12- Il silenzio della resistenza
Il destino non avverte mai le persone dei propri piani.
Non comunica un segno. Non rilascia un piccolo gesto. Non preannuncia niente.
Alle volte mi chiedo che cosa avrei fatto, se solo avessi ricevuto una sua piccola avvertenza. Mi sarei comportato diversamente? Avrei perdonato, parlato, accarezzato? Sarei stato un altro?
Magari un uomo migliore, più pacato, più giusto.
Che persona sarei, adesso?
Quello che è certo è che non posso arrivare a scoprirlo, perché le utopie sono sempre migliori alle scomode realtà, a quello che ci viene donato, che ci spetta, ed io sono solo l'uomo che sono.
Ingiusto. Imperfetto. Sfumato. Umano.
Sbagliato, come tutti noi. Come le scelte che non vorremo mai arrivare a ripetere.
Come gli imprevisti, che sono baritonali rumori di tuoni pronti a squarciare la pace di un cielo soleggiato.
Pronti a cadere all'improvviso sulla tua testa, bagnandoti poi con una tempesta di umore grigio, impossibile da togliere dall'anima.
Il buio delle quinte mi circonda. Il nero dei tendaggi attira il mio sguardo mentre, in sottofondo, si sovrappongo voci. Frasi sparse che non riesco a cogliere, lontane, perché rivedo solo il sorriso sereno di Caitlin mentre mangiava poc corn al nostro appuntamento al cinema, la dolcezza della sua bocca, la provocazione, quella... marcata spigliatezza dietro la quale, probabilmente, nascondeva ancora un mondo del quale non voleva rendermi partecipe.
Dove finisco le sue paure e quali sono le effettive conseguenze? Che donna è, Caitlin? E il nostro amore è solo restauratore di un pezzo d'anima andato a male?
Che cosa siamo? Dove possiamo arrivare? Lo possiamo affrontare?
Sono pieno di domande e non ho nessuna risposta da parte delle persone vicine, perché non c'è nessuno qui con me, seduto dietro il muro che fa da limite alla profondità del palcoscenico, in una zona di passaggio priva di luci.
Non è importante. Posso farcela anche da solo, come ho sempre fatto.
Il suono di un messaggio mi avverte della nuova notifica, e sono costretto ad afferrarlo e leggerla per trovare nuovamente il nome di Cat.
Mi soffermo su di lui, fiancheggiato dall'icona verde della posta, prima di digitale sul testo che contiene.
Mi dispiace per come
mi sono comportata.
Deve esserti sembrato
strano.
Non importa, Cat,
sul serio.
Non importa se non riesce a parlarmene. Forse potremmo averne modo, in un futuro prossimo. Scoprire il posto che ci spetta e abitarlo insieme, essere felici un giorno.
Quello che ha passato è semplicemente passato, per quanto ancora si artigli come una iena ai vestiti della sua nuova vita.
Possiamo impedirgli di farlo, ne sono certo.
Vorrei parlartene.
Sono qui.
Per un messaggio o
per un appuntamento,
ci sono sempre.
Non è facile da spiegare.
Riguarda una vecchia storia
che vorrei fosse dimenticata
per sempre.
Rileggo lentamente quelle semplici parole che ospitano il suo mondo, accogliendo nel cuore la consapevolezza che, nonostante tutto, Cat abbia provato ad aprirsi con me. Desidera farlo, dunque è importante il tempo? Non mi interessa di riuscire a battere o meno Marina, perché alla fine sarò io ad avere di più.
L'amore di Caitlin non è scontato, non è banale ed affatto adolescenziale. Contiene molto al suo interno ed io, un giorno, desidero averlo. La strada della calma, quindi, non è affatto scorretta, rimanendo forse la migliore da intraprendere. Lasceremo che sia ancora una volta il destino a condurci verso le mete che desideriamo raggiungere, sforzandoci di rispettare il suo volere come si detesta, e sostiene, al contempo, una divinità più forte di noi.
Saturo di questi pensieri provo a scacciarli via, emettendo un sospiro profondo mentre scorro la schiena lungo la parete e mi alzo nuovamente in piedi, raggiungendo i tendaggi di stoffa che ancora mi permettono di celarmi alla vista degli spettatori. Jeremy è al centro dello spazio e sta recitando un processo di parole, secondo la logica della lettura e della memoria, mentre stringe tra le mani un copione.
Analizzo i suoi gesti con attenzione quando una delle truccatrici si avvicina a me, secondo le leggi mattutine impartite da Miranda riguardanti il loro periodo di prova, pronta ad occuparsi, con fantasia, dei miei lineamenti, risaltando per prima cosa gli occhi. Gentilmente mi chiede di sollevarli, ed ecco che sento la matita nera, minuscolo eyeliner, passare al di sotto delle ciglia inferiori e poi all'interno dell'occhio appesantendomi lo sguardo prima che del colore, semplice fard o della cipria, entrambi mi auguro leggeri, possa fare lo stesso con gli zigomi.
«Così è perfetto» mi avverte. «Sei pronto.»
«Ti ringrazio» rispondo solo, prima di vederla allontanarsi, e nel seguirla con gli occhi scorgo un'ulteriore figura femminile, seduta a me poco distante. Anche lei mi ha notato, e velocemente fa scivolare gli occhi lungo la mia figura, da capo a piedi.
«Hai avuto l'arroganza di spogliarti davanti a un gruppo di giovani donne ed ora sembri un principiante, trepidante nell'entrare in scena. Che cos'è che ti preoccupa?»
Piper è sempre stata molto diretta, ma se devo essere sincero la apprezzo soprattutto per questo, senza considerare la sua costante allegria ed il sorriso dipinto in viso, due condizioni alquanto invidiabili che non si prestano bene alla mia persona.
Oltre a questo, poi, per completare il dolce sapore della sua vita, aggiungendo una ciliegina su quella torta di panna montata, possiede anche l'impagabile capacità di rendere allegri persino gli altri, scacciando via da loro tutti i maligni pensieri.
Nella reincarnazione di una precedente vita sono certo che abbia vestito i panni di una figura magica.
La stessa magia che le permette di starsene china per ora, come adesso, a ricucire uno degli abiti dello spettacolo, tendendo in alto, verso il soffitto di questo posto, il filo sostenuto dall'ago, in modo da fissare così una fila di piccole perle sulla parte centrale del corpetto, in un ricamo perfetto.
«Non ho arroganza, quaggiù.»
«Questo sei il solo a dirlo. Credi veramente di riuscire a spogliarti di tutto, una volta salito su quel piedistallo?»
Sollevo le spalle, contraendo la mia presunzione. «Alle volte mi sento debole, mentre recito.»
«Allora è un bene. Credevo che quella parte di te non esistesse proprio.»
A un simile pensiero rimango qualche secondo fermo, prima di scuotere il capo ed evitare, una volta per tutte, la spontanea battuta che vorrebbe creare a mio discapito. È brava, sì, lo è sempre stata, ma questo non le offre il diritto di analizzarmi gratuitamente, per quanto possa essere in grado di farlo, senza vantarsi al seguito. Forse è la sola a non risaltare questa sua splendida qualità: l'essere riuscita a scalfirmi, più di quanto creda. Aver scheggiato la corazza dell'uomo di ghiaccio e averci spiato all'interno.
Una volta lessi che le persone più allegre, e inclini alle battute, sono anche le più tristi. Non so dire se questo valga anche per Pip ma ci renderebbe senza dubbio anime affini, ed inclini ad indossare un'altra identità, per di non lasciar intravedere lo squallore della nostra.
«Che cosa ti preoccupa, Michael?»
Dalla parte opposta di questa rinata epoca, dove prendono vita i personaggi del dramma, Emily passeggia avanti e indietro, con un copione in mano e mascherata dalle quinte. Le labbra le si separano il tempo necessario per leggere, probabilmente in un sussurro, le battute che le spettano, mentre la domanda di Piper mi riecheggia dentro. Attirata dalla mia attenzione, Emily solleva lo sguardo solo per un'istante, prima di abbassarlo di colpo.
Non so bene che cos'è che mi preoccupa, forse si tratta di un insieme di cose e se c'è una legge che ho imparato, durante questi duri anni di continua fretta, è il non smettere di correre. Non permettere alla propria testa di fermarsi a pensare a quali generi di dolori siano i mostri che ti torturano l'animo, e forse è per questo che mi è tanto utile il teatro. Forse, nell'inconscio, lo considero una specie di esorcismo per ciò che, da solo, non sono in grado di affrontare.
«Non è niente, Pip. Solo un momento. Passerà.»
«Sai che cosa c'è, Michael? Nonostante questi anni esiste una cosa che non hai ancora imparato» nota con disappunto lei, tendendo ancora una volta l'ago verso un punto più alto della propria testa.
«Le assomigli molto, lo sai?»
Piper si morde un labbro, e divertita solleva il capo per liberare la carne dalla presa dei denti, solo nel momento in cui si decide a tornare a parlarmi.
«Miranda non è sul serio mia zia, e di questo ne sei a conoscenza pure tu.»
«Lo so, sì, ma è come se ti avesse cresciuta, non è vero? E tu hai preso molto da lei, forse senza accorgertene, così come lei ha preso da te. Non è niente male. Entrambe lasciate per la strada frasi enigmatiche, aspettando di veder noi dargli un senso.»
«Sarò molto chiara, vuoi starmi a sentire?»
«Sono tutto orecchie.»
«Non sempre è necessario combattere da soli le battaglie. Tu credi che sia giusto così, sei cresciuto pensando che lo fosse e Los Angeles, il tuo traguardo, non ha fatto altro che confermartelo, spingendoti a stressanti turni di lavoro solo per sopravvivere, ma io ti dico che non è sempre vero. Alle volte abbiamo bisogno degli altri, vedi di mettertelo in testa.»
«Perché mi dici questo adesso?»
«Perché non si capisce mai quale sarà il tuo limite di rottura. Tu non parli, non emetti un solo fiato, eppure sono certa che, in questo teatro, non hai finto una sola volta di piangere. Hai sofferto in passato, Michael, nonostante l'arroganza che svetti, quindi capisci quanto bisogno possano avere gli altri di te e tu di loro, così puoi essere certo di non perderti mai. Mi hai capito?»
«Si, Piper, ti ho capito» commento svogliatamente, tornando con gli occhi alla scena ed a Emily che velocemente scompare, tornando ai camerini.
«Sarà meglio. Non sopporto quando fai l'altezzoso.»
«La Miller ti ha detto altro, quando sei tornata all'atelier?»
«Probabilmente vorrà rivedere il tuo fondoschiena liscio come quello di un bambino qualche altra volta ancora, ma gli ho spiegato che si è trattato di un evento più unico che raro. Era per la tua Rose dai rossi capelli, no? Ce ne siamo accorti tutti, compresa la moretta che ha consegnato per prima quel giorno.»
«Non ricordarmelo.»
«Ti scannava con gli occhi, e tu facevi lo stesso.»
«Se solo potessi, pregherei affinché sparisse.»
«Non si può fare nemmeno una cosa del genere, Michael. Seconda lezione. Bisogna imparare a convivere.»
Con questa ultima riflessione si solleva dalla sedia con un sorriso che, divertito, riesco a ricambiare, ed eccola che si incammina lontano con il suo vestito appena finito, lasciando la seduta vuota al mio fianco.
Jeremy sta dando prova della sua abilità recitativa e riesce a recuperare la mia attenzione solo qualche attimo dopo, antecedente al suono di un'ulteriore voce nota, alle mie spalle.
«Perché mi guardavi?»
Lentamente mi volto verso di lei, trovandola confusa, a pochi passi.
«Che cosa intendi, Emily?»
«Ti manco?»
«Come amica, ma certo.»
«A letto ti manco?»
Forse. Se solo ci fossimo trovati sotto le lenzuola adesso, io e lei, avrei potuto lasciar scivolar via dai pensieri i problemi che ora mi circondano, come guardie di scorta.
Sarebbe stato uno sfogo, il mio, come sempre in questi anni, ed adesso non posso più permettermelo perché punto ad altro, con la speranza comunque di non tradire quello che c'è stato tra noi.
«Emily, io non voglio...»
«Se non vuoi allora non mi fissare in quel modo. Mi hai detto che esci con Katrina, che vuoi solo lei, ma non ti credo se ti comporti così. Se mi vuoi, invece, sai dove trovarmi.»
E detto questo, proprio come Piper poco prima, anche Emily gira i tacchi e si allontana, lasciandomi con un masso ancora più pesante sul petto che viene schiacciato, con violenza, dalla presenza di Jeremy, ora di fronte ai miei occhi.
«Allora? Come ti era sembrato l'atto? Come è andata?» Interroga frenetico ed a corto di respiro, nel suo volto truccato e sporcato di pochi brillanti che il faro verde, al nostro fianco e puntato in direzione del palco, non fa che accentuare, rivelando la costellazione giacente sulla sua epidermide.
«Sei stato molto bravo. Te l'ho detto, quel ruolo è tuo.»
«Abbiamo l'inizio della prossima scena insieme. Io devo entrare dalla parte opposta quindi faccio il giro, tu sei pronto?»
Annuisco distrattamente, ricevendo la sua pacca sulla spalla prima di vedergli compiere il giro delle quinte, superando la postazione dove poco prima stazionavo in un confusionale stato.
Passo la mano di fronte agli occhi, donandomi il buio per pochi secondi. Attimi dentro ai quali sono da solo, con il battito del mio cuore.
«Ripartiamo con le battute dei due principi, attori entrate in scena» ci richiama a un certo punto, però, la voce di uno dei ragazzi dello staff, ed io sono costretto a tornare dritto sui miei piedi, fissando Jeremy dall'altra parte. Avanzando con lui non appena muove un piede dopo l'altro.
Arrivati alla meta, a poca distanza l'uno dall'altro, è lui per primo a parlare, dando vita al nostro scambio di battute.
«Ehi, là, fratello Edmondo! In quali profondissimi pensieri ti trovo assorto?»
«Stavo ripensando, fratello, ad un pronostico che ho letto alcuni giorni fa su questi eclissi.» Rispondo alla sua richiesta osservando il cielo, mentre il mio compagno mi ruota intorno con lentezza, studiandomi da altri punti di vista.
«E t'interessa tanto?»
«Sì, gli effetti di cui scrive quel libro si producono, te lo garantisco, e sono veramente disgraziati, come: brutalità innaturali tra padri e figli, morti, carestie, dissoluzione d'antiche amicizie, divisioni all'interno degli Stati, minacce, oltraggi al re, alla nobiltà, sospetti sorti senza fondamento, messa al bando di amici, scioglimento di corpi militari, infedeltà di sposi, ed altro ancora.» Pronuncio a mente, ed ecco lo sguardo luminoso di Jeremy.
Si accorge solo adesso della mia assenza di copione e sembra essere fiero di un simile risultato. Che cosa posso rispondere? Mi sono impegnato. Ho capito che il teatro è la passione che voglio coltivare e che mai e poi mai arriverei ad abbandonare.
Dunque, nonostante i problemi, ecco qui i risultati. Possiamo solo sperare che essi, insieme a una buona immedesimazione, bastino a farmi tenere il mio ruolo. Quello per il quale Miranda mi ha scritturato e che tanto si è ritroso dal lasciarsi indossare, per il rapporto avuto con il padre, ma si tratta di finzione, alla fine di tutto. Nonostante il sentimento e la personificazione, non si tratta della mia vita, e questo mi consente di vestire questi panni ottocenteschi, continuando a duellare a voce con il mio fratello d'arte.
«Eh, da quant'è che ti sei fatto adepto della scienza astrologica?»
«Lascia stare. Su, su, parliamo d'altro. Da quanto tempo non vedi mio padre?»
«Da ieri sera.»
«Vi siete parlati?»
«Per due ore di seguito. Perché? »
«E vi siete lasciati in buona pace? Non hai notato nelle sue parole, nel suo contegno, alcuna ostilità?»
«Neanche l'ombra.»
Parlando di ombre, eccone una che attraversa la sala, con passo veloce, proprio in questo momento. Nonostante la distanza, l'intero teatro è illuminato a giorno, come viene sempre concesso durante le prove, e questo mi porta a riconoscere la figura dell'impiegato del botteghino.
Mai prima d'ora, ragiono, era entrato con tanta fretta alle nostre prove.
Confuso tento di non farci caso, mentre noto la sua camminata farsi sempre più vicina alla postazione di Miranda, tornando quindi a parlare con Jeremy, secondo la recita proseguita nel tempo della mia distrazione.
«Io ti sto consigliando per il meglio, fratello mio. Non ti sarei leale se ti dicessi che per te di fuori tira buon vento. Quello che t'ho detto d'aver visto ed udito sul tuo conto è soltanto un'immagine sbiadita dell'orrore di come stan le cose. Ti prego, pel tuo bene, fila via.»
«Ti farai vivo presto?»
Ecco che l'inserviente è arrivato fino a lei, e si china verso il suo orecchio, per confessarle la novità. Osservo la reazione di Miranda alle sue parole e come temevo si mostra preoccupata e impaurita, prima di correre con gli occhi fino a me.
«In questo sono a tua disposizione.» Rispondo, permettendogli di abbandonare la scena.
Adesso sarebbe il mio momento di parlare, rivelare, grazie alla solitudine, l'inganno tessuto dal mio personaggio, ma resto in attesa di altre parole rivelatrici. Attendo che Miranda si sia alzata in piedi e che mi osservi con amore, quella smisurata cura che sempre ha avuto nei miei confronti prima di poter capire quale è veramente il dramma dentro questa tragedia.
Riesco già a sospettarlo, ma da tempo ho bisogno di fatti per poter arrivare a credere alla vita.
«Michael, si tratta di Brenda, ha chiamato qui a teatro perché tu non rispondevi. Tua madre è stata male, ha dovuto portarla in ospedale.»
Non ho bisogno di altro. Scendo velocemente dal palco i quattro gradini che mi riconducono fino a terra, e da una delle poltrone rosse afferro il giacchetto che avevo abbandonato. Con una mano cerco le chiavi della macchina mentre Miranda, immobile nella sua postazione ed ormai incredibilmente vicina, mi lascia le ultime indicazioni per poterla raggiungere.
«Si trova al Cedars Medical Center, nel reparto di terapia intensiva. Appena terminano le prove vedo di raggiungerti.»
Annuisco velocemente, correndo via da questa sala per giungere alla strada e quindi alla macchina. Una volta al volante recupero il telefono per constatare la presenza di chiamate e lo trovo spento, scarico.
Batto con un pugno contro il cerchio del volante, maledicendo la distrazione avuta, insieme forse a una mancanza di maturità posseduta solo per qualche istante, ma tanto era bastato a rendermi irrintracciabile.
Che sarebbe accaduto se il destino mi avesse riservato un segno? Ancora oggi non lo so per certo, mentre piango amare lacrime su dei fiori secchi, impossibili da riportare in vita.
Compio curve strette accorciando il tempo della tratta e portando lo sterzo a mugolare frasi di protesa, ma non posso prestarci attenzione, mentre il cuore mi batte a mille e la mente è sempre più confusa dagli eventi, ma comunque abbastanza glaciale da evitare di farmi compiere un incidente.
Non posso permettermelo, non ora.
La struttura ospedaliera rileva il suo parcheggio con tanto di ticket, che seleziono con fretta in una processione di piccoli spiccioli, e finalmente riesco a passare l'entrata. Superare veloce i gradini senza chiedere informazioni, perché ormai conosco quel reparto speciale. Non è la prima volta che il suo corpo viene ospitato da uno di questi letti ma è la prima durante la quale non l'ho accompagnata io.
Brenda cammina nervosa fuori dalle porte con finestra ad oblò di quel corridoio riservato, e sono certo che sia la mancanza di parentela a non averle permesso di entrare. Corro fino a lei, afferrandola per le spalle cercando di trasmetterle la giusta calma, nonostante in quella scarica nervosa il mio corpo e la mia mente riversino molto altro. Spero che non lo percepisca, e che quegli occhi spalancati non lo siano a causa dei miei, totalmente terrorizzati.
«Brenda che è successo?»
«Non riusciva a respirare. Le ho passato l'inalatore ma non riusciva, non le bastava.»
Un brivido mi corre lungo la schiena immaginando mia madre stesa in quel suo letto, con le serrande abbassate e il tremolio di un respiro corso a mancarle.
«Quando è stato?»
«Un'ora e mezzo fa. Non riuscivo a contattarti, così mi sono ricordata del teatro.»
«Avete avuto problemi a venire qui?»
«Il vostro vicino ci ha accompagnate.»
Perché Brenda è una donna di quarant'anni, perfetta americana, senza una macchina, o tantomeno una patente, ma nella fretta di una situazione di emergenza la scorta dei taxi si fa sempre, puntualmente, assente, quindi non posso che ringraziare la gentilezza del buon vecchio signor Phil, pronto a farsi gli affari degli altri.
«E perché è in terapia intensiva adesso?»
«Credo... che non ci sia più, hanno dovuto operarla. Il medico ha detto che presto potremmo avere sue notizie.»
A queste parole retrocedo lentamente, allontanando da lei le mani e ricordando quanto poco mi piacciano gli ospedali.
L'aria è sintetica, rarefatta e i pavimenti odorano costantemente di candeggina. I colori sono spenti, su un tono sbiadito di verde che rimbalza in ogni parete, e le sedie d'attesa scomode. Tutte uguali, intrappolano il tuo corpo mettendolo in gabbia.
Ma quello che c'è di peggio... è lo sguardo dei dottori, quell'espressione al di sopra dei camici bianchi con la quale si rivolgono a te, pronti a darti sempre una brutta notizia. Non importa quello che hai potuto immaginarti... perché non ho mai avuto una sorpresa bella da quegli angeli di vita.
Essere imprigionato nel loro mondo fatto di pareti disinfettate, colori pastello, strisce a terra bianche di corsia, sedute scomode e tempi infiniti di attesa, non fa che rendermi ancora di più loro vittima, ma non importa. Stavolta sarà diverso, stavolta potrò uscire tranquillo da questo posto, sapendo cosa fare.
Solo un telefono scarico. Avevo solo il telefono scarico. Sarei stato in grado di accompagnare con più preavviso mia madre dinanzi al dottore, dichiarare tutte le malattie di cui Brenda non è al corrente. Prendermi cura di lei e tenerle la mano, perché non mi nega mai la mano non appena entriamo all'ospedale.
Anche mia madre ha paura di questo posto, probabilmente dai tempi in cui le cure costavano troppo ma la mia poca attenzione le rendevano necessarie. Un braccio rotto, una caviglia slogata e alcuni punti di quando mi sono preso a botte con i ragazzi del quartiere.
Ospito il ricordo di quei colpi da sempre e il tempo non mi ha impedito di dimenticarli, ed ora dopo anni di questa nuova vita posso essere fiero di avere, come sola preoccupazione, la sua salute, il meglio per lei... ma il meglio può non essere abbastanza? A che età si deve curare un male e per quanti anni lo si può dimenticare?
I nostri corpi non hanno mai ricevuto le dovute attenzioni che meritavano, mentre ci sentivamo malati solo nell'anima. Qualcuno è riuscito a chiudere gli occhi sulle nostre mancanze? Quelle colpevolezze ormai irrimediabili e perse, con cui continuiamo a rovinarci irrimediabilmente, sempre.
La risposta arriva dopo due lunghe ore, e mi basta sollevare la testa per ottenere, tramite il viso di questo portatore di sventura, la risposta.
No. No non è bastato.
«Michael Flint, il figlio?»
«Sì, sono io» e sono pronto a qualsiasi cosa, perché ormai credo di essermi abbastanza abituato a questi colpi inferti all'anima. Il corpo ha le sue cicatrici ma la corazza imprigiona la debolezza, permettendomi di batterla.
«Mi dispiace, abbiamo dovuto operarla, ma... purtroppo non ce l'ha fatta.»
«Che cosa è stato?»
Forse lo sconvolge la mia freddezza, ma non dovrebbe stupirsi tanto, sono in grado di sopportarlo.
Posso farlo.
«Un'insufficienza respiratoria ipercapnica. Sua madre soffriva d'asma, ha preso troppi barbiturici e i muscoli respiratori si sono indeboliti, portando a danni collaterali anche il sistema nervoso periferico.»
«Quindi ha ingerito troppe pillole medicinali, è questo che vuole dirmi?»
Il dottore si fa triste condottiero di una notizia che non desidero accettare, che non voglio rendere mia.
«Sua madre soffriva di molte patologie, oltre all'asma, purtroppo, ed ormai era debole. Dei sintomi come la stanchezza, la tachicardia, la sudorazione o il respiro affannoso devono essersi già rivelati in passato, ed erano portavoce di questa sfortunata piega d'eventi. Così come la colorazione blu della cute.»
Ma mia madre non si lasciava toccare, e visto il mio distacco ecco che anche questo prete in bianco, portatore dell'evangelico tomo dell'anatomia, si è messo ad elencare termini più specifici di una condizione che, riesce a dirmi, non sono stato in grado di considerare grave.
Ed è così, infatti. Non sono mai stato in casa, per gli studi o per tirare avanti quel lavoro che mi appassiona ma che mi consente solo di pagare una donna quarantenne, senza lavoro, in modo che badi a mia madre, nonostante l'abisso di dimenticanza corso a separarla per sempre dai suoi anni da infermiera.
Ed ora mia madre è morta.
La colpa della sua fine è anche mia.
Sento la corazza contente la mia fragilità sgretolarsi appena, lasciando cadere dentro di me briciole di polvere, ed è incredibile quanto un'azione così minuscola sia in grado di essere vista, o sentita, o percepita, perché nuovamente l'uomo che veste il camice cambia approccio, rivelando la gentilezza che un essere umano solitamente riserva a un altro.
«Può venire a vederla, se vuole. La conduco alla sua stanza»
Lascio che lo faccia. Gli permetto di indicarmi il feretro dove riposa il corpo di mia madre e di condurmi fino a lui.
La sala chirurgia, più di tutte le altre, odora di disinfettante, ma a dispetto dell'intero edificio qui regna sovrana un'altra, odiosa, caratteristica: il silenzio dato dalla morte, il filo troncato di quella vita ormai spezzata. Non c'è la speranza della corsa frenetica in scarpe di gomma, né il sorriso riservato ai parenti in attesa o chiunque altro. Qui tutto finisce, tra oggetti operatori affilati, puliti dal sangue per risultare, nella loro crudeltà, presentabili, ed una barella con le rotelle ad ospitare un corpo nudo, nascosto sotto un leggero lenzuolo di carta.
Il suo viso però non è mai stato tanto rilassato e bello,'in questi anni. Da dietro una confusione di emozioni riesco a vederlo, a notare come le rughe sul viso di mia madre si siano per sempre distese mostrando la sua smarrita serenità e il suo ricordo giovanile, che ormai credevo di avere perso.
Allungo una mano e la sfioro, lasciandole una dolce carezza su una guancia senza ricevere la cattiveria del suo rifiuto.
Non abbiamo mai parlato abbastanza, io e lei, ma quello che non ci siamo detti bastava ed era compreso da entrambi. Ci volevamo bene e tanto bastava. Nessuna confessione strappalacrime o un abbraccio. Semplice distacco che mi ha forgiato come il fuoco fa con l'acciaio, nel suo rude addestramento di raffinatezza e crescita. E non mi serviva nient'altro, mi bastava lei per poter stare bene.
Odo appena la lenta retrocessione di passi del medico operante, ma l'arresto prima che si allontani per sempre.
«Non importa che se ne vada» sussurro, scorrendo ancora le falangi lungo la guancia destra del suo viso freddo e bianco.
«Non vuole che vi lasci soli?»
«No, non importa. Ho finito, possiamo andare» ammetto, fissandola per l'ultima volta in viso, certo che sia questo addio pieno di tatto il suo ultimo desiderio, ed ecco che mi volto in direzione di un uomo che è sempre più sorpreso e impaurito da una simile reazione.
Non ne comprendo il motivo. Questa lontananza è normale, da sempre convivo con la distanza. Non dovrebbe farne un dramma, adesso, che ha allontanato per sempre l'alto capo della corda.
«Immagino ci siano delle carte da firmare.»
Lo faccio notare al fine di uscire una volta per tutte da questo ospedale, e il dottore non si ritira da un simile impiego.
Poco dopo, con una penna in mano, lascio la mia firma su delle certificazioni che attestano la sua morte, mentre mi chiedo se è la burocrazia l'agonia della morte stessa.
Finalmente poi sono libero di andarmene, ringraziare Berta proponendole un passaggio verso casa e lasciarla alla porta, piena di sconcerto, garantendole che, in qualche modo, potrà tornare a fare il lavoro per cui è destinata. Sfortunatamente non più sotto la mia custodia.
La meta successiva è il raggiungimento della mia casa. Supero la soglia dell'ingresso e precipito nel buio interno alle nostre piccole stanze, ed eccolo di nuovo, questo insopportabile silenzio che tanto detesto.
Chiudo gli occhi vivendo appieno quel dolore che trasmette, andandogli incontro, avanzando verso la mia stanza. Là dentro mi appoggio a una parete e serro per sempre le palpebre, lasciando che sia questa mancanza di luce a vestirmi di un nero lutto, questo silenzio, la solitudine dalla quale sono tornato a stare per il resto dei miei giorni.
Prendo un profondo respiro ma l'aria viene a mancare molto presto, facendomi sentire ridicolo, improvvisamente resomi conto della mia situazione, in un angolo sperduto della casa.
Una risata si crea dal fondo della mia gola, ma anche questa volta, così come per il respiro, persino lei termina molto presto.
Improvvisamente mi sento svuotato, privo di forze, e la posizione scomoda mi porta ad afferrare il mazzo di chiavi e quel qualcosa che mi disturba, da dentro la tasca.
Afferro il cellulare ed ecco che la risata torna, nervosa mentre fissa lo schermo nero del telefono, accentuandosi ancora più forte quando lo lancio contro la parete, sentendo il suo frastuono rimbombare solo per qualche attimo dentro casa.
Passo una mano sugli occhi, sbaffando il trucco rimasto.
Una situazione così divertente, e allo stesso tempo così patetica.
Posso resistere anche stavolta, posso farcela?
Devo provare a non crollare, pensare che non sia stato mio l'errore, cercare di resistere, tenere alta l'armatura e dritto, in direzione della sua camera aperta, il mio sguardo, così da non crollare per sempre.
Posso riuscirci, sì, ma a che prezzo? Lascio che sia la vita a stipulare il listino, mentre tengo la bocca cucita e il cuore serrato, nel vano tentativo di tenermi vivo, ancora per un po'.
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