4. La parabola descritta da un coltello che cala
Moto parabolico: detto anche moto del proiettile; è il moto di un corpo che partendo con una certa velocità iniziale ed un certo angolo percorre una traiettori a forma di parabola, sotto l'azione della forza di gravità.
Nessuno dei due ha voglia di parlare. Dopo quello che ho scoperto, sembra un miracolo che io riesca anche solo a pensare.
Alphy tiene la testa china e si mantiene occupato contando le pozzanghere sulla strada; io cammino poco più avanti, saltando su e giù dal marciapiede vinto dalle erbacce. Approfitto del silenzio per controllare il telefono, ma mia madre non ha ancora provato a contattarmi da quando sono uscita, così lo spengo per salvare la batteria e smetto di preoccuparmene.
Avanziamo piano, facendo finta di non notare i mazzi di fiori secchi alle porte delle case in lutto. Contempliamo la povertà, quella vera, da periferia: fino a qualche anno fa pareva distante come un miraggio sfuocato, ma adesso è di una familiarità così implacabile che ci ho fatto l'abitudine. La mia famiglia tira avanti grazie alle borse di studio di Lilith, ma la maggior parte delle persone che conosco non riesce ad arrivare a fine mese e di questi tempi tutta la città è periferia. Gran parte del Mondo lo è. Eppure, tutti fanno finta di niente. Pigrizia? Rassegnazione? Sfinimento. Da troppi anni paghiamo i danni di quello che è successo in giro per il Mondo e lo facciamo senza neppure discutere, tanto ci spaventano le minacce dei media. Il sistema può crollare da un momento all'altro, è questo che affermano. E allora tutti tengono le proteste per sé, soffocando il malcontento nonostante le tasse, la corruzione, la privatizzazione della sanità e il tasso di disoccupazione in continua crescita; e l'infinito rinvio delle elezioni presidenziali, certo. E i cambiamenti climatici. La mia idea è che ci abbiano ammaestrati per bene, come animali in una fattoria.
Mi gratto una spalla da sopra il cappotto. Il prurito alle braccia è incessante, ma l'aria fredda della sera mi dà sollievo. Ogni tanto io e Alphy ci fermiamo per evitare piccoli gruppi di giornalisti che se ne vanno in giro a intervistare i passanti, ma dal mio canto non ho alcuna fretta di arrivare a casa. Non c'è nessuno ad aspettarmi e comunque stare all'aperto mi piace: i guai si ridimensionano sotto un cielo infinitamente più grande di tutto il resto; si spengono sotto le stelle, riducendosi a gocce nell'oceano della notte.
- Mi dispiace per quello che è successo all'ospedale, - gracchia Alphy ed è il primo di noi due a rompere il silenzio. Lo vedo fare di nuovo quella cosa con il cappello, mentre se lo preme sulle tempie con entrambe le mani. È di qualche centimetro più basso di me e le sue gambe fanno fatica a tenere il mio passo, così mi sforzo di rallentare.
- Sono stato un vigliacco, - sospira.
Sì, sei stato un vigliacco: per poco non lo dico. Poi però gli do un buffetto sulla spalla e scuoto la testa per lasciar cadere il discorso. Non sono nessuno per poterlo chiamare "codardo": Alphy stava solo facendo i conti con ciò che aveva scoperto e nessuna delle sue ipotesi pareva riportare. Calcoli su calcoli e nessun risultato.
- Credi che Lilith conoscesse gli attentatori?
Il mio respiro si condensa in grosse volute di vapore che appannano le lenti di Alphy fino a nasconderlo. Si sfila gli occhiali per sfregarli contro i jeans e distoglie lo sguardo dalle luci fluorescenti dei lampioni. Ha gli occhi cerchiati di viola, quasi non ricordasse l'ultima volta in cui è riuscito a riposare.
- Sì, - ingoia, ma la sua risposta non mi stupisce. È molto più facile immaginare che Lilith fosse a conoscenza di qualcosa. Pensarla all'oscuro di tutto è inverosimile, come una stonatura nel ricordo vivo che ho di mia sorella.
- È che... Lilith non avrebbe mai messo a repentaglio la vita di tante persone.
Tiro un calcio a una lattina di soda e per stasera rinuncio a trovare un senso a tutta questa faccenda.
- Lo so, - dico solo, poi riprendo a camminare alla mia andatura.
L'illuminazione delle strade in questa parte della città fa venire i brividi: trema e si spegne di continuo, come affetta da un malfunzionamento ciclico. È snervante.
Nel quartiere rischiarato a intermittenza io e Alphy sembriamo solo delle figure che si confondono sulle pareti fatiscenti, ma lui non pare farci troppo caso: ha insistito per avvertire sua zia del nostro ritardo, ma la chiamata dura più del previsto. A quanto pare, Alphy non è capace di farsi valere abbastanza da tagliare corto, così gli faccio da guida silenziosa e metto le giuste distanze tra di noi. Averlo vicino è strano in un modo che non riesco ancora a spiegarmi.
Svolto lungo qualche traversa, schivando cumoli di immondizia e cocci aguzzi di bottiglie, e improvvisamente riporto alle mente un particolare che fino a questo momento mi era sfuggito.
- Mi sono appena ricordata di qualcosa, - dico ad Alphy, ma lui fa cenno di aspettare.
- Quando perdi il controllo i test si attivano, - blatero. Se attivi i test, prenderanno anche te: perché diavolo mia sorella avrebbe dovuto uscirsene con una stramberia del genere nel giorno in cui è scomparsa? Che scherzo aveva in mente?
Manca poco a casa mia quando mi accorgo che la strada è sbarrata. Alphy è ancora a telefono, ma appena fa caso alle transenne rosse e bianche che chiudono il passaggio, inventa un guasto alla linea e lo mette via.
- Prima non c'era, - osserva, scrutando oltre i segnali di divieto. Quello che ci ritroviamo davanti è un blocco stradale della polizia. No, inalo, non della polizia. Della USD.
Capisco subito che è impossibile compiere qualche bravata per scavalcarlo. Il simbolo a forma di scudo del dipartimento di difesa spicca al centro di un grosso triangolo e dei fari lampeggianti rimandano a un passaggio obbligato sulla sinistra. A dirla tutta, ci sono più insegne al neon che nel piccolo lunapark in cui andavo da bambina.
- Dobbiamo fare il giro lungo, - sbadiglio. Realizzo di essere troppo stanca per cercare una scorciatoia, quindi mi limito a seguire le indicazioni della USD e rimando a più tardi le spiegazioni.
Finiamo qualche isolato più in là, dove le case sono pericolanti e disabitate a causa delle emigrazioni di massa. Dopo la Rottura, le autorità cittadine hanno promesso la demolizione di tutti gli edifici abbandonati di Marshall, rimandandola a quando spunteranno i fondi necessari per buttarli giù. Se la smettessero di intascarsi i nostri soldi, magari.
Ci fermiamo a un vecchio incrocio per fare il punto della situazione.
- Sarà evaso qualche serial killer, - sdrammatizzo, passandomi il pollice sotto la gola. Il colore abbandona le guance di Alphy e i suoi occhi sbarrati gli occupano l'intero viso. Fifone.
- Sto scherzando, Ranulph. Scherzando, hai presente? Secondo me si tratta di qualche ronda. Vedi di non svenire, okay?
- Avremmo dovuto chiamare un taxi, - sbuffa lui, - le strade di sera sono molto pericolose e dopo quello che è successo...
- Di cosa hai paura? – lo pungolo.
- Di certo non verrai attaccato dai Nazgul, Alphy, perché in effetti non esistono.
- Sai dove siamo? Sai almeno di cosa stai parlando?
Mi metto le mani sui fianchi con una certa indiagnazione: - Credevo fossi un nerd.
- Lo sono, - puntualizza, - e se non facessi parte di quel novantanove percento di individui che fraintendono il significato del termine "nerd", probabilmente lo sapresti.
- Tu e Lilith siete fatti l'uno per l'altra, - sospiro, poi aspetto che rida; che giri i tacchi per andarsene, o che al massimo si arrabbi per aver fatto la mia solita battuta. Ma Alphy non lo fa. Si limita a guardare fisso sopra la mia spalla, scosso da un tremito violento, come se alla luce fredda della luna avesse visto la Morte incombere su di me.
- Che ti prende? - gli chiedo.
Lui apre la bocca per urlare. Incredibilmente, però, il suono della sua voce mi giunge distorto - niente di più che un'eco vibrante – e viene coperto dallo scricchiolio delle mie ossa sull'asfalto quando un uomo mi prende per i capelli, mi alza in aria e mi lancia dall'altra parte della strada.
***
Sento in bocca il sapore del ferro e dell'acqua sporca. La testa non mi gira, e nonostante l'urto non svengo. Tutto il resto però fa un male cane e a ogni respiro sembra quasi che le costole stiano per bucarmi il torace come spine di vetro. Cerco di rialzarmi facendo leva sulle braccia fasciate, ma le ferite si sono riaperte. Bruciano. Sanguinano. Tingono le fasciature di nero. Quel nero che assorbe la radiazione della luce perché è scienz -
Alphy. Riapro gli occhi per lui che è il primo pensiero non sconnesso che riesco ad afferrare. Non lo so che cosa provo nel vederlo steso a terra come un corpo esanime. Per un po', semplicemente, non provo niente. Per un po' non sono disposta a credere che stia succedendo davvero.
Un uomo alto e vestito di nero dalla testa ai piedi ha una mano stretta attorno al suo collo; con l'altra invece si sfila un aggeggio dalla forma allungata dalla giacca e glielo punta sotto il mento.
Mi sembra di guardarli da un posto lontanissimo, dove posso concentrarmi sui particolari della scena senza fare alcun rumore: osservo le labbra di Alphy che diventano blu e i suoi capillari che scoppiano, iniettandogli le orbite di sangue, poi il coltello impugnato tra le dita dell'uomo. La vista dell'arma mi riaccende. Un primo impulso mi suggerisce di chiedere aiuto a qualcuno, ma quando provo a parlare tossisco rosso e sono costretta a rinunciare. Prendo in considerazione l'idea di scappare mentre l'uomo è ancora occupato a strangolare Alphy, ma l'unica immagine a cui riesco a pensare è quella di mia sorella Lilith. Lilith che viene portata via, senza che riesca a salvarla; io che scappo senza di lei, mentre mi guarda come se se lo aspettasse; come se fosse scontato, per me, abbandonare le persone quando ho paura.
Mi alzo in piedi e mi pulisco il fango dalla faccia. Non abbandonerò Alphy.
Comincio a muovermi prima ancora di averlo deciso, lanciandomi sull'aggressore con tutta la forza di cui sono capace. Gli stringo le braccia attorno al collo come ho visto fare in qualche centinaio di film e tiro.
- Lascialo andare! – abbaio, perché delle volte i cliché sono l'unica opzione che ti resta. L'uomo non sembra notarmi, così appesa sulla sua schiena e i miei sessanta chili non rappresentano una garanzia.
Affondo le unghie nella stoffa della sua giacca per tenermi, ma quest'uomo deve essere strafatto, o non mi spiegherei il suo livello di resistenza. Eroina, metanfetamina? I cristalli sono diventati il business più produttivo dal New Messico al Nebraska.
Ruggisco di frustrazione e faccio la prima cosa che mi passa per la testa: affondo i denti nella sua spalla, serrando la mascella come un animale, ma è come mordere un pezzo di carne congelata, o ricevere un pugno dritto in bocca. La pelle dell'uomo è dura, fin troppo resistente, e si lacera solo quando rischio di slogarmi la mandibola. Un'esplosione di liquido salato mi bagna le labbra, provocandomi un conato di vomito. L'uomo però mugugna per il fastidio e molla la presa.
Alphy emette un suono spaventoso, come un risucchio, e il suo petto torna a rialzarsi. L'aggressore mi scrolla via e con uno schiaffo, spingendomi tra due braccia magre che mi si artigliano intorno ai fianchi.
- Piccola bestiolina feroce! – sputa qualcuuno.
La testa mi pulsa incessantemente. Non riesco a vederla, ma sento l'alito fresco di una donna sull'orecchio. Una complice, indovino. Adesso siamo due contro due.
Alphy striscia per raggiungermi, con le punte delle dita che graffiano l'asfalto umido. Sta pregando l'uomo con voce impastata, ma ha la faccia così gonfia che non riesce a parlare.
- Che cosa volete da noi? – ansimo.
- Non abbiamo denaro, né oggetti di valore!
La donna mi schiaccia un piede con il tacco dello stivale, così appuntito da perforarmi la gomma delle sneakers. Le sue sono scarpe troppo costose per poter essere indossate dal membro di una gang di strada.
- Sareste dovuti rimanere due anonimi ragazzini annoiati, - sospira.
- Scommetto che non era difficile vivere la vostra insulsa esistenza da parassiti senza dare troppo nell'occhio.
La donna ha un accento strano, tutto suoni duri e gutturali.
- E invece eccoci qua: a puntarvi due rudimentali coltelli da cucina alla gola per sistemare questo disastro.
Arrabbiata. Realizzo di essere così furiosa che neppure il panico trova spazio tra le emozioni che mi ribollono all'interno. Prima c'è stato l'attentato, adesso questo. Sono stufa della sfortuna sempre sopra la mia testa, della follia nella quale mi sono persa, dell'uomo che riempie Alphy di calci.
Smetto di combattere contro la presa della donna e mi giro a guardarla. Poi le sputo un grumo di sangue sul viso. E funziona.
La donna mi scaraventa a terra, puntandomi un coltello al centro della fronte. Adesso riesco a vederla dritta in faccia.
- Tu, - sibila, ripulendosi la guancia come se fosse contaminata. Le provo tutte pur di levarmela di dosso, ma non ottengo alcun risultato. Ho sempre pensato che i maniaci si riconoscessero dall'esaltazione febbrile negli occhi, ma lei mi squadra con assoluta professionalità. Ha un aspetto strano, androgino. Se i lunghi capelli biondi non le ricadessero sulle spalle, non sarei capace di definirne il sesso. Per un breve istante l'umo si concentra su di noi e io mi accorgo che la somiglianza tra i due aggressori non può essere casuale. Sono fratelli.
- Avete preso le persone sbagliate! – singhiozzo.
L'uomo ride di gusto, ma sua sorella non sembra altrettanto divertita. Fa scorrere la lama lungo la linea del mio naso, senza fare pressione e il sudore che mi appiccica i vestiti al corpo diventa gelido.
- Tu e lei siete così identiche che non c'era alcun rischio di commettere errori. Adesso da brava, lasciami lavorare. Quest'arma volgare è una seccatura sufficiente.
Lei? Lei chi? Che stia parlando di -
- Velocità di ripresa del moccioso? - chiede, rivolta al fratello. L'uomo si limita ad arricciare il naso per lo sdegno.
- Nulla.
- Capacità di reazione?
C'è una risata sarcastica a fare da risposta.
- Facciamola finita, allora. Uccidi lui. La ragazza viene con noi.
Nello stesso istante in cui la donna alza il coltello sopra la mia testa per tramortirmi con un colpo del manico, l'uomo stringe la presa sul suo e fa per calarlo su Alphy. Il tragitto della lama segue una linea particolare, così perfetta da risultare quasi armonica. Come una parabola dalla curva accentuata.
Lilith lo diceva degli aeroplanini di carta che cercavamo di far volare da piccole. I suoi rimanevano in aria sempre più a lungo, piroetta dopo piroetta.
È un pensiero sconneso, immagino.
Respiro piano.
Per mia sorella era tutta una questione di coordinate e di accelerazione verticale, per me di vento tra le ali. Ma i suoi volavano più in alto.
Chiudo gli occhi e aspetto che sia finita, senza nemmeno sapere perché stia finendo davvero. Poi però c'è un sibilo acuto, seguito da un colpo secco e dal rumore della carne che frigge.
Li riapro.
***
La donna è in ginocchio e un ago sottile le spunta all'altezza della coscia destra. Trattiene a stento le imprecazioni mentre prova a portare a termine il lavoro nonostante tutto, ma è come se la sua testa scattasse in spasmi incontrollati e l'unica mano capace di muoversi fosse quella che non stringe il coltello. Quando se ne accorge, un lampo di delusione le attraversa il viso e la donna mi sembra quasi sorpresa.
Ci guardiamo. Io alzo il pugno per spaccarle la faccia, la testa, tutto. Alla fine, però, apro le dita e le richiudo attorno al manico del coltello, scandendo un'unica parola con solennità: - Fottiti.
Balzo in piedi per salvare Alphy. Chiamo il suo nome a perdifiato, ma l'arma è pesante. Pesantissima. Tenerla stretta mi dà le vertigini.
L'uomo lascia andare Alphy e si butta sulla sorella per farle da scudo, senza nemmeno preoccuparsi di me. È un gesto strano, che mi lascia interdetta. Che sta succedendo? Perché sta per succedere qualcosa, o non ci starebbero fissando tutti con il fiato sospeso.
Me ne accorgo solo adesso, quasi per istinto. Tutti. Ogni singola persona nascosta nell'ombra delle case disabitate, dove prima non l'avevo notata.
Abbasso lo sguardo sulla miriade di puntini rossi che spiccano sul mio corpo e vedo ciò che stanno cercando le sagome appostate nel buio. Me. Un bersaglio.
- O mio Dio, - soffio.
Intorno a noi scoppia il finimondo.
***
Due furgoni sfondano un recinto abbandonato e piombano in strada. Dalle finestre all'angolo della via partono colpi di pistola a silenziatore, emettendo una scarica di fischi metallici, e io colgo il bagliore dei loro proiettili sulla strada mentre corro alla cieca per raggiungere Alphy.
Respira. È ancora vivo.
Rido istericamente nell'incavo del suo collo insanguinato e senza una precisa ragione comincio a pensare al formaggio svizzero pieno di buchi. È assurdo quanto tutto questo sia grottesco.
Grottesco, sì. Potremmo finire come il formaggio.
La mia crisi di nervi è l'ultimo dei nostri problemi in questo momento: Alphy ha un taglio sul fianco, ed è pallido come il sudario di un morto. Delle figure incappuciate, invece, stanno sfrecciando al centro della via. Potrebbero esserci decine di persone, qui.
- Qualcuno ci aiuti! – grido, senza lasciar andare il coltello.
I proiettili sfondano i vetri delle case, ma rimbalzano contro la carrozzeria dei furgoni sbucati sull'asfalto. Mi dico che forse possiamo sopravvivere e vedere un'altra alba; che magari posso trascinare Alphy e chiamare la polizia.
Uno sparo mi sfreccia a pochi centimetri dall'orecchio, poi vicino alla spalla, raggelandomi il sangue nelle vene.
D'improvviso un piccolo disco autocomandato si alza dal tettuccio di un furgone e vola sopra di noi, disegnandoci intorno un cono di fumo.
Alphy mi viene strapappato dalle braccia quando due uomini mi caricano di peso senza che possa dire o fare qualunque cosa.
Uno di loro mi scaraventa nel furgone più vicino e preme il suo corpo contro il mio per tenermi ferma, bloccando la sicura della portiera. Cerco di piantargli il coltello nella schiena, ma lui riesce a disarmarmi in un secondo.
C'è un istante in cui il cappuccio gli scivola dalla testa e per poco non rimango senza fiato. Un ragazzo dalle iridi come fili d'erba mi soffia via i capelli dalla faccia.
- È così che ringrazi il principe che è venuto a salvarti? – domanda.
Io gli infilo il dito medio nell'occhio. Il principe che è venuto a salvarmi mi mette le manette e mi chiude un casco sofisticato intorno alla nuca per tapparmi occhi, naso e bocca.
- Homo Sapiens, - sbuffa, - che razza di animale.
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