Aprile 1945: Wir Sind Frei
Attenzione: come sempre quest'arco narrativo contiene tematiche delicate che potrebbero turbare il lettore. Leggete a vostra discrezione. Nell'ultimo capitolo su 111826, Dachau è stato liberato e la nostra protagonista è riuscita a scappare dai laboratori in cui l'avevano rinchiusa. Ecco il seguito.
29 Aprile 1945
Dachau
Entropia residua: è l'entropia di un sistema allo zero assoluto, cioè alla minima temperatura teorizzabile in un sistema termodinamico. Essendo diventati nulli tutti i contributi traslazionali, vibrazionali e rotazionali – e dunque di movimento - delle particelle, è soltanto un'entropia di tipo . In poche parole: è tutto il caos che resta.
Che fossero rimasti tanti esseri umani sulla Terra, sembrava un miraggio ingannevole e troppo inverosimile a cui credere. Eppure, i volti emaciati di tutti quegli sconosciuti - poco più che sacchi di pelle su un supporto di ossa storte – apparivano inconfondibilmente reali.
111826 ne seguiva il pellegrinaggio festoso verso il perimetro del Campo, osservandone i movimenti strascicati, come a cercare la conferma che fossero creature ancora in vita, capaci di parlare e compiere scelte in autonomia e respirare e ridere, perfino, senza il pericolo di venire fucilati. Non spettri di un popolo ridotto alla fame; non fantasmi di prigionieri torturati per anni, ma donne e uomini e bambini dotati di voce e occhi e carne e sangue. Persone che un tempo avevano da raccontare una storia e che – come per miracolo - avrebbero continuato a scriverla.
La ragazza si accodò alla moltitudine in movimento senza proferire parola, procedendo a tentoni per non perdere l'equilibrio. Il terreno era bagnato di nevischio e reso scivoloso dal fango, l'aria di primavera più tagliente di quella a cui era abituata da piccola. In un certo senso, anche il Campo era rimasto schiavo dell'Inverno: non poteva disfarsi delle sue rigide temperature, né asciugare il proprio umido pallore.
Dachau apparteneva al freddo.
111826 ricacciò indietro un brivido, poi strinse la bandiera colorata intorno alle spalle, ansimando per scaldare le dita che ne artigliavano i bordi.
Con un po' di sforzo, riprese ad arrancare.
Era rimasta sottoterra così a lungo da aver dimenticato l'organizzazione intricata dei blocchi di lavoro, ma l'idea di perdersi nei recinti di filo spinato non la sfiorava minimamente. Tutto ciò che provava era un senso distante di incertezza: era passato tanto tempo dall'ultima volta che aveva comunicato con qualcuno; dall'ultima volta in cui aveva potuto scegliere la direzione da seguire.
La dimensione che conteneva tutti i suoi giorni passati non aveva alcuna profondità oltre quella piatta e spoglia in cui era stata catapultata dopo la scorsa notte. Era ritornata in superficie, eppure la realtà di sopra non sarebbe mai tornata com'era stata prima della sua discesa.
Unendosi al flusso di corpi riversati lungo i sentieri del Campo, si accorse che i piedi le facevano male e diventavano più pesanti ad ogni passo. Ne sentiva le piante bruciare a contatto con il ghiaccio, mentre i sassi le graffiavano la pelle e le sbucciavano i talloni. La sua vestaglia non offriva alcun riparo contro le intemperie e anche il più flebile soffio di vento finiva per pungerle le gambe come spilli. 111826 stava tremando incontrollabilmente.
Respirava con affanno, asciugandosi il naso, ma ogni particolare che la riguardava era quasi sfuocato, poco più che un'informazione collezionata di sfuggita in mezzo a tutto quel trambusto. Si accorse che centinaia di uomini in divisa militare si erano uniti ai festeggiamenti, consegnando acqua, cibo e coperte e lasciandosi trascinare dai prigionieri verso i capannoni più distanti. Nessuno di loro si faceva pregare: partecipavano ai canti dei superstiti senza neppure conoscerne le parole, limitandosi a intonarne le note con un sorriso beffardo di soddisfazione; prendevano in braccio i bambini, li facevano dondolare dalle canne delle loro armi mentre cercavano di rimanervi appesi. Sghignazzavano, ma con espressione incredula. Come se non riuscissero a credere a quello che avevano scoperto dopo aver liberato Dachau.
Stette a guardarli mentre facevano strada ai prigionieri rimasti, ma nonostante dalla sua bocca asciutta non uscisse alcun suono, gli uomini in marcia si accorsero subito di lei. Decine di crani rasati, con i globi oculari affossati in profondità, si voltarono verso la sua figura immacolata come se costituisse l'unica minaccia alla loro riacquistata esistenza.
Al passaggio della ragazza con i piedi scalzi e le vesti pulite, l'unica con i capelli castani ancora sulla testa, i festeggiamenti dei prigionieri vennero interrotti da una smorfia amara di sospetto. Non appena si accorsero della sua presenza agli incroci del Campo, molti dei sopravvissuti allo sterminio finirono per accalcarvisi intorno con l'intento di scrutarla da vicino. All'inizio, 111826 scelse di non preoccuparsene. Alla fine, però, se ne ritrovò circondata da ogni lato.
La folla in cammino, osservò, la stava giudicando con diffidenza, confusa dalla sua pelle ancora intatta e dalla corporatura ben nutrita; il suo seno era gonfio, troppo diverso da quello reso cadente dal dimagrimento eccessivo; i suoi fianchi larghi e fertili, incompatibili con la carestia e la pestilenza che aveva decimato Dachau negli ultimi mesi.
Non c'era più ragione di coprire il proprio ventre alla vista di quelle persone. La verità sulla sua condizione era lì, davanti agli occhi di tutti: 111826 era come loro, eppure estranea alle sofferenze che le carcasse ambulanti di Dachau avevano affrontato. Quasi colpevole di non aver patito abbastanza l'inedia, la malattia e la fatica.
Diversi dei presenti cominciarono ad indicarla, stillando per attirare l'attenzione dei liberatori.
- È una delle mogli! – gridò qualcuno nella sua vecchia lingua.
- Jest jednym z nich!1
Due uomini fecero per afferrare la sua bandiera, ma 111826 la strattonò con violenza pur di tenersela stretta. Continuò a guardarsi intorno, spostando lo sguardo da una torretta di controllo all'altra, per verificare che le guardie fossero sparite per davvero e non li avrebbero puniti. Non riusciva ancora a capacitarsi di quale forza misteriosa fosse riuscita a ripulire Monaco dall'armata nera che aveva dato inizio alla Guerra. Le SS sembravano essersi dissolte nel nulla e non c'era più traccia degli scienziati che l'avevano mutilata.
Tutti erano spariti, come un incubo al sorgere del Sole.
Prima che potessero toccarla e avventarsi su di lei, un militare saltò giù dal carrarmato più vicino e fece cenno ai prigionieri di disperdersi. Non sfilò la propria arma da fuoco dalla fondina, né fece finta di alzare la voce per intimidire il resto del gruppo. Quelli che le si erano raccolti intorno si tirarono indietro con assoluta fiducia, impazienti di veder saltare in aria la sua copertura. Quando l'uomo la raggiunse, però, 111826 si accorse che non si trattava di qualcuno di potente.
Sgranò gli occhi per metterlo a fuoco, poi batté le ciglia imbiancate di brina. A giudicare dalla sua divisa, basilare e sgualcita, e dal suo viso ancora giovane, il ragazzo doveva essere un soldato semplice. Si studiarono per qualche istante, poi lui le rivolse una domanda pacata, piegando leggermente la testa da un lato. Con curiosità, la fronte appena increspata.
111826 non riusciva a capire la sua lingua. Scelse di rimanere immobile, senza dire una parola.
Il ragazzo non aveva medaglie, né spille, solo un ingombrante elmetto incrostato di sporco e un cinturone pieno di oggetti di prima necessità. Lo vide tendere una mano inguantata verso la sua, arricciando appena le dita per spronarla, e la ragazza interpretò le sue intenzioni all'istante. Allungò il braccio tatuato verso di lui, mostrandogli il numero con cui l'avevano marchiata il giorno del suo ingresso a Dachau. Era sbavato, ma ancora carico di inchiostro.
L'uomo lo lesse tra sé e sé, senza alcuna intenzione di elencarne le cifre. Sembrava rifiutarsi di utilizzare il codice che la identificava, ma lo mostrò al resto dei prigionieri per rassicurarli sulle sue buone intenzioni. Poi tornò concentrarsi su di lei con rinnovato interesse.
Non appena si accorse del bambino che portava in grembo, le sopracciglia dell'uomo schizzarono in alto come se non si aspettasse che un posto come questo – in cui ogni cosa veniva cancellata senza lasciare traccia – potesse nascondere il bocciolo di una nuova vita.
- There's no way2, - bisbigliò, togliendosi l'elmetto.
- Where did you spring from, miss?
Si passò le dita tra i capelli per grattarsi la nuca. 111826 non poté fare a meno di notare che erano biondi come quelli dei medici che l'avevano tenuta rinchiusa nei laboratori, ma le esclamazioni del soldato non erano in tedesco, e lei non riusciva proprio a capirle.
Alzò le spalle, impedendosi di tremare più di quanto non stesse già facendo, e lui parve rassegnarsi all'incomunicabilità che li divideva.
Un po' per caso, un po' per impedire che la lasciasse di nuovo sola sotto gli sguardi inquisitori di tutta quella gente, 111826 indicò l'edificio da cui era fuggita.
Il blocco dei Dottori, con i suoi mattoni rossi e le porte incredibilmente spalancate.
Qualcuno tra i prigionieri trasalì, poi cercò di spiegarne la ragione al soldato. Tra mozziconi di parole e gesti che lasciavano poco spazio all'immaginazione, il messaggio venne recepito. L'uomo ingoiò a vuoto, un'espressione inorridita a incupirgli il viso sbarbato. Forse credeva di aver capito qualcosa di quello che si era consumato all'interno dei sotterranei dell'edificio. Una minima parte dell'orrore.
Ma non poteva nemmeno immaginare.
- Let's go, - disse, - prendendola per mano: - it's too cold down here.
111826 non oppose troppa resistenza quando l'uomo la portò verso il carrarmato da cui era sceso. Il suo compagno – che aveva assistito alla scena da qualche metro di distanza – si rificcò al di sotto del tettuccio di metallo e fece per rimettere in moto il loro mezzo. Il soldato l'aiutò a salire sulla superficie anteriore del cingolato, issandola lungo gli stretti pioli che ne consentivano la scalata, e una volta in cima - sospesa sopra l'esodo di esseri umani che marciavano verso l'esterno - 111826 lasciò che il soldato si prendesse la sua bandiera. La scambiò con una manciata di indumenti più asciutti e confortevoli, ma lei non gli permise di avvolgerle il cappotto verde militare intorno alle spalle, né si preoccupò di ringraziarlo per averla assistita. Fece tutto da sola, in silenzio. Il ragazzo rimase a studiarla mentre si avviluppava in una coperta di lana che avevano recuperato dall'interno del carrarmato, coprendosi dalla punta dei piedi congelati, fin sotto il mento. 111826 si rese conto che se non l'avessero soccorsa, nell'arco di qualche ora sarebbe morta assiderata. Era una considerazione scioccante. La faceva sentire fragile.
Il soldato sfilò una borraccia usurata dal suo cinturone porta-armi, poi glielo passò con un cenno gentile del capo.
- Coffee, - propose e per la prima volta lei afferrò il contenuto di quella affermazione con un certo entusiasmo. Prese l'oggetto con entrambe le mani, facendole appena sporgere da sotto il tessuto, poi avvicino la bocca al bordo della bottiglia. Il contenuto al suo interno era disgustoso, come acqua sporca di lavanderia, ma abbastanza caldo e dissetante da ripagarla di ventiquattro ore di sete assoluta. Il veicolo riprese ad avanzare verso il perimetro del Campo e la ragazza sussultò per lo spavento. Il ragazzo trattenne a stento il divertimento, spostando lo sguardo altrove, poi riprese a salutare con la mano tutti i prigionieri che gli fischiavano lungo il percorso, consegnando barrette di cioccolata e pezzi di carne essiccata e rispondendo alle esclamazioni di gioia di quelli che riuscivano ancora a tenersi in piedi.
Di tanto in tanto, il soldato si strofinava il naso con la manica, come a scacciare l'odore insopportabile di bruciato. 111826 riusciva ancora a respirarlo, ma il resto dei prigionieri ne sembrava immune, come se mesi di cremazioni e polvere nell'aria li avessero privati del senso dell'olfatto.
Entrambi lanciarono un'occhiata verso i forni, piombando improvvisamente nello sconforto. 111826 non si mosse di un millimetro, né sembrò rimanere impressionata dall'assenza di fumo nelle ciminiere. Il soldato invece pareva sul punto di vomitare.
All'improvviso, come se si fosse ricordato di un particolare importante o volesse distrarsi da un brutto pensiero, cominciò a scavare sotto il collo della propria divisa. Ne estrasse una medaglietta di metallo, di quelle che 111826 aveva visto indossare a tanti altri soldati prima di quel momento.
- Stephen Crowford, - disse l'uomo, battendo l'indice sulla superficie del ciondolo.
- That's my name.
Poi sorrise tentativamente.
- Steve will do, tho.
Stephen. Il Ragazzo si chiamava in quel modo. A quel punto era diventato chiaro che l'esercito che aveva conquistato una delle ultime roccaforti del Reich fosse americano. Dopotutto la bandiera che aveva trovato era rossa e blu, con stelle e strisce bianche a decorarne il tessuto. 111826 si ritrovò ad annuire per indicargli che aveva capito, poi prese un altro sorso della sua bevanda e fece scorrere gli occhi sulle scene surreali che si stavano rincorrendo tutt'intorno. Persone che si credevano credute per sempre e che venivano miracolosamente riunite. Coetanei di nazionalità diverse e con gli stessi stracci a righe che si prendevano sottobraccio per trascinare i più deboli verso l'esterno. Bambini con le mani sporche di zucchero, mentre i soldati li rifocillavano.
111826 non riusciva a capacitarsene.
Il soldato la incalzò con aria interrogativa: - What about you?
La ragazza non era convinta della risposta. Tese di nuovo il polso nella sua direzione, ma lui scosse la testa con aria inorridita: - no, no!
- "Nome", yeah? Your name!
Rispondere non avrebbe avuto alcun senso.
111826 non se lo ricordava, il proprio nome. Cercare di recuperarlo le faceva venire il mal di testa. Si strinse più forte nella coperta di lana e per un po' si perse nei festeggiamenti che diventavano sempre più rumorosi man a mano che la folla si avvicinava all'uscita di Dachau. Stavano per attraversare i cancelli, si accorse.
Per un secondo la scritta3 sopra le loro teste minacciò di inghiottire il cielo, come a segnare un confine tra il Mondo al di là di essa e l'Inferno a cui era stata destinata. Forse sarebbe accaduto qualcosa in quell'ultimo istante che la separava dall'esterno, e 111826 sarebbe rimasta bloccata nel Campo per l'eternità. Come migliaia di identità prima della sua.
Trattenne il respiro, col viso affondato nelle braccia conserte.
Attese.
Poi il carrarmato arrancò sulla poltiglia grigia del terreno e la scritta di metallo sfiorò la sua testa.
Non accade nient'altro.
Solo questo.
Era fuori da Dachau.
111826 premette la schiena contro la torretta di comando del mezzo, quasi stordita.
Frei.
Frei.
Wir sind frei4.
Che cosa avrebbe fatto, dove sarebbe andata, chi avrebbe trovato ad aspettarla: niente di tutto questo era scritto e messo al sicuro. Perché non le era rimasto niente, nemmeno un nome con cui potessero chiamarla. E come poteva esistere qualcosa, se nemmeno lei era certa di essere reale come un tempo, quando aveva avuto un passato? Che cosa si poteva costruire dall'assenza di ogni cosa? Di memoria, di famiglia, di speranza.
111826 schiuse debolmente il palmo verso l'alto, osservando i fiocchi di neve che si scioglievano contro la sua pelle. Il suo silenzio era così distante dalle grida di gioia di tutti gli altri che il ragazzo se ne sentiva intimidito. Aveva capito che fosse italiana come gran parte dei detenuti, ma non conosceva abbastanza parole per confortarla. L'unica cosa che gli venne in mente, l'aveva sentita per caso dalla radio di un commilitone, qualche notte prima, nel buio del loro accampamento.
Mise le mani a coppa davanti alla bocca e prese fiato.
- Vittoria! – urlò forte, scatenando una risposta più calorosa del previsto. Prigionieri e soldati reagirono all'esclamazione con lo stesso canto liberatorio, ripetuto ancora e ancora, come il ritornello di una canzone. Battendo le mani, alzando i pugni al cielo, fischiando al vento.
La ragazza fece scattare lo sguardo verso di lui, spalancando la bocca per la sorpresa.
Ogni singola forma di vita intorno a loro stava scandendo quella parola.
Familiare.
Nota.
Un bel ricordo.
Il giovane soldato le sorrise di nuovo e sulla sua guancia sinistra si formò una piccola rientranza.
- Abbiamo vinto, - disse maldestramente, con una nota leggera di imbarazzo a rendere la sua voce più roca. Sembrava che volesse scusarsi di non conoscere altre espressioni nella sua lingua, oltre quelle che doveva aver imparato sul campo di battaglia.
- Vittoria, vittoria! – applaudirono tutti e la ragazza sentì un calore furioso agitarsi al centro del petto. Un battito impaziente di spiccare il volo. L'ultima parte di lei a dover essere liberata.
Chiuse gli occhi e cominciò a intravedere qualcosa, sotto lo strato spesso di dimenticanza con cui la sua mente doveva averla protetta fino a quel momento5. Se il pericolo era scampato, forse poteva permettersi di ricordare. Poteva riprendersi ciò che era suo.
L'immagine di una vecchia casa in campagna, circondata da ginestre e campi da pascolo; una piccola chiesa di paese, custodita da persone a cui era convinta di aver voluto bene. La memoria di un padre e di una madre e di tanti fratelli che giocavano con ciottoli di legno scartati dal negozio di un falegname; delle amiche d'infanzia che la chiamavano per nome perché scendesse con loro giù al mercato.
Si voltò appena in tempo per guardare i cancelli del Campo farsi minuscoli e indistinti, poco più che un ammasso di ferro scurito dal gelo, poi si toccò la pancia nel punto in cui qualcuno aveva ripreso a scalciare. Il soldato se ne accorse. Sorrise.
Grato, contento.
Lei però non sì uni al resto del coro.
Si limitò a rigirare quel nome tra le sue labbra, tendendole sempre più in alto.
- Vittoria, - soffiò.
Vittoria.
Angolo dell'autrice: direi che dopo la tragedia tremenda dello scorso capitolo, ci voleva un po' di speranza, voi che dite? Finalmente abbiamo capito da chi Sybil ha ereditato la sua medaglietta, siete contenti? Vi presento Stephen Crowford, ma boy. E adesso lo posso dire, sebbene con una nota di malinconia: Vittoria e Stefano sono i nomi dei miei nonni, che mi mancano terribilmente e a cui voglio dedicare questa storia. Non ho note particolari, se non quelle che faccio di solito quando scrivo questo arco narrativo legato al passato: gli avvenimenti descritti sono ispirati a fatti realmente accaduti, come sapete ormai meglio di me. I soldati Americani liberarono davvero Dachau il giorno 29 Aprile 1945, scoprirono davvero che venivano effettuati esperimenti nei blocchi dei Dottori, ma riuscirono comunque a salvare dei superstiti, consegnando loro cibo, acqua e assistenza. La mia intenzione non è quella di romanticizzare fatti di gravità immane, dunque ci tengo a ribadire il mio assoluto rispetto nei confronti dei temi che hanno ispirato la storia.
Questo era l'ultimo capitolo su Vittoria all'interno del primo libro. Spero che saperla fuori da quell'Inferno vi porti un po' di sollievo. Ora dovrete scusarmi perché non so quanto impiegherò per il finale: farò del mio meglio, promesso, ma mi trovo ancora incredula nel realizzare che siamo quasi arrivati. Se vi va lasciate un commentino e una stellina, grazie.
Faccio a tutti i miei migliori auguri e vi lascio alle note:
1. Jest jednym z nich: in Polacco significa "è una di loro".
2. Traduzione di tutti i dialoghi in inglese all'interno del capitolo:
Non è possibile. Lei da dove sbuca fuori, signorina?
Andiamo, qua sotto fa troppo freddo.
Caffè.
Stephen Crowford, è il mio nome. Puoi chiamarmi Steve, comunque.
Tu come di chiami? No, (non il numero), il tuo nome!
3. Scritta: come sicuramente avrete studiato, all'ingresso di alcuni campi di concentramento veniva posta la scritta "il lavoro rende liberi".
4. Wir sind frei: siamo liberi, in tedesco. Vi ricordo che Vittoria ha imparato il tedesco durante la sua permanenza al campo, fatto non troppo raro per i prigionieri che cercavano di sopravvivere.
5. Dimenticanza: era assolutamente comune (e giustificato, direi) che i sopravvissuti agli orrori della Seconda Guerra Mondiale sviluppassero disturbi post traumatici da stress o altre patologie di natura psichiatrica. Uno dei sintomi più conosciuti di queste esperienze traumatizzanti è proprio "l'oblio". Ormai è scientificamente provato che il nostro cervello ci protegge dai ricordi dolorosi, rimuovendoli anche completamente. Nelle forme più acute e gravi, le persone possono addirittura perdere la coscienza per qualche ora e ritrovarsi in un luogo diverso da quello che ricordavano, senza sapere chi sono e come ci sono arrivate.
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