Marzo 1945
Avvertenze: come gli altri capitoli dedicati a Vittoria, il seguente non risparmia immagini crude e verità storiche scomode che, avendo ispirato la storia, potrebbero turbare i lettori più sensibili. Ritengo che il capitolo sia stato scritto con criterio e che vada letto allo stesso modo, per questo sono disponibile a chiarimenti sulla storia di Dachau, campo di sterminio situato nei pressi di Monaco di cui si condannano nella maniera più consapevole tutte le inumane pratiche. La storia di Vittoria e quella dei personaggi che le sono legati è comunque frutto di fantasia. Grazie dell'attenzione.
Entropia III: nella teoria dell'informazione l'entropia è misura della quantità di incertezza presente in un segnale aleatorio.
Marzo 1945.
Dalle radio l'ordine era di resistere.
Resistere e far spazio nei campi minori prima dell'inevitabile disfatta.
Era diventata una questione di tempo: ormai gli ufficiali ne parlavano a pranzo come si parlava del vino cotto o della durata dell'inverno, accumulando monete sul tavolo in pile di rame e alluminio. C'era chi scommetteva sull'arrivo dei Sovietici e chi puntava il salario sull'apparizione della bandiera americana, mentre fuori, sulla neve soffocata dalla cenere, nel perimetro delimitato dal filo spinato, si consumava un'ecatombe.
La notizia era arrivata senza che nessuno avesse avuto bisogno di spedirla: il Reich stava perdendo la Guerra.
Therese sbirciava raramente attraverso le persiane; mai di giorno, comunque. Da quando i campi avevano iniziato a cadere come tessere di un domino consumato, i treni che raggiungevano Dachau non si erano fermati un istante: scaricavano qualche centinaio di prigionieri - perlopiù cadaveri - e ripartivano per ripresentarsi con i vagoni strabordanti di corpi.
Ai Dottori era stato riferito che l'unico modo per far fronte al sovraffollamento del Campo era lavorare di continuo come le ferrovie, con la luce solare e quella elettrica, anche senza disinfettanti e anestesie, anche senza sterilizzare gli strumenti o cambiare i camici imbrattati di sangue.
Non c'era tempo, non c'era cibo, non c'era spazio nei forni.
Perfino l'aria era finita.
Perfino le guardie iniziavano a tossire sangue.
Tubercolosi. Tifo. Colera.
La dottoressa premette tre dita sulla mascherina che le copriva il naso e le labbra, costringendosi a guardare fuori. La versione ufficiale era che il cotone servisse a proteggersi dalle epidemie che devastavano le baracche, ma Therese era arrivata al punto di scoprire le narici solo nella camera da letto. Iniziate le epurazioni di massa, il lezzo di carne bruciata si era fatto così insopportabile da impedirle di toccare cibo. Ce l'aveva nei vestiti, nei capelli biondi e rinsecchiti, nella pelle di Gerald quando lui alzava la mano per sfiorarle la guancia e raddrizzarle gli occhiali a mezzaluna.
Passava tutto, ma quell'odore no.
Almeno la mascherina aiutava ad attenuarne il fetore.
- Therese, mi stai ascoltando?
Gerald tamburellò le nocche dal tavolo alla parete. Arrivato alla finestra scostò con delicatezza le sue braccia dalla veneziana che ne ricopriva il vetro, stringendole tra le sue. Per un momento furono solo le ossa inguantate da un sottile strato di pelle a separare la loro miseria, poi la dottoressa si ritrasse e tornò a osservare le vie sterrate del Campo. La lavorazione del sapone e delle parrucche era stata soppressa, e i prigionieri che non riuscivano a sopravvivere erano diventati meno che rifiuti. Non c'era un centimetro del loro corpo che fosse mantenuto sulla Terra a manifestare la loro esistenza.
- Resta con me, ti prego.
C'era stato un tempo in cui Gerald Günther, dal sorriso sghembo e lo spirito da sciupafemmine, – Dottore a capo della sua equipe - l'aveva stregata; con la sua dedizione feroce e inossidabile per la scienza e il progresso, i suoi lineamenti scolpiti, le sfumature ariane avvolte dal camice bianco e dallo stetoscopio, come gli strumenti di un semidio nordico; c'era stato un tempo in cui ogni scoperta che avevano collezionato insieme era stata suggellata da un bacio e dalla promessa di un traguardo più grande: la cura per il cancro, la sintesi di molecole sconosciute, la comprensione dei segreti della morte e della venuta al Mondo di un superuomo.
Si erano promessi meraviglie, ed erano finiti per creare orrori.
Da qualche parte, contro un muro al confine del campo, si udì una scarica di proiettili. Therese sentì gli occhi irritati dalla polvere lacrimarle incontrollabilmente.
- Non posso, sto impazzendo.
Lo disse con la stessa freddezza con cui leggeva la temperatura delle versuchskaninchenⁱ o descriveva al nastro registratore i risultati dell'incubazione della malaria.
Era una constatazione, impeccabile e misurata.
- No, non è vero. È difficile, ma è la nostra missione, e dobbiamo perpetuarla.
- Sei un illuso se credi che vivremo abbastanza a lungo da vantarci con la comunità scientifica di quello che abbiamo combinato, - sibilò.
Gli esperimenti che avevano portato a termine, la maggior parte insensati, pochi riusciti, Gerald l'aveva compiuti nel nome della sua cieca fedeltà al Reich. Therese aveva semplicemente seguito le sue orme sul fango di Dachau: non aveva mai creduto alla supremazia della razza, alla costruzione di un impero o alla vendetta dell'offesa ricevuta durante la Grande Guerra. Non c'aveva mai nemmeno pensato prima che, ancora una studentessa, Gerald glielo sussurrasse in un orecchio, giorno dopo giorno, fino a convincerla che le sue parole valessero qualcosa.
Ma non era colpa di Gerald.
Era colpa sua.
Era Therese ad aver accolto il Male senza alcuna ragione. Senza alcun valore. Per banalità. Era Therese ad aver semplicemente eseguito. Credere in qualcosa di sbagliato o non crederci e rincorrerlo lo stesso: si chiese quale dei due peccati, all'Inferno, li avrebbe scagliati più in profondità; chi sarebbe caduto nelle fauci del demonio per primo, e chi si sarebbe accontentato dei suoi artigli.
- Parli come se avessimo perso la guerra.
Si rivolsero un'occhiata eloquente. Berlino era circondata e gli alleati avevano iniziato a voltare le spalle alla Germania. Mentre parlavano, l'esercito americano avanzava verso Monaco per radere al suolo Dachau. La guerra era già stata persa, ma Gerald era troppo terrorizzato per accettarlo.
- Ci uccideranno tutti, - disse Therese.
- Non appena vedranno che cosa abbiamo fatto, ci rimetteranno alla giustizia dei prigionieri.
Gerald la strattonò per tirarla a sé, incurvando le spalle affinché i loro occhi si trovassero alla stessa altezza.
- Non ci uccideranno, - ringhiò.
- Terremo duro per altri quattro mesi, fino a quando non sarà possibile operarla.
Parlava di Vittoria; tutte le altre ragazze erano solo all'inizio della loro gravidanza.
- Il Campo non ne durerà altri due.
- Durerà, ma se non lo farà ce ne andremo dove non potranno trovarci, e lei ci seguirà. Se la guerra verrà perduta, il bambino che porta in grembo sarà la nostra garanzia.
Americani, Sovietici, Tedeschi: lo avrebbero voluto tutti.
- E lei?
- Vittoria, - sussurrò Therese. La presa di Gerald contro i suoi avambracci si fece così stretta da accartocciarla su sé stessa.
- Che vuoi farne di lei?
- 111826, - la corresse.
- Non ha alcun valore. Il bambino ce l'ha.
Gerald si abbassò la mascherina sul collo e le stampò un bacio leggero sulla fronte. Sarebbe rimasto fedele alla missione fino all'ultimo, ma quando ogni speranza sarebbe venuta meno non avrebbe esitato a fuggire con l'unico esperimento riuscito abbastanza bene da salvargli la vita. Secondo lui l'avevano deciso insieme. La realtà era che Therese si era limitata a fissarlo inebetita.
Quasi non lo riconosceva.
Gerald e il suo piano di non lasciare Dachau fino alla fine, per paura che le SS lo trucidassero; Gerald e il suo piano di mantenere attivi i laboratori fino alla vista della bandiera nemica all'orizzonte; Gerald e la sua fuga come ultima possibilità. Tutto ciò che lo faceva muovere era una sinistra combinazione di terrore e invasamento.
Avrebbe sventrato la ragazza a mani nude, se necessario.
Le avrebbe aperto la pancia e avrebbe abbandonato il suo cadavere nella Foresta Nera.
111826 sarebbe morta senza conoscere suo figlio.
***
Sapeva esattamente cosa fare.
Conosceva gli orari del cambio di guardia, i turni degli infermieri e i programmi dei Dottori. Aveva imparato la combinazione della cassaforte di Gerald e quella della valigetta che conteneva l'occorrente per sostenere una partenza improvvisa. L'aveva preparata davanti ai suoi occhi, poche settimane prima. Dentro c'erano dei vestiti per entrambi, dei documenti falsi, del denaro e i resoconti degli esperimenti più importanti portati avanti dalla loro equipe, in modo che potessero essere ripetuti. Nascosta dentro una tasca sul fondo della valigia, invece, c'era una pistola; un revolver di produzione tedesca, a canna lunga; decisamente poco femminile, visto il calibro e il peso. Therese realizzò che un'arma del genere avrebbe ucciso senza fare distinzione di sesso, età o razza. Ariani ed ebrei, adulti e bambini, uomini e donne.
Adempieva a un compito solo, ed era di quello che Therese aveva bisogno.
Se la infilò sotto il camice, più calda di quanto si aspettasse e allo stesso tempo rigida contro le sue costole, poi richiuse la valigetta.
Sapeva esattamente che cosa fare.
***
Percorse in discesa i lunghi corridoi dei laboratori fino all'ultimo piano, quello più distante dalla superficie. I colleghi non fecero caso a lei, un po' per stanchezza, un po' per diffidenza verso l'unica scienziata americana del blocco: a salutarla erano rimasti i giovani studenti, quelli che preparavano organi da spedire alle università. Erano gli ultimi a conservare il rispetto per i Dottori più anziani e per le norme di sicurezza, ma fatalmente erano anche quelli che contraevano il tifo più spesso. Pochi anticorpi per i giovani medici tedeschi.
Therese si rivolse ad ognuno di loro con un cenno debole della testa, poco più che un'oscillazione controllata. Gerald e tutti i colleghi che lavoravano al loro progetto erano stati richiamati allo Jorhaus per la scelta dei nuovi pazienti. I meno – o più, a seconda della prospettiva – fortunati tra gli altri, sarebbero stati spediti nelle baracche. Tutti gli altri nei forni crematori.
Ma non c'era spazio.
No, non c'era spazio, Dachau era saturo di corpi. I laboratori erano saturi di pazienti.
Si chiese quante settimane fossero rimaste prima che le SS decidessero di evacuare il Campo e far marciare i prigionieri lontano da Monaco.
In quale luogo avessero intenzione di trasferirli rimaneva un mistero.
Neuengamme?
Troppo distante.
E allora dove?
Quasi non si accorse di essere arrivata a destinazione: la porta di ferro battuto che si stagliava davanti ai suoi occhi era uguale a tutte le altre, ma il codice per avervi accesso era appannaggio di pochi. Therese si arrestò davanti ad essa, riponendo la mascherina nella tasca. Gli occhiali che le scivolavano lungo il naso per il sudore.
Tese le orecchie in ascolto: l'unico rumore nei corridoi bianchi dei sotterranei era costituito dal tremore incessante della Terra al passaggio del treno e dallo strascicare delle catene. Nessuno si era spiegato come fosse possibile: le stanze erano insonorizzate a qualunque suono tranne che alla marcia dei prigionieri sulla neve.
Accertatasi di essere sola, Therese estrasse la pistola dal camice e ne appoggiò la canna sulla propria gola, puntando verso la testa. Il grilletto era duro, ma la forma del foro d'uscita del proiettile si adattava perfettamente allo spazio triangolare sotto il suo mento.
Indolore e poco pulito. Si chiese se il lavoro di un Medico fosse mai stato pulito, ma non seppe darsi una risposta. Aveva scoperto così tanti modi di morire nel suo soggiorno a Dachau che questo le sembrava benedetto.
Sentiva la testa ovattata e le orecchie fischiarle: non riusciva a ricordare il momento in cui avesse deciso che non sarebbe vissuta abbastanza a lungo da tentare la fuga con Gerald. Forse aveva covato inconsapevolmente l'idea per mesi e mesi, finché non si era schiusa da sola. Se gli Alleati li avessero risparmiati, la loro sarebbe stata una vita di anonimato e incubi e alienazione. Se il Reich si fosse risollevato, servirlo di nuovo le avrebbe fatto perdere il senno. Era rimasta chiusa nel Campo così a lungo da diventare essa stessa una prigioniera. Non ne sarebbe mai uscita, proprio come tutti gli altri.
Fece un passo verso la porta blindata e con la mano digitò il codice che le consentiva di aprirla, poi inspirò profondamente. Avanzò nella stanza priva di colore: pareti bianche, pavimento bianco, lenzuola bianche, mobili bianchi. L'unico sprazzo di castano era raggomitolato contro un angolo.
Fu a quel punto che Therese vide esattamente come sarebbe morta.
***
Fece ricadere la mano che stringeva la pistola lungo il fianco e richiuse la porta alle sue spalle. 111826, seduta per terra, squadrò l'arma con la stessa noia con cui fissava le medicine che le venivano consegnate, le tuniche pulite che le infilavano dalla testa e l'ago della siringa con cui le bucavano l'avambraccio per prelevarle un campione di sangue. 111826 non parlava, ma gli infermieri sostenevano che qualcosa nella sua testa avesse smesso di funzionare e l'avesse privata perfino dell'udito. Therese sapeva che si sbagliavano: Vittoria sentiva tutto. Era più probabile che si rifiutasse di ascoltare.
Therese avanzò verso la sagoma ai suoi piedi. La prima volta che l'aveva vista Vittoria era stata un cumulo di ossa e pelle tumefatta, arsa dal gelo e dai pidocchi. Nonostante tutto però era stata viva. Forse perché sul punto di morire, o forse no. Aveva gridato e pianto, e si era consumata le dita per graffiare il pavimento, ma la sua esistenza non era mai stata così determinante come nel momento in cui stava per rinunciarvi per sempre. La ragazza abbandonata contro la parete, al contrario, era poco più che una bambola ricucita per sembrare nuova: le sue mani e i suoi piedi avevano riassorbito i geloni, il grasso le era ricomparso nel seno e nei fianchi e le sue costole erano tornate invisibili sotto la sua veste di lana; i capelli le erano ricresciuti, poi ricaduti, poi ricresciuti; il pigmento olivastro della sua pelle, però, si era scolorito del tutto; i suoi grandi occhi castani erano diventati costantemente assenti.
Delle volte 111826 dimenticava perfino di essere incinta. Quando se ne ricordava faceva a pezzi il cuscino a morsi, poi tornava sul pavimento.
Esattamente come prima.
- 11826, - disse Therese, alzando la pistola davanti a sé.
Disinteresse fu tutto ciò che ottenne in cambio, almeno fino a quando Therese non svuotò l'arma per ricaricarla davanti alla sua faccia.
A quel punto 111826 sostenne la vista del foro d'uscita del proiettile senza dire niente. Vittoria tornò ad abitare il suo corpo come se non lo avesse mai lasciato ed emise un gemito imprecisato.
Forse pensava che finalmente l'avrebbe uccisa.
Therese la scosse con cautela.
- 111826, guardami.
- Dachau sta per cadere.
Dirlo ad alta voce rattizzò il coraggio che l'aveva spinta giù nei sotterranei. Non aveva più niente da perdere. Tutto si era già sgretolato sotto il suo tocco.
- Potrebbero volerci settimane o mesi, - disse, - ma cadrà.
111826 si tappò le orecchie con i palmi delle mani e nascose la testa tra le ginocchia. Therese avrebbe giurato che la ragazza avesse imparato il tedesco, ma non era più così sicura.
- Quando i soldati avranno la conferma dell'avanzata delle truppe nemiche, tu sarai portata via.
- Ti terranno in vita fino a quando il bambino non sarà diventato abbastanza grande per sopravvivere e poi ti uccideranno. Ti lasceranno morire dissanguata durante l'operazione, in modo che quello che è successo in questo campo rimanga nascosto. Il bambino diventerà una cavia a sua volta, e così i suoi figli. Verrà venduto al migliore offerente. Verrà venduto ai vincitori della guerra in cambio della vita di chi l'ha creato, mentre il tuo corpo non verrà mai ritrovato.
Therese piegò le gambe e si accovacciò difronte a lei. Forse la ragazza non aveva nemmeno idea di che cosa stesse parlando, ma non aveva importanza. Non lo stava facendo per lei. Therese lo stava facendo per sé stessa: per perire con la speranza che dopo tutto quello che aveva fatto, dopo tutte le cavie che si erano succedute sotto le sue mani e tutti gli anni passati ad adempiere alla crudeltà, il suo cuore non fosse perduto per sempre. Che un battito, anche solo l'ultimo, non fosse corrotto come tutti gli altri.
- Non lasceremo che accada, - mormorò, poi schiuse la mano di 111826 con la propria, poggiandovi sopra la pistola. Fece in modo che le loro dita si stringessero sul manico dell'arma e disse: - Uno è per me. L'altro è tuo.
C'erano due proiettili nel caricatore.
- Liberati da tutto questo.
111826 artigliò l'arma, tastandone il peso. Therese sarebbe diventata polvere insieme a tutti gli esseri umani che aveva tradito, a tutte le vite che si erano dissolte a causa sua, e il suo ultimo respiro sarebbe diventato la soluzione di un'equazione a lungo irrisolta. Sarebbero tornati uguali. Niente più divisioni.
- Frei, - disse la ragazza. Dopo settimane passate nel silenzio, la sua voce fu meno che un soffio di vento sulle sue labbra secche e incapaci di sorridere.
Libere.
Potevano esserlo.
- Frei, - annuì.
- Saprai quando arriverà il momento.
La fine sarebbe stata inequivocabile.
- Prima sparerai a me. Poi potrai ucciderti.
Angolo autrice: dovete sapere che la scrittura di questa storia segue una scaletta precisa, che non ammette discussioni. È per questo motivo che non mi capacito di aver sforato di ben DUE capitoli, prima di continuare con la storia di Vittoria. Nella mia testa, infatti, questo personaggio doveva ricomparire ogni sei capitoli, poi Sybil ha preso il sopravvento e addio buoni propositi. Quello che è fatto è fatto: questo filone è tanto duro da mandar giù quanto essenziale. Non c'è "Entropy" senza Vittoria. Anche in questo caso ho cercato di attenermi, nella descrizione delle tempistiche e degli avvenimenti di Dachau, all'autentica linea temporale del campo. Per qualunque perplessità a riguardo potete chiedere a me.
Mi raccomando, commentate e stellinate, e non risparmiate consigli e correzioni. Passate nella raccolta dedicata agli extra della storia se avete curiosità: li potrete richiederne di nuove. Vi mando un bacio, a presto!
i, versuchskaninchen: cavie (dal gergo utilizzato a Dachau secondo i dati storici)
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro