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Cap. 10

Selene's pov

D'istinto i miei occhi si spalancarono, come la mia bocca e quando mi accorsi che tutti intorno alla tavola mi guardavano, corsi, corsi più veloce di quanto pensavo fossi capace.

Non sapevo dove mi trovavo, sentivo solo un grande dolore al petto, non se ne andava, era lì, pronto ad opprimere tutto, le mie emozioni mi sovrastavano, ero come all'inizio, quando mio padre decise di andare via e mia madre impazzì, ero sola.

Hanna, Hanna, la mia migliore amica, la mia besty friendy, la mia luce, potrei sembrare esagerata a descrivere la mia migliore amica così e non il mio fidanzato, ma Hanna era così, mi aiutava nei momenti difficili, c'era sempre, in qualsiasi momento.

L'importante era che Hanna c'era e per sempre, mentre un fidanzato sì, in quel momento c'era, ma poi? I soliti litigi, parole mai dette che vengono fuori, mentre l'amicizia non ci sono segreti e nemmeno tradimenti.

Ora però Hanna non c'era più e io non riuscivo nemmeno a versare una lacrima, mi sentivo così stupida a non riuscire a urlare o piangere, ma era come se le lacrime si versassero dentro e non fuori, come se il dolore che avevo dentro non riuscisse a uscire fuori.

Damon? Anche lui era, come Hanna, un punto di riferimento, una punta di lucentezza nel buio del mio cuore, che ora era più buio di una notte senza luna, probabilmente sembravo un po' troppo drammatica, perché c'erano state persone che avevano passato di peggio, ma vedere mia madre ridotta ad uno straccio per colpa di mio padre e poi perdere i miei unici veri amici, non sapevo spiegarlo.

È un colpo al cuore, un mostro da cui non si può scappare, ma solo affrontarlo.

Sentii finalmente delle gocce scivolare calde attraversare il mio viso e mi accorsi di essere su un balcone, c'era una vista mozzafiato, era davvero stupenda, in lontananza si ergeva la luna, così bella e irraggiungibile.

Una leggera brezza mi accarezzava delicatamente il viso e il collo, come una madre accarezza la propria figlia, il mare intonava una canzone sconosciuta e magica, da cui era impossibile sfuggire, quel panorama, anche se di poco, mi confortava, persino nel buio più assoluto esisteva la bellezza.

Due braccia possenti mi abbracciarono da dietro e la mia schiena entrò in contatto con un petto, chiaramente maschile, sentendo provenire da esso una sensazione di protezione e in quel momento mi accorsi dell'immento bisogno di un abbaraccio dato da un amico.

<mi dispiace>

Erawet, uno sconosciuto, però così famigliare e in più sembrava una persona di cui ci si poteva fidare, ma allo stesso tempo così misterioso e nascondeva qualcosa, ne ero sicura, per sfortuna non ero così vicina a lui per chiederglielo.

<ma...tu come hai fatto a riconoscere i volti di... di... dei miei amici?>

Sentii il suo sospiro pesante e caldo sul collo, era come un posto in cui proteggersi, una casa, quelle braccia mi sembravano delle torri, delle torri dove era possibile proteggersi dal nemico, al quale era impossibile l'accesso.

Forse era per questo che lo chiamavano torre, perché lui, come la torre di un castello, ti garantiva protezione.

<Non ricordi? Ho frugato nei tuoi sogni con quei strani macchinari, come li chiami tu, li ho visti lì i tuoi amici>

Riportai la mia attenzione alla luna, lei, silenziosa come sempre, era la mia via di fuga da tutti i pensieri, potevo stare ore a guardarla senza mai stancarmi.

Poi all'improvviso una lucina rossa catturò la mia attenzione, sembrava una torcia, piano piano che si avvicinava vidi degli uomini dietro di loro.

<Erawet? Che fanno quelli laggiù?>

Erawet voltò di scatto la testa verso il punto da me indicato e iniziò ad urlare mettendo in guardia tutto l'edificio, poi si rivolse a me dicendo:

<vai nelle tue stanze, noi ci occuperemo di loro>

<ma...>

<niente ma Selene! Potrebbe essere pericoloso! Domani se hai delle domande ti risponderò volentieri, ma ora vai>

Miriam apparve alla porta con una faccia a dir poco sconvolta, mi prese per il braccio e mi portò in camera.

La notte era passata lenta, tra grida di dolore e di vittoria, sembrava quasi un film, solo che la differenza era che era reale.

Non ero riuscita a chiudere occhio, rimuginando sull'identità di quelle persone che ci avevano attaccate, e sperando che tutti uscissero indenni da quella situazione strana e da quella specie di battaglia.

Nel bel mezzo della notte avevo sentito Miriam e Erawet parlare, dicevano che era tutto risolto, da quel momento non sentii più nulla, solo un silenzio innaturale, che mi faceva solo pensare.

Quando ero a casa mia, c'era tanto rumore che era impossibile pensare, era così che riuscivo a dormire, mi concentravo su uno di quei rumori e mi addormentavo.

Però lì, non c'era nessun rumore che riusciva a distrarmi quel tempo per dormire, quindi ripensai ai miei amici, a mio padre, a mia madre.

Dopo qualche ora decisi di andare a farmi un giro per quella struttura meravigliosa e immensa.

Dopo aver aperto diverse porte e girato vari angoli, trovai la cucina, presi un bicchiere e lo riempii con l'acqua della cannella, il tutto sembrava fossi una macchina, senza sentimenti, senza emozioni.

La verità era che ancora mi sentivo un nodo alla gola, mi bloccava le parole, bloccava il cibo che volevo ingerire, ma non potevo, non riuscivo o forse non volevo.

Sentii l'acqua fresca scorrermi dentro il corpo, lungo il nodo alla gola, ma quello non si scioglieva, buttai giù tutta l'acqua che potevo, ma quello rimaneva.

Un rumore di passi si fece strada nel silenzio della stanza e un uomo dal volto coperto dal cappuccio spuntò dalla porta.

<anche tu non dormi?>

L'uomo aveva una voce familiare, ma non ci feci caso.

<no>

<ho saputo dei tuoi amici, mi dispiace>

Sussultai, certo volavano veloci le notizie lì eh?

<e tu come fai a sapere che sono io quella che ha perso gli amici?>

<qui tutti conoscono tutti e quando ti ho visto, ho capito che eri la straniera, se posso chiedere che ci facevi in mezzo al mare?>

Lo guardai diffidente, ma decisi di dirgli lo stesso quello che voleva, tanto lo avrebbe scoperto comunque.

<ero alla ricerca di un isola, a pensarci mi sento molto stupida ad averlo fatto, perché, vedi... L'isola è descritta in un libro>

Socchiusi gli occhi e sospirai fortemente, nel frattempo mi accorsi del respiro velocizzato dell'uomo e chiesi:

<stai bene?>

Lui si ricompose e con una voce bassa e roca, che faceva interpretare fosse un uomo sulla cinquantina, rispose:

<si si, senti... come ti chiami?>

<mmm... Selene, tu?>

Il respiro questa volta gli si mozzo e in quel momento non poterlo vedere in faccia era una tortura.

<mi chiamo Ivan>

Pensai che fosse lo stesso nome di mio padre, ma era impossibile che fosse lui, mio padre era...

<tu...>

<si vede che non sono l'unico a non riuscire a dormire>

Erawet apparve dalla porta da dove ero entrata poco prima, questo ragazzo alcune volte sembrava uno stalker.

Decisi che probabilmente era meglio se andavo a dormire, magari era la volta buona che sprofondavo tra le braccia di Morfeo, come dicono sempre nei libri.

Detti la buonanotte ai due ragazzi e mi diressi verso la mia stanza, ma anche una volta lì la mia mente non mi dava spazio nemmeno per riposarmi.

I giorni seguenti all'incontro di quell'uomo tanto familiare furono molto monotoni, mangiavo poco, dormivo poco e evitavo tutti; sempre più magra, sempre più occhiaie.

I momenti in cui riuscivo a staccare la spina dalla monotonia era quando uscivo a prendere una boccata d'aria, quell'edificio era diventata sempre più soffocante, una prigione.

Questa sensazione ce l'avevo, ma ancora non sapevo che presto sarebbe diventata veramente una prigione.





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