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6 - 🌸Come trovare un avvocato🌸 (pt.1)

Si poteva denunciare qualcuno con l'accusa di essere troppo bello per lavorare per mio padre? Probabilmente no, ma se avessi fatto io le leggi, sicuramente sì.

Pulii una chiazza d'uovo giallognola dal tavolo e gettai la carta assorbente nel cestino con una schiacciata degna di una pallavolista.

Voltandomi, posai gli occhi sull'angolo tra cucina e soggiorno e qualcosa nel mio stomaco si contorse nel rivivere ciò che era accaduto un paio d'ore prima.

Mio padre mi aveva fatto causa, voleva portarmi in tribunale e io avevo - per un brevissimo istante - flirtato con il suo avvocato.

Mi girai di scatto dall'altra parte. Mi serviva trovare un bravo avvocato, non flirtare con un bravo avvocato. Maledizione.

Guardai dentro il forno a microonde, dove il piatto con i fagioli e ciò che era rimasto dell'uovo esploso giacevano inerti.

Infilai dentro una mano con lentezza, afferrai il piatto, lo tirai fuori e, come fosse materiale radioattivo, lo poggiai nel lavandino.

Non esplose nulla.

Ottimo.

Come potevo aver flirtato con quello? Probabilmente un anno di astinenza aveva compromesso le mie facoltà mentali e la sua bella presenza mi aveva dato il colpo di grazia.

La mia era stata una debolezza carnale, un piccolo inciampo di quelli che avevano le persone dotate d'occhi davanti a un pezzo d'uomo di prima qualità.

Era stato stupido, ma comprensibile.

Mi sedetti al tavolo di legno tinto di bianco della cucina e, allungandomi, recuperai il portatile dal lato opposto. Scacciai con l'indice un pezzo di tuorlo che era arrivato pure lì e lo aprii. Non avevo ancora avuto il coraggio di collegarlo alla rete internet del cellulare, per paura di finire i miei preziosissimi gigabyte, ma ormai le circostanze lo richiedevano. Avviai due ricerche web.

Come pulire l'uovo incrostato dal forno a microonde.

Come trovare un avvocato.

Il fatto che il primo risultato della prima ricerca fosse un tutorial su come sbucciare facilmente le uova bollite mi fece un po' ridere ma anche un po' piangere, così passai alla seconda.

La pagina di WikiHow mi si stagliò davanti con un'aura divina tutt'intorno. Quando non si aveva idea di dove sbattere la testa, non c'era nulla di meglio di un tutorial.

Diedi all'articolo una scorsa e tanto mi bastò a farmi rendere conto di che razza di casino avessi combinato: le questioni legali erano qualcosa di troppo complesso, per non parlare del fatto che, nonostante fossi nata a Los Angeles - un capriccio di mia madre - e avessi la doppia cittadinanza, ero comunque in un paese straniero.

Sapevo meno di zero su come approcciarmi al problema.

E poi c'era la questione soldi: non mi mancavano al momento ma, tra utenze e riparazioni varie, prima o poi pure il mezzo milione della nonna sarebbe finito.

Nel panico, lanciai un'occhiata al mio cellulare: non c'erano notifiche. Lucia doveva star lavorando.

Il mio messaggio che recitava "Aiuto" con sette O e dieci righe di emoji in lacrime lo avrebbe letto forse a fine giornata.

Chiusi il portatile, ci poggiai la testa sopra. «Che cacchio faccio?»

Probabilmente avrei dovuto procedere come suggeriva il tutorial: informarmi su tutti gli avvocati disponibili in zona e passarli uno per uno, fino a trovare il migliore. «Ma prima devo pulire la cucina.»

***

Per scrostare l'uovo mi ci vollero mezz'ora e cinque siti per casalinghi disperati.

Alla fine i pensili erano tornati del loro color crema, le piastrelle celesti del pavimento e del paraschizzi brillavano, l'aria profumava di pulito, il pranzo era in tavola e le mie mani avevano ancora tutte le dita.

Casa: sei; Chiara: quattro.

Stavo recuperando.

Mi sedetti per pranzare e intanto scorsi il mio profilo Instagram, The.Fabric.Palace.

Mi seguivano poco più di cinquemila persone, ma erano tutte molto attive e affezionate ai miei lavori, tanto che riuscivo a guadagnare qualcosa vendendo magliette dalle grafiche improbabili e i modelli cartacei delle mie creazioni.

Siccome pubblicavo sotto pseudonimo e in inglese, solo un paio attentissimo dei miei followers aveva indovinato chi fossi e la voce non si era ancora sparsa.

Avevo pubblicato la sera prima un reel in cui annunciavo il mio trasferimento in Minnesota e la mia fanbase statunitense stava impazzendo nei commenti, riempiendomi di cuoricini e di frasi di benvenuto.

Mi venne da sorridere. Almeno c'era qualcuno che apprezzava la mia presenza da quelle parti.

Chissà, magari fare una serie di video sulla mia nuova vita mi avrebbe portato un po' di pubblico. La casetta della nonna era un tripudio color pastello di mobili in stile cottage core: perfetta per la telecamera.

Mentre riflettevo sui prossimi contenuti da pubblicare, il mio sguardo scivolò su una delle sedie. Lì, non sapevo neppure io come, era finita stropicciata la lettera di diffida.

Di colpo, un pensiero impulsivo mi colse alla sprovvista.

I miei pollici scivolarono per sbaglio sulla barra di ricerca del social e altrettanto per sbaglio digitarono il nome e cognome dell'avvocato.

Niente.

Cercai "Studio legale Mason" e finalmente apparve una pagina. Mi ci fiondai curiosa, spulciando tra le decine di post con consigli legali e aggiornamenti sugli orari.

Aprii la prima foto di gruppo che mi capitò, iniziando subito ad analizzare i volti sorridenti. Il tutto ovviamente per sbaglio.

Non faticai per nulla a trovare l'avvocato, perché svettava alto al centro, fianco a fianco con un uomo sui sessanta che sembrava in posa più per una foto segnaletica che per uno scatto di gruppo.

Zoomai con le dita, giusto per assicurarmi che quello che avevo adocchiato fosse davvero l'avvocato e non certo per controllare da vicino se quelli fossero muscoli o solo la camicia stretta.

Aveva uno sguardo sereno, compiaciuto, e il suo volto dimostrava qualche anno in meno rispetto a quello che conoscevo. Mi bastò lasciar andare lo zoom per fugare i miei dubbi; l'immagine era datata a tre anni fa e la descrizione recitava: "Benvenuto nel team, Alexander!"

Ovviamente lui non era taggato. Il signor-statua-di-gesso non aveva i social. O magari era solo su Facebook e Linkedin, come tutte le persone noiose della sua età. Nel dubbio controllai, ma trovai solo sul secondo una pagina ridotta in condizioni pietose.

Quello che feci dopo, ignorando la vocina nella mia testa che mi ricordava quanto fossi disagiata, sarebbe stato degno dell'intelligence americana.

Aprii il motore di ricerca e cercai quanti anni ci volessero per diventare avvocato negli Stati Uniti, sommai il risultato all'età in cui si iniziava l'università e ai tre anni della foto; un veloce confronto con il profilo Linkedin per sicurezza e...

«Ha trent'anni», conclusi.

Quattro più di me. Che potevano scendere a tre e qualcosa in base al mese in cui era nato.

Fattibile.

Nel senso che non era così tanto più maturo.

Potevo anche avere una speranza.

In tribunale, si capiva.

Saziata la mia curiosità e anche il mio stomaco, mi diressi nel vecchio studio di mia nonna, riconvertito in laboratorio. Mi ero presa fin troppi giorni di pausa e avevo bisogno di pensare ad altro.

Nonostante fosse di dimensioni modeste, lo studio era la mia stanza preferita.

Le due pareti laterali erano ricoperte da librerie tinte di bianco, piene di romanzi colorati; sul lato opposto alla porta si apriva una grande finestra sporgente verso l'esterno, con una panca rivestita di cuscini ricamati a fiori e lucine natalizie che pendevano dall'alto.

La prima notte, non riuscendo a dormire, l'avevo trascorsa lì: avvolta dalla luce soffusa e con lo sguardo perso oltre il vetro, nel profondo del boschetto.

La mattina seguente avevo trascinato la macchina da cucire dal salotto a lì e fatto spazio per tutte le mie cose.

Avevo pure accroccato un manichino storto, sul quale ora stava appuntato il mio ultimo progetto: l'inizio di un abito per l'Homecoming di una ragazza della Pennsylvania.

Mi ci avvicinai, carezzando la stoffa con una mano.

Era lungo, delicato, color lilla, con decorazioni floreali che partivano dal corpetto a cuore e scendevano lungo la gonna in tulle.

Quel progetto incarnava tutto ciò che adoravo nella creazione sartoriale: la possibilità di far sentire chiunque, con un semplice abito, il vero protagonista della propria storia.

Non m'importava di quanti soldi guadagnassi, quello che volevo era donare agli altri, attraverso le mie creazioni, qualche ora di gioia e ricordi da conservare per sempre.

Questo era ciò che mi faceva sentire viva, che mi dava uno scopo, non chiudermi in un ufficio a fare contabilità.

Mio padre non l'avrebbe mai capito.

Acciuffai forbici, spilli e metro da sarta e ricominciai a lavorare.

Quella ragazza mi aveva pregata di farla sentire una principessa e io l'avrei trasformata in una principessa.

Sarei stata la sua fata madrina: anche se senza bacchetta e con qualche anno in meno, avrei realizzato il suo sogno.

***

Un paio d'ore dopo, postai una foto dei miei progressi e per sicurezza ne inviai una pure alla mia cliente.

Lei, come sempre, rispose con decine di cuori, aggiungendo anche che era felice di sapere del mio trasferimento e che un giorno mi avrebbe volentieri portata a conoscere la sua città.

Magari un pensierino ce lo avrei fatto, ma solo una volta risolta la questione con mio padre.

Non feci in tempo a poggiare il cellulare che il trillo di una notifica me lo fece riprendere in mano.

Era un'e-mail.

Rilessi la mail un paio di volte. «Merita un'occasione solo per il tempismo», borbottai.

Scaricai il Curriculum Vitae della sconosciuta e quello mi si strotolò davanti con la stessa veemenza di un rotolone regina: non finiva mai.

Riuscii contare due lauree, una in giurisprudenza e l'altra in scienze politiche, un master e un PhD, tutti conseguiti presso la Southwest Minnesota State University.

Le sue referenze vedevano la bellezza di cinque diversi studi legali - ognuno dei quali si dichiarava estremamente dispiaciuto di aver perso la collaborazione della signorina Bates - e, forse per impressionarmi, una lista con decine di casi vinti.

Arrivate in fondo, io e la mia misera laurea in Economia e Commercio avevamo gli occhi fuori dalle orbite e un piede sull'orlo di una rupe.

Come un automa, copiai il numero di telefono dell'avvocata, lo incollai sul tastierino numerico e feci partire la chiamata.

"Studio legale di Camille Bates, posso esserle utile?" Mi rispose la voce gioviale di un ragazzo.

«Salve. Mi chiamo Chiara Verri, ho ricevuto un'e-mail da...»

"Uh, sì! Sì, sì. La fermo subito." Fece lui ridacchiando entusiasta. "Attenda in linea."

Udii il suono di tasti che venivano premuti, una breve interferenza e un'altra voce mi rispose, questa volta era una donna che si presentò come Camille Bates.

"Sono davvero felice che abbia deciso di contattarmi", continuò prima che potessi ribattere. "Il mio segretario temeva che la mia e-mail fosse troppo essenziale, ma onestamente non sapevo che altro aggiungere."

In effetti la sua carriera era talmente brillante che avrebbe potuto mandarmi il curriculum con un piccione e sarebbe stato comunque sufficiente. «Il piacere è mio, signora Bates.»

"La prego, lasci stare il signora. Le formalità mi fanno sentire vecchia." Sospirò melodrammaticamente. Bastò questo a farmela stare simpatica.

Sorrisi. «Allora direi che la cosa è reciproca.»

"Va bene, allora! Quindi, Chiara, veniamo a noi. Ho tantissimi dettagli che vorrei chiederti, ma prima è buona norma dare spazio al cliente: hai bisogno di farmi domande?"

Ci riflettei qualche istante. Di domande ne avevo a decine, ad esempio chi fosse e perché volesse lavorare proprio per me; ma soprattutto mi serviva un modo per chiederle quanto fosse cara, senza chiederle quanto fosse cara.

Dubitavo che l'intero patrimonio di mia nonna sarebbe bastato a coprire i mesi, forse anni, che avrei passato dentro e fuori dal tribunale.

«Lei conosce a fondo la situazione in cui mi trovo, giusto?» Buttai lì, sperando che tutte le sue lauree valessero davvero a qualcosa.

"So quello che dicono i giornali." Iniziò. "E se quello che vuoi chiedere è se io sia consapevole che le tue finanze potrebbero non essere in grado di coprire la mia tariffa, la risposta è: Certo!"

«Quindi...»

"Sei disponibile per un caffè?"

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