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Parte 34 - Rinvio a giudizio

La pistola era adagiata sul tavolo di fianco alla stampante.

Il suo colore era nero come la sua anima.

«Tutto ciò che volevo era solo esser felice», sussurrò Cobra tra i denti, conscio che la felicità era ormai un sogno irrealizzabile. La sua vita, avvolta da un vuoto senza vibrazioni, aveva perso ogni significato e con il passare del tempo era svanita anche la speranza, sostituita da un'oscurità pervasiva che ne offuscava ogni traccia.

Guardò la pistola, riflettendo sul suo destino incerto. A ogni passo che faceva, l'abbraccio con l'ignoto era sempre più stretto. Era sicuro che quel piccolo oggetto era la risposta a tutte le sue sofferenze, il mezzo per porre fine a quel tormento che lo affliggeva nel profondo.

Quando le munizioni arrivarono, Cobra era pronto ad attuare la sua vendetta. Aveva tutto ciò di cui aveva bisogno. Con le mani tremanti, scartò un proiettile e lo inserì con cura nel caricatore della pistola. Poi la afferrò saldamente e si mise di fronte allo specchio. Fingendo di prendere la mira e di premere il grilletto osservò il suo riflesso farsi minaccioso e sinistro. «Bene! Ci siamo», si disse.

Tuttavia, qualcosa mancava: l'esperienza. Prima di allora non aveva mai sparato e non era certo che quell'arma di plastica sarebbe stata efficace come ipotizzato. Realizzò che non poteva permettersi di agire senza un minimo di preparazione.

«Devo provarla almeno una volta. Capire cosa vuol dire sparare», convenne con cinico determinismo.

Senza perdersi d'animo nascose la pistola nello zaino e uscì di casa, andando alla ricerca di un posto che si prestasse come poligono di tiro.

In passato, durante le sue camminate, si era spinto fino ad alcuni capannoni abbandonati fuori dal centro. La maggior parte erano vecchi impianti industriali ormai in disuso che aspettavano solamente di essere abbattuti. Pensò che uno di questi potesse essere adatto per i suoi scopi.

Dopo una lunga scarpinata lasciò i marciapiedi eleganti del centro città e si avviò lungo strade strette e trascurate raggiungendo la periferia. La zona era punteggiata da alberi e arbusti selvatici. La vegetazione, non più curata, era lentamente tornata a riprendersi tutti gli spazi un tempo pieni di vita e di gente che lavorava. Si guardò attorno e avanzò con cautela. Il capannone adocchiato era nascosto dietro a un'alta recinzione in mattoni rossi, in alcuni punti crollata.

Un brivido gli corse lungo la schiena. Era consapevole che quello che stava per fare era illegale, ma la sua determinazione era tale che non gli importava. Nel silenzio che lo circondava udì solo il fruscio delle fronde mosse dal vento e il rombo di qualche auto lontana. Dopo aver esplorato i dintorni si avvicinò a una sezione di muro crollato, guardò all'interno e non scorse nessuno. Fece una veloce ricognizione e poi, senza farsi notare, la oltrepassò. Si trovò in uno spiazzale vuoto e consumato. Notò che il tempo aveva lasciato cicatrici profonde sull'edificio. Quello che restava era un luogo spettrale. Le finestre erano in frantumi, la struttura in cemento erosa e con i ferri arrugginiti che fuoriuscivano dai pilastri. Il tetto, un tempo robusto, aveva ceduto lasciando che l'acqua penetrasse all'interno.

Superato lo spiazzò, si avvicinò a una porta laterale. La serratura era già stata forzata. Con una spallata la spinse in avanti. Il portoncino lentamente si aprì grattando sul pavimento con uno strascico che sapeva di ruggine.

Non era il primo ad avventurarsi all'interno, notò che vi erano tracce di altri passaggi. Quando fu dentro appurò che non c'era nessuno. «Qualcuno c'è stato, ma non di recente», sibilò.

Nel silenzio assoluto la polvere copriva ogni cosa. Detriti e spazzatura erano sparsi in ogni dove. Le pareti, degradate e logore, erano ricoperte di graffiti e murales. In un angolo vi erano materassi, cartoni, bottiglie e lattine vuote.

«Nessun segno di vita. Sono il solo qua dentro», mormorò a bassa voce.

Poggiò la sacca con la pistola sul pavimento e iniziò a preparare un poligono improvvisato. Recuperò da terra alcune lattine e le sistemò come bersagli su un ripiano che sembrava la rimanenza di una vecchia catena di montaggio. Poi estrasse la pistola dallo zaino e quindi i proiettili. Uno lo mise nella canna.

Era pronto.

Il sole calando all'orizzonte, creava un'atmosfera lugubre e surreale. La luce che filtrava dalle finestre coperte di sporcizia era sfumata e rossastra.

Nella mano Cobra stringeva la pistola.

Un'ondata di adrenalina lo invase. L'esperienza era straniante e il cuore gli batteva forte. Fece un respiro profondo, allontanò la pistola dal corpo e quindi - con decisione - tirò a sé il grilletto. Il rumore improvviso e assordante dello sparo lo fece sobbalzare all'indietro. L'eco rimbalzò su tutte le pareti. All'istante la lattina davanti a sé saltò in aria.

Il bersaglio era stato colpito.

Si riprese dallo shock subìto, cercò la lattina e vide che al centro c'era un piccolo foro che l'attraversava da una parte all'altra. In quel momento realizzò il potere dell'arma che aveva in mano. «Ottimo!», valutò freddamente.

Non pago, caricò un altro proiettile e fece fuoco contro un secondo bersaglio. Lo sparo, più devastante del primo, squarciò la lattina in mille pezzi.

La prova aveva avuto successo.

La pistola era valida.

Raccolse con cura le sue cose e tornò a casa.

Al rientro trovò sul telefono due chiamate perse e un messaggio vocale. Era il suo avvocato: «Cobra sto lavorando al tuo caso. Il pubblico ministero ha terminato la fase delle indagini preliminari e ci ha messo sotto pressione. L'accusa ha fatto richiesta di rinvio a giudizio. Ti aggiorno».

Cobra sentì il cuore battere forte nel petto. La richiesta di rinvio a giudizio era una notizia che aveva temuto per mesi. Si lasciò cadere sulla poltrona, cercando di calmare la mente.

Dopo un momento di riflessione, prese il telefono e chiamò immediatamente l'avvocato. Aveva bisogno di chiarimenti, di comprendere appieno la situazione e di conoscere le opzioni a sua disposizione. La chiamata sembrò durare un'eternità, ma infine il legale rispose.

«Avvocato, sono Martinetti. Ho appena ascoltato il suo messaggio. Cosa sta succedendo esattamente?», chiese Cobra con voce ansiosa.

L'avvocato rispose con calma, cercando di tranquillizzarlo: «La richiesta di rinvio a giudizio significa che il pubblico ministero ritiene di avere abbastanza prove per portare il caso in tribunale. Tuttavia, non significa che siamo senza speranza. Il giudice deve ancora valutare le prove raccolte e la nostra difesa. Serve pazienza».

Cobra strinse i denti, chiuse la telefonata e con sdegno lanciò, come suo solito, il telefono sul divano facendo seguire un profluvio di bestemmie.

Fissando la pistola sul tavolo sbottò tetro: «Te lo do io il rinvio a giudizio!».

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