4 - 🌸Maglioni secchi e uova esplose🌸 (pt.2)
Cacchio.
Era il tipo dell'aeroporto.
Quello che avevo fatto esplodere.
Cioè, quello a cui era esplosa la mia valigia in faccia.
Che fosse venuto in cerca di risarcimento? Come faceva a sapere dove abitassi? Era uno stalker?
Lui bussò alla porta e mi tappai la bocca per paura che sentisse il mio respiro affannoso.
«Signorina? Tutto bene?»
Aveva pure una bella voce, il subdolo, nel caos dell'aeroporto non me n'ero resa conto.
Che fosse armato? Forse era venuto ad uccidermi. Maledetta la volta in cui mi ero trasferita da sola in mezzo a un bosco. Come avevo potuto pensare che fosse una buona idea?
«È lei la signorina Chiara Nebula Verri?»
Sapeva anche come mi chiamavo. Il nome intero. Era la fine. Ero finita.
«Mi chiamo Alexander Mason, sono il legale di suo padre.»
Cosa?
«Cosa!?»
Spalancai la porta di botto. «Lei, cosa!?»
Lui mi guardò dall'alto in basso con aria confusa. Fece per dire qualcosa, ma chiuse la bocca.
Solo in quel momento mi accorsi di avere ancora indosso il mio pigiama: una maxi-maglia del Signore degli Anelli, con il faccione di Aragorn stampato sul davanti e la scritta "Lui è Granpasso, io dormo come un sasso".
L'avevo ideato io. Ne ero sempre andata fiera.
Fin ora.
Speravo solo con tutto il cuore che non conoscesse l'italiano.
Con la poca dignità che mi rimaneva, incrociai le braccia sul petto, schiarendomi la voce. «Mi dica.»
L'uomo dell'aeroporto tentennò un istante prima di parlare. «Suo padre mi ha mandato personalmente. Vuole che le reciti il Miranda Warning?»
Caddi dal pero. «Il Miranda Warning?» Mi inalberai mentre realizzavo. «Cosa sono, una criminale? Ma come si permette! Bussa in casa mia all'alba...»
«Sono le dieci e trenta del mattino.»
«Quello che è. Bussa in casa mia all'alba e pretende di accusarmi di chissà cosa!»
«Signorina. Io non la sto accusando di nulla. Sono qui in veste istituzionale per consegnarle la lettera di diffida e, con il suo consenso, scambiare qualche parola.»
Sembrava già esasperato.
Ma non era lui quello con il diritto di esserlo.
«Lettera di diffida?» Sussurrai, realizzando. «Mio padre mi ha denunciata?»
Ero allibita, ma allo stesso tempo non faticavo a crederci. Mio padre mi aveva aizzato un avvocato contro. Mio padre. Perché ovviamente discuterne davanti a un cappuccino e a una bella brioche era troppo normale.
Troppo da padre per mio padre!
L'avvocato annuì, con una compostezza che mi mandava fuori di testa. «Per questo vorrei scambiare qualche parola e...»
«Certo, magari vorrebbe pure che le offrissi te e biscotti.»
«Sono qui in veste professionale.» Si schermì l'avvocato. «Inoltre, ambasciator non porta pena.»
«Insomma. Ha idea di quanto mi ci è voluto a lavare e stirare tutta la stoffa che lei ha sparso per l'aeroporto?»
Si bloccò un istante, come se un qualche ingranaggio nella sua testa avesse preso di colpo a funzionare. «Lei è...»
«Buongiorno! Ha idea di quanti danni mi ha arrecato?»
L'avvocato sgranò gli occhi. «A lei? Io ho rischiato di rompermi una gamba e-»
«Rompere una gamba, addirittura! Nemmeno l'avessi aggredita.»
«Stava correndo senza guardare dove andava...»
«Lei mi è venuto addosso!»
«Perché lei mi ha tagliato la strada.»
«Doveva stare più attento!»
Lui divenne paonazzo, del tipo di rossore che nei cartoni animati accompagnava il fumo dalle orecchie. Pensai esplodesse, ma spostò lo sguardo sull'architrave della porta, prese un sospiro si ricompose. Come un robot che tornava alle impostazioni di fabbrica.
«Ha ragione», concesse a denti stretti. «Avrei dovuto guardare dove camminavo. Le chiedo scusa.»
La mia irritazione sbollì di colpo e sollevai un sopracciglio.
Si era scusato sul serio?
Da quando un litigio terminava con qualcuno che chiedeva scusa? Con mio padre di solito finiva con lui che usciva sbattendo la porta.
«Facciamo così. Riproviamo.» Mi disse. «Chiuda la porta.»
«Sul serio?»
«Sono serissimo.» E per dimostrarlo mi guardò dritto negli occhi. Erano verdi, me li ricordavo, ma guardandoli meglio notai che il centro dell'iride virava sul nocciola. «Siamo evidentemente partiti con il piede sbagliato. Se lei è d'accordo, adesso chiude la porta, ci calmiamo entrambi e ricominciamo.»
«Mi prende in giro?»
«Perché dovrei?»
Arricciai il naso, scettica. Stavo per rispondergli che, piuttosto, io avrei chiuso la porta e lui si sarebbe tolto dai piedi, ma non ne ebbi il tempo.
L'avvocato si fece avanti di colpo, fino a pochi centimetri da me. Profumava di dopobarba, con un delicato retrogusto di lavanda.
Afferrò il pomello della porta e nel farlo sfiorò la mia mano con la sua. «Posso?» Sussurrò.
Annuii, confusa da quello che stavo vivendo. Fino a dieci minuti fa ero beatamente appisolata nel mio bel letto comodo e ora ero, be', in quella situazione.
L'avvocato tirò la maniglia e chiuse lentamente la porta, senza smettere di guardarmi negli occhi.
Pensare a mio padre fu l'unica cosa che mi salvò dallo sciogliermi sul posto.
Il mio ingresso rimase impregnato del suo profumo.
Eccheccacchio. Non poteva almeno, che ne so, puzzare di discarica?
Fissai, accaldata e accigliata, il legno dipinto di bianco; poi, da fuori, sentii l'avvocato bussare.
«Signorina Verri?» domandò.
Il mio petto ebbe un sussulto.
Non andava per nulla bene.
Poi realizzai.
E realizzare mi riempì di un mix di irritazione.
Mio padre non agiva mai a caso: se alla mia porta c'era quest'uomo invece che la sola diffida, un motivo ci doveva essere. Non mi sarei stupita se fosse stato assunto solo perché esteticamente incarnava il mio tipo ideale.
Sogghignai. Così era a questo che stavamo giocando.
Indossai il mio migliore sorriso diplomatico - quello che usavo per convincere i docenti a trasformare un diciassette in un diciotto - e aprii la porta.
«Buongiorno, sono io, mi dica pure.»
L'avvocato, il subdolo, mi sorrise con l'intensità di mille Soli e mi allungò una lettera. Era indirizzata a me da parte di uno studio legale di Minneapolis.
«Sono Alexander Mason, il nuovo legale di suo padre. Mi scuso per l'inconveniente dell'altro giorno in aeroporto. Le andrebbe di scambiare qualche parola?» chiese.
Fissai la lettera per un po', mentre il mio cervello la usava come telo per proiettarci sopra il faccione compiaciuto di mio padre.
La acciuffai imprecando e mi feci da parte, tenendo la porta aperta con un braccio. «Mi risparmi il Miranda Warning.» Aggiunsi. Mentre lavoravo ai miei vestiti ascoltavo abbastanza true crime da conoscerlo a memoria. «Prego.»
Avendo la cucina ancora incrostata di uovo sodo esploso, lo condussi in salotto. «Le offrirei un tè, ma in questo momento non ne ho in casa.» Iniziai a dire, prima di ricordarmi che su uno dei due divani c'erano i miei maglioni di compensato. «Oh, ca-»
Con un balzo degno dei migliori film di spie aggirai l'uomo e mi buttai sulle tavolette con le maniche. «Mi scusi, non aspettavo ospiti», arrancai. «Mi dia due minuti. Intanto si accomodi pure.»
Dovevo essere stata abbastanza veloce da confonderlo, perché lui tentennò. «Ehm, sì, nessun...»
L'ultima parte della frase me la persi perché ero già corsa via con la coda tra le gambe e le vittime della mia lavatrice sottobraccio.
Corsi al piano di sopra e lanciai i tre maglioni impagliati sul letto, poi aprii l'armadio e ne tirai fuori un dolcevita celeste che non aveva ancora conosciuto l'ira dei miei elettrodomestici. Un paio di jeans, una pettinata ai capelli e tornai giù.
Troppo lenta.
«Uovo sodo nel microonde?» domandò l'avvocato, retorico, affacciandosi solo con la testa dall'angolo della cucina. «Non si è mai scaldata un uovo quando viveva con suo padre?»
«Mi avvalgo della facoltà di non rispondere», ribattei. «Lei ha dimenticato come farsi i fatti propri da quando lavora per mio padre?»
«Touché.» Uscì fuori del tutto senza farselo ripetere, poggiandosi al muro con una spalla, in una posa che sapeva di tutto tranne che di statua di gesso. «Ha ragione.»
Sapevo cosa stava facendo, glielo leggevo negli occhi, ma non ero una che si arrendeva davanti al primo figo di passaggio.
«Stia attento, avvocato. È la seconda volta che mi dà ragione solo oggi», risposi languidamente.
«Sono un uomo che sa riconoscere i propri limiti, signorina.»
«Un uomo pieno di qualità.»
«Non ne ha idea.»
Mi chinai in avanti, poggiando gli avambracci sulla testiera di uno dei due divanetti che stavano in salotto. «Ora, da bravo, si allontani dalla mia cucina e venga a sedersi.»
Lui alzò le mani, arrendevole, e tornò in soggiorno per accomodarsi sul divano di fronte al mio. «Va bene qui, signorina?»
All'effetto che quell'ultima parola fece al mio stomaco, mi resi conto che forse giocare al suo gioco non era stata poi una così buona idea.
Ma ormai era fatta. Scivolai a sedere senza perderlo di vista. «Cosa vuole sapere?»
«Per quale motivo ha scelto di venire a vivere in Minnesota?»
«Parlerò solo in presenza del mio avvocato.»
«In che rapporti era con sua nonna?»
«Come sopra.»
L'avvocato fece cadere la testa all'indietro, poi la risollevò. «Questo colloquio sarà tutto così?»
«Probabile, sì», sorrisi, sorniona. Se credeva di fregarmi, si sbagliava di grosso. «E lei perché lavora per mio padre?»
«Mi avvalgo della facoltà di non rispondere», rispose lui, piegandosi in avanti fino a poggiare i gomiti sulle ginocchia.
«Oh, non era una domanda rivolta a lei.» Mi feci con nonchalance ancora più avanti, fino ad arrivare a un paio di spanne dal suo viso. «Perché mio padre dovrebbe assumere lei? Un uomo giovane, agli inizi della carriera, che non dimostra nemmeno la sua età. La deve star usando in qualche modo. Ma come?»
L'avvocato si corrucciò e si tirò indietro di scatto, tornando ad appoggiarsi con la schiena al divano. «Lack of foundation.»
Fui presa un attimo in contropiede, mentre il mio cervello si affannava a tradurre, poi capii. Mancanza di prove. Mi aveva appena fatto un'obiezione. Come in tribunale. «Mi pare sia un po' presto per mettermi a giudizio.»
«Inizio ad allenarmi. Suo padre è deciso a portare la causa in tribunale.» Chiarì lui.
Tentennai, sgranando gli occhi e lui ne approfittò immediatamente.
Fu proprio allora, nel sottilissimo cambio di espressione che anticipò quanto mi disse, che iniziai a vedere cosa ci dovesse aver visto mio padre. «Be', questo sempre che...»
«Sempre che?» abboccai di proposito, per capire dove volesse andare a parare.
Prese lentamente la lettera dal tavolino, lasciandomi, se avessi voluto, il tempo di impedirglielo. «Suo padre le propone di tornare subito in Italia e finire i suoi studi. Acconsentendo, risparmierà denaro e mesi di processo, e potrà accedere a questa casa una volta ottenuta la laurea magistrale.»
Aprì la lettera ed estrasse i fogli che vi stavano all'interno, passandomeli.
Li guardai: c'era la diffida, sì, e poi, sotto, un contratto in piena regola.
Eccola. La trappola.
«E scommetto che lei verrà pagato comunque. Magari pure meglio, se mi convince ora.»
L'avvocato continuò a fissarmi, in silenzio. Sì, doveva essere così. Se c'era qualcuno che poteva permettersi di strapagare un legale senza nemmeno farlo entrare in tribunale, quello era mio padre.
«No», sbottai.
«No?» lui parve genuinamente stupito.
Pecorella sbagliata.
«Può dire a mio padre che ci vedremo a processo», feci, alzandomi in piedi.
Quel vecchiaccio aveva finito di manipolarmi. Aveva finito con i suoi giochetti; io a Milano non ci sarei tornata, avessi dovuto andare a vivere sotto un ponte.
«La invito a riconsiderare. Si tratterebbe di un paio di anni. Personalmente, vedo solo lati positivi», fece lui, alzandosi insieme a me.
«Non ne dubito. Decine di migliaia di dollari senza alzare un dito. Anche io vedrei solo lati positivi.»
«Non intendo fingere che per me non ci sia un tornaconto», mi lapidò lui, ora libero dalla maschera accondiscendente con cui si era presentato. «Ma il guadagno che anche lei ne ricaverebbe è oggettivo e innegabile.»
«Si risparmi la ramanzina in cui mi spiega cosa lei pensa sia meglio per me», strinsi i pugni, accartocciando i fogli che ancora avevo in mano. Gli occhi iniziarono a bruciarmi, ma mi impedii di piangere. Non davanti a lui. «C'è già un uomo che cerca di farlo.»
L'avvocato aprì e chiuse la bocca un paio di volte, poi si arrese.
Tacemmo entrambi, io mentre tentavo con tutta me stessa di tenermi insieme, lui mentre mi studiava.
A un certo punto mi voltai e camminai verso la porta d'ingresso. «Si è fatto tardi.»
L'avvocato mi seguì senza obiettare, ma si fermò sull'uscio ed estrasse un fazzoletto dalla tasca dei jeans, offrendomelo. «Le auguro una buona giornata, signorina Verri.»
«Buona giornata a lei, avvocato. Ci vediamo in tribunale.» E gli chiusi la porta in faccia.
Una lacrima mi rigò la guancia e io la cacciai con una mano: il fazzoletto era rimasto fuori.
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