la testa china, quasi intimorita nel mostrarmi affianco a una donna come lei mentre indosso la mia divisa. Non dovrei allontanarmi.

Appena l'ascensore ci raggiunge, volto la testa per verificare che Raimòn non sia nei paraggi ma trovo solo Irma che mi fissa, senza capire. Il manico del secchio pieno d'acqua in una mano, i prodotti per pulire nell'altra.

«Te la riporto subito» le garantisce Evie, prima che possa anche solo pronunciare una parola, e con lo sguardo, poi, si dirige verso me, incentivandomi ad avanzare e lasciare indietro la vergogna.

Una volta sole, l'ansia si dimezza, ma è ancora eccessivo l'imbarazzo che regna visto come ci siamo lasciate l'ultima volta. Con quel mio delirante discorso al ristorante che aveva preceduto la discussione con Michael, meno di dodici ore fa.

Non mi piace sfoggiare il mio dolore e non sono in grado di rispondere a delle specifiche domande. Specie se tanto mirate come quelle di Evie.

Un flebile suono annuncia il nostro arrivo e ci permette di procedere verso la stanza di lei. Osservo la carta passare sul lettore e poi la porta aprirsi, consentendomi l'ingresso.

Di fronte alla purezza di queste tende immacolate mi sento sporca, nei miei abiti da lavoro e nell'anima, inadatta al luogo. Non vorrei attraversare più del dovuto questi suoi spazi privati che sono marcati dalla presenza della sua valigia semiaperta per terra, e dei capi non usati e abbandonati sulla sedia nella scelta mattutina, ma Evie non sente storie e con la testa mi indica il materasso del letto.

Avrei preferito l'orlo della sua vasca da bagno. Per quanto elegante e piena d'accessori, il materiale freddo e grezzo non mi avrebbe cullata quanto le piume d'oca di questo copriletto, che non sento adeguato, che non è mio.

«Avanti, dammi la mano.»

Nella sua sta stringendo un flacone di disinfettate, uno di quelli che dovrebbero eliminare microbi da ferite a rischio di infezioni ed è ricolo usarlo per questi tagli, ma cosa lo è di più? Far finta di non capire che Evie mi sta trattando come un cucciolo ferito e tenti di tranquillizzarmi, prendendosi cura di me, come un genitore farebbe con suo figlio?

Glielo lascio fare. Le permetto di porre quel batuffolo di cotone, impregnato di disinfettate, sui tagli delle mie mani e applicare una leggera pressione, provocandomi del bruciore.

Forse, Evie, mi ha dato solo un fasullo motivo per piangere.

Chiusa in questa stanza d'hotel con lei, nel completo silenzio, vengo smossa da dei piccoli singhiozzi che si tramutano, sempre di più, in un crescente terremoto.

La sua figura, seduta su questa poltrona di fronte alla mia postazione con le gambe separate in una posa di forza e controllo, mi è quasi del tutto invisibile tra le lacrime che mi rendono patetica, tremolante, di fronte alla sua risolutezza.

Consapevole che qualsiasi suo intervento potrebbe essermi dannoso, tace rispettando i miei tempi e a un tratto scuoto la testa, presa dallo sconforto, quando mi accorgo che una volta rotta la diga l'acqua non smette più di fuoriuscire.

Tremando leggermente, sollevo la mano ferita ponendola di piatto sulla bocca, in modo da poter frenare lo spasmo delle labbra mentre fisso lontano la chiarezza delle tende e il celeste del cielo, unico panorama visibile da questa stanza in altezza.

«Che cosa è successo, Katrina?»

«Abbiamo litigato» sussurro, osservando stavolta le ali di una rondine dispiegarsi nere nell'azzurro senza fine, trascinate dai venti. «Non avevamo mai discusso così.»

Senza eccessi di grida. Senza far pace nel giro di poco, riuscendo così la notte a dormire abbracciati.

Le lacrime di adesso sono il dolore che ho provato rimanendo stesa su un fianco nel nostro letto, ed avvertendo il suo corpo lontano, deciso a non congiungersi al mio.

Non so cosa io possa aver sbagliato, credevo di agire per il meglio.

«Che cosa ti ha detto?»

Scuoto leggera la testa, provocando però ugualmente un piccolo capogiro.

«Non... non voglio dirlo di nuovo.»

«Ti ha dato la colpa?»

È così che si può dire? Le ore passate hanno ormai mescolato le frasi, e non riesco più a tornarne a capo.

«Perché me lo chiedi?»

L'espressione di Evie è molto triste, e mai prima d'ora avrei voluto suscitare la sua pena.

Capisco però il perché la sfoggi: devo apparire un esserino ferito, è sempre così. Un piccolo essere che non è stato in grado di difendersi.

«Vorrei solo capire che cosa sia successo, e perché ti trovi a piangere così.»

«È mia la colpa.»

«Ne sei certa?»

«Io... io l'ho spinto ad abbandonare il teatro, è colpa mia!»

«È un uomo adulto. Se avesse voluto avrebbe lottato per la sua passione.»

«No, tu non capisci, l'ho distratto! Io, tutti i miei problemi, non sono stata in grado di tenerli per me, ho cercato aiuto in lui, ho sbagliato.»

«Katrina...»

Il mio sguardo, perso, viene richiamato dal leggero tocco che Evie esercita sul mio avambraccio, per esortarmi a fissarla.

Terrorizzata dalle mie stesse parole e dalla realtà lo faccio, tentando di aggrapparmi alla sua certezza.

«Cosa c'è di sbagliato nel chiedere aiuto? Dimostra quanta forza tu ancora abbia nel confidare in altri. L'unico errore può essere stato il domandarlo alla persona sbagliata.»

La sua frase mi rimbomba dentro e spinge a fare conoscenza con una confusione che non avrei mai, volentieri, accolto, eppure eccola tra noi.

«Avanti, pulcino. Forza.»

Chiudo gli occhi avvertendo qualcosa bruciare e corrodermi allo stesso tempo, più dell'abrasione psicologica provocata da queste medicine, al di sopra dei miei tagli.

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