16. La scoperta della materia oscura - Parte I
Note: chi non muore si rivede ma è sommerso dai tomi di anatomia e non ha più nemmeno il tempo di respirare. Non ho mai sopportato l'idea di dividere i capitoli in due parti, ma questa volta ho voluto fare un'eccezione. Perché? Perché la prima metà del capitolo era pronta (verrà al massimo modificata in seguito alla pubblicazione dell'altra), perché è Natale e dei lettori così splendi si meritano un regalo, perché non ha senso farvi aspettare più del dovuto. Spero vi piaccia. Tanti auguri di buone feste!
16. La scoperta della materia oscura
Materia oscura: in cosmologia rappresenta un'ipotetica componente di materia che non è direttamente osservabile. Pare che essa, a differenza della materia conosciuta, non emetta radiazione elettromagnetica e si manifesti unicamente attraverso gli effetti gravitazionali; non manca quindi di massa, ma di luce.
(PRIMA PARTE)
- Fa strano tornare lì, - dico.
- Sì.
- Voglio dire...Non solo a scuola.
- A Marshall.
A casa.
- Sì.
Alphy appoggia il mento contro lo schienale del mio sedile. Trattiene le palpebre socchiuse, con gli occhiali storti sul naso a deformargli lo sguardo e il naso gonfio per il raffreddore.
Parliamo poco o niente.
Per la maggior parte del tempo ascoltiamo la partita dei Twins alla radio e il commento dei telespettatori una volta che è finita. Stracciamo gli Yankees dieci a uno, e visto che non è mai successo prima nella storia dell'umanità, sembra quasi di buono auspicio.
Ci vogliono almeno due ore prima che Nicholas stacchi gli occhi dalla strada ed esordisca con quel suo tono da sputasenno: - Sapete entrambi quello che dovete fare, - taglia corto.
Studio le sue mani sul volante.
Sono salde, ma la sua presa non lascia trasparire alcuna apprensione.
Rispondiamo in coro con il tono esasperato di chi si è ripetuto all'infinito.
- Sì!
- Come se non fossimo abbastanza in ansia, - aggiungo io.
Nicholas mi guarda in cagnesco: è chiaro che voglia aggiungere qualcosa. Ci riflette a lungo, aggrottando le sopracciglia come gli capita quando è concentrato, e alla fine opta per un'intimazione efficace.
- Dico sul serio, non fatevi ammazzare.
All'inizio sembra stupido anche solo starlo a sentire, un consiglio del genere, perché insomma, che cosa potrebbe davvero succedere di così grave? Poi consideriamo che l'ultima volta che siamo andati a scuola sono morte quarantuno persone.
Ragazzi della nostra età, perlopiù.
Ci ritroviamo ad annuire.
Quella di Nicholas è tutto tranne che una cattiva idea.
***
Mi sfrego le mani davanti alla bocca, soffiandoci sopra per riscaldarle.
Fa freddo. Non come quando eravamo piccoli e l'Inverno paralizzava la provincia, ma abbastanza da farci desiderare un cappotto più pesante e imbottito, che ci tenga al riparo dall'umidità. Le strade sono bagnate e le suole di gomma delle mie scarpe scricchiolano ad ogni passo, stridendo contro l'asfalto. Richiamerei l'attenzione di tutto il quartiere, se solo fosse rimasto qualcuno nel raggio di un chilometro. E invece è come se sulla città si fosse abbattuta una pioggia di meteoriti: c'è un grande cratere nel punto esatto in cui la scuola è esplosa, e tutt'intorno la rovina, con le case incrostate dal fumo e i frammenti di vetro accumulati nelle buche dei marciapiedi e le pareti spaccate dalle alte temperature. Ho sempre pensato che dopo la Rottura, tra l'esaurimento dei fondi pubblici e tutto il resto, Marshall fosse stata terribilmente trascurata, ma adesso dà proprio l'idea di una discarica.
Mi mette a disagio, non lo nego. Vorrei che nessuno la vedesse in questo stato, come se mi appartenesse, o una parte di me le appartenesse, e una fetta della sua decadenza potesse imputarsi a me.
Vorrei non essere qui.
Ma devo esserci, fine della discussione.
- Va tutto bene, creaturina?
Nicholas rallenta il passo, sincronizzandolo al mio. È stato lui a guidare fino a qui, approfittando della distrazione di Xanders e Amelia, impegnati con il rientro dei ragazzi, per strappargli un giorno nelle Twin Cities. All'inizio sembravano sorpresi che io, Nicholas e Alphy avessimo concepito di passare del tempo insieme, ma è bastato poco per convincerli: ho riservato a Xanders una faccia contrita, supplicandolo che avevo bisogno di una giornata normale e di un hot dog e di una partita di baseball, e un'ora dopo eravamo in viaggio. Non siamo mai arrivati al Target Field, comunque, ma la felpa dei Twins l'ho indossata lo stesso.
In questo preciso istante l'automobile messa a disposizione per Nicholas dalla Villa è parcheggiata dietro casa mia, al riparo da occhi indiscreti. Mi confonde il fatto che in quello che è rimasto dell'Europa, prima dei diciotto anni, non avrebbe nemmeno potuto prendere la patente; sono costretta ad ammettere che è un ottimo pilota, prudente e controllato. Gli ho chiesto se non fosse stato il caso di infilarci dei caschi per impedirci di riconoscere il tragitto dalla Villa a casa mia, ma Nicholas si è limitato a ridermi in faccia. So praticamente tutto dei Novi come lui: un segreto in più o uno in meno, che cosa cambia?
- Creaturina, - ripete, squadrando lo scheletro carbonizzato dell'edificio alla fine della via.
Io faccio spallucce, premendo la bocca sul bordo della sciarpa. Da quando abbiamo messo piede a Marshall non c'è stato molto di più di cui parlare, senza contare che Nicholas conosceva perfettamente la strada per la scuola e non ha avuto bisogno di indicazioni.
È solo che più ci avviciniamo, più sento che fin dall'inizio avrei dovuto dirgli qualcosa. Qualunque cosa; commentare quello che vedevo, magari, per spezzare il silenzio.
Sono contenta che ci abbia pensato lui.
- A dire il vero no, - rispondo alla fine, continuando a strascicare i piedi. Di tanto in tanto le nostre spalle si sfiorano e Nicholas mi rimprovera disfunzioni alle macule vestibolari, senza peraltro conquistarsi la mia attenzione. I suoi discorsi sono sempre stati troppo criptici, fin dal primo momenti in cui ci siamo conosciuti.
Mi stringo nella giacca.
Non l'ho ancora ringraziato per il fatto di avermi accompagnata, ma apprezzo che stavolta sia venuto di persona e non mi abbia abbandonata con solo un piano scritto sulla carta. È inutile domandarsi ancora perché lo stia facendo davvero: ciò che conta è che sia qui, pronto ad affrontarne le conseguenze.
Nicholas sembra decifrare la mia spenta loquacità.
- Non devi entrare per forza, - propone, - e comunque tu e il ragazzo solitario mi sareste solo d'intralcio.
Inchiodo le gambe.
Sono le quattro e ventisei del pomeriggio e sta arrivando un temporale. Siamo arrivati davanti alla scuola, o quello che ne resta: cenere impregnata dalla pioggia, macerie accumulate negli angoli e segnali di pericolo. A primo impatto non riesco nemmeno a sostenerne la vista, così rivolgo una lunga occhiata a Nicholas. La sua espressione resta divertita fino a quando non reagisce con la mia, cambiando pelle e facendosi seria.
Registro la presenza di Alphy alle nostre spalle e il suo respiro improvvisamente corto, e per qualche secondo non riesco a trovare il mio. Lo riacciuffo quasi per caso, quando mi sento dire a bassa voce: - Ce la faccio.
Nicholas dissimula sapientemente il barlume di sorpresa nel suo sguardo. Credo che si aspettasse di venire insultato, o al massimo che cominciassi a piangere e mi rifiutassi di tornare nel posto in cui stavo per finire al forno.
Nel luogo in cui sono quasi morta, cioè: non c'è battuta che regga, in casi come questi.
Ma per una volta Nicholas si sbaglia.
Fruga dentro il suo zaino di pelle scura e mi passa una torcia. Mi accorgo che i suoi occhi nelle giornate plumbee sono di una tonalità così fredda da far venire i brividi; si distolgono dai miei con noncuranza non appena alza la mano per afferrare la fascia di plastica che circonda il perimetro dell'Istituto.
- Lo so che ce la fai, - mormora stizzito.
- Sarei uno stupido se non lo avessi ancora capito, ma voglio che tu sia consapevole del fatto che non sei obbligata a tornare in questo posto. Posso entrare da solo.
Potrebbe, certo. Il problema è che non abbiamo tutto il pomeriggio, e le distanze tra i tre armadietti di Lilith - uno nell'aula di scienze, uno in palestra, il terzo nei corridoi – sono troppo lunghe per essere coperte con agilità da una sola persona.
E poi c'è che Alphy non è mai stato compreso nella spedizione: farà da guardia a un centinaio di metri circa dalla scuola, senza dare nell'occhio.
Lo preferisco, in realtà.
Non posso permettermi di pensare alla sua sicurezza: ho fin troppe responsabilità per una persona sola, figuriamoci se posso caricarmi un altro sacco di preoccupazioni sulle spalle.
Ripasso mentalmente i nostri compiti.
Abbiamo studiato i referti della polizia sullo stato dell'edificio, scoprendo che molte delle vie d'accesso alle aule sono bloccate. Nicholas ha tracciato i percorsi più sicuri da seguire, ma non potremmo mai essere certi al cento per cento di quello che troveremo una volta messo piede nella scuola: una trave potrebbe caderci in testa, nuovi calcinacci potrebbero aver ostruito il passaggio e l'aria potrebbe essere ancora difficile da respirare.
Dopo qualche secondo scuoto la testa con decisione e l'elastico sul bordo del mio cappello si fa insopportabilmente stretto, come una tenaglia. In un gesto automatico piego la schiena per passare sotto la fascia rossa e bianca che separa la scuola dalla strada e non so che cosa credessi sarebbe successo una volta scavalcata la recinzione, ma in un battito di ciglia mi ritrovo dentro all'area in quarantena.
Ed è tutto uguale.
Tutto a pezzi, ma uguale a prima. Solo che adesso Nicholas è ritto dietro di me, con il braccio ancora alzato e il profilo aguzzo che non pare troppo impressionato dalla determinazione che mi sforzo di dimostrare.
- Andiamo? – gli chiedo.
Lui sbuffa mentre saluto Alphy con un cenno della testa.
Forse mi vede ancora come una palla al piede da trascinare sul terreno congelato.
Però mi segue.
***
Riesco ancora a intravvedere Alphy in lontananza, ma la sua immagine è sfuocata dalla foschia. Io e Nicholas ci guardiamo intorno con la torcia già accesa, nonostante sia ancora abbastanza giorno da illuminare dove mettiamo i piedi. Scegliamo di ignorare i tuoni, finché ci riusciamo. I tuoni e i lampi.
Avanziamo.
Credevo che avrei riconosciuto ogni centimetro di questo posto, e che il panico sarebbe sgusciato da sotto i mattoni e i pezzi di solaio, come una creatura viva. Quello che avverto mentre attraversiamo il cortile, invece, è che non ci sia niente di vivo qui attorno. Ammetto di sentirmi spaesata: più cerco di ricordarmi la scuola com'era fino a poco tempo fa, più mi sembra di addentrarmi in un territorio straniero. Questa assomiglia piuttosto a una versione parallela e oscura dell'istituto in cui ho speso gli ultimi quattro anni della mia vita, deserta e immersa nella penombra.
Mi prude la gola, tanto la scuola è satura dell'odore della plastica bruciata e dello sporco trascinato dal vento. Per un po' ho il terrore di veder sbucare delle macchie di sangue sull'erba, ma poi realizzo che la terrà l'avrà riassorbito per imbeverci le radici del prato; l'idea mi apre un buco nello stomaco e allora le provo tutte per smettere di pensarci. C'è un trucco per non dimenticarsi di essere sopravvissuta?
Nicholas mi accompagna a una delle entrate principali e quasi stento a riconoscerla, ridotta in questo stato.
- Ala nord, - dice.
Annuisco.
- Ti ricordi qual è il piano? Segui il corridoio, svolta a sinistra e poi destra. Girati verso il campo d'atletica, sali le scale e troverai la porta dell'aula di scienze. Dentro la stanza c'è una piccola fila di armadietti: quello di Lilith è l'ultimo, addossato alla parete.
- Questa parte dell'edificio è la più sicura. Non c'è alcun rischio di crolli, - assicura, - ma fa attenzione.
Con l'indice ricalco la targa che indica quali aule sono ospitate in questo lato dell'edificio.
Nicholas ha ragione a ritenerlo il più semplice da esplorare, ma è da stamattina che non riesco a smettere di riflettere su quanto sia sbagliato che sia lui a entrare nel posto in cui ho visto mia sorella per l'ultima volta. Quel groviglio di corridoi stava per prendersi la mia vita.
In parte ci è riuscito.
È così strano che voglia scoprire che cosa ne è stato? Che cosa ne sia rimasto dopo che le fiamme ci hanno circondato e il fumo ha riempito ogni millimetro di spazio? È disturbante che voglia seguire le orme dei soccorritori di Lilith, e capire come siano riusciti a portarla via senza che nessuno a parte me, nessuno se ne accorgesse?
Nicholas fa scoccare le dita sotto il mio naso.
- Creaturina, mi stai ascoltando?
- O ci sei, o ci sei, - sbotta, - Concentrati.
Mi riscuoto una volta per tutte.
Nicholas ha centrato il punto. Devo usare la testa, riprendere il controllo. Non posso lasciarlo andare come le altre volte, perché nel momento esatto in cui ci addentreremo nell'edificio un errore potrebbe esserci fatale. E c'è più di questo: Nicholas e Alphy stanno rischiando troppo perché io ceda alla morsa della tensione. Mi tiro giù il cappuccio dalla testa e controllo che ci sia linea sul cellulare. C'è. So che cosa fare.
- Facciamo a scambio, - dico.
- Vado io nell'ala est.
Nicholas ride di gusto.
- Categoricamente no.
- Facciamo scambio, ho detto.
- Potrebbe crollarti addosso qualcosa!
- Anche a te potrebbe crollare addosso qualcosa, e sei stato molto chiaro in passato su chi di noi due sia più utile alla società.
Nicholas rotea gli occhi, poi li infilza nei miei.
- È una follia, - si lamenta, - hai i riflessi di una tartaruga di terra.
Pensavo di essere stata abbastanza chiara.
- Ci vado io, punto.
- E non ho bisogno che tu venga con me, - aggiungo, - grazie.
Spero che capisca cosa significhi per me ripercorrere il corridoio che stava per diventare la mia tomba; farlo da persona che ancora respira. Lui che è capace di decifrare ogni enigma, che sviscera i segreti della scienza, non può non accorgersi di questo: del bisogno di ripetermi che se sono ancora qui è perché sono forte abbastanza da rialzarmi; che se ho superato quello che è successo, posso farcela di nuovo; che qualunque cosa accada avrò sempre una possibilità di farcela.
- Perché sei così? – mi chiede. Ho il potere di esasperare Nicholas Reichenbach e non mi sembra un pregio da poco.
- Perché sono così, - dico, - prendere o lasciare.
Sventolo la torcia nella sua direzione e mi incammino verso l'area più pericolante dell'edificio.
Adesso posso solo aver fiducia in me stessa.
Ho coperto appena una decina di metri prima che ceda alla tentazione di guardarmi alle spalle.
Nicholas è ancora lì che mi fissa, lisciandosi il cappotto grigio perla troppo elegante per l'occasione.
- Che stai aspettando? – lo incalzo.
- Che tu non ti faccia ammazzare, - dice, e infila un piede oltre il vetro spaccato della porta.
- Non farti ammazzare, creaturina.
***
Buio.
E umido.
E puzza di muffa e legno bruciato.
Al buio mi abituo in fretta, ma il resto non fa che peggiorare. I miei muscoli vengono seviziati dal freddo e dalle pose improbabili che devo inventarmi per fare lo slalom tra i mucchi di calcinacci, le panche e gli armadietti caduti sul pavimento. Dopo i primi dieci minuti ho percorso così poco spazio da rimpiangere di non aver dato ascolto a Nicholas, cosa di cui lui non verrò mai a conoscenza, comunque. Doversi rannicchiare o appiattire contro le pareti per passare oltre i pezzi di lamiera deformati è umiliante a sufficienza. Dopo mezz'ora mi accorgo di aver sbagliato strada. Prima dovevo svoltare a destra, non a sinistra. Ripercorro il corridoio a ritroso, con le dita intorpidite che quasi non percepiscono più la presa sulla torcia, e respiro attraverso la sciarpa per non riempirmi i polmoni di polvere. Potrei fare una pausa e prendere dei guanti dalla borsa, ma non mi piace l'idea di rimanere ferma nello stesso punto per più di dieci secondi. Quando raggiungo la svolta successiva ricomincio la canzone che stavo canticchiando da capo, e penso al viaggio in Messico che farò con i soldi del mio primo stipendio e ai libri che usciranno l'anno prossimo e alle dieci cose che porterei con me su isola deserta. Da un lato è rischioso, perché faccio meno attenzione a dove metto i piedi e le mani; dall'altro mi serve per non fossilizzarmi sulla constatazione che sono completamente sola qui dentro: io, claustrofobica, in un edificio privo di elettricità e con le pareti semi-accartocciate su loro stesse.
Fuori, fuori, fuori. Non ci penso. Non ci sto pensando. Canticchio la mia canzone. Manca poco, e da quello che ricordo, se continuo a camminare, mi lascerò alle spalle l'ala più danneggiata dell'Istituto, quella che ha preso fuoco per prima e in cui le fiamme sono state domate per ultime.
Appena il corridoio si fa più sgombro accelero il passo, cercando di orientarmi meglio. Trovo i primi armadietti ancora in piedi e ne illumino le targhe numerate.
Quattrocentoventuno, quattrocentoventidue, quattrocentoventitre: ne mancano ancora una sessantina, prima di arrivare a destinazione. La pelle delle guance mi formicola per il nervosismo e non riesco a non grattarmi il naso di continuo.
Sorpasso l'aula di storia.
So esattamente dove mi trovo: è qui che devo svoltare se voglio raggiungere il punto in cui ho visto per l'ultima volta mia sorella, ma questo vorrebbe dire immergersi ancora una volta in un'area rischiosa, da attraversare con cautela.
Decido in fretta: prima troverò il suo armadietto, poi, con il tempo rimasto, farò quello che voglio.
Rigo dritto, asciugandomi il sudore dalla fronte con le maniche impolverate, e nel movimento che il mio braccio compie per piegarsi il fascio di luce della torcia sfila sull'armadietto quattrocentosettantanove. È come tutti gli altri della stessa fila, rosso scuro e abbozzato dove alcuni calcinacci l'hanno colpito, ma è il suo. Quello di Alphy, cioè di Lilith. Abbasso il braccio e sostengo il raggio luminoso contro il lucchetto mentre mi avvicino. Ci appoggio il palmo sopra. La mano mi trema, appena più calda del metallo.
È da un po' che il cellulare mi vibra in tasca, ma solo adesso mi concedo di sfilarlo per scoprirne la ragione; sono sempre stata una schiappa con i telefonini: so usarli a meraviglia, ma mi distraggo facilmente. La maggior parte delle volte mi dimentico di rispondere ai messaggi o di ricambiare le telefonate perse, sebbene in questo caso sia praticamente impossibile scordarsene.
- Gesù, - mormoro, e sono sinceramente colpita..
Ci sono diverse chiamate perse da Nicholas e più di dieci messaggi.
Li leggo quasi tutti.
Dove sei?
Tutto bene?
Sei arrivata?
Puoi collegare le placche motrici in corrispondenza delle tue falangi e rispondere al telefono?
Hai quattordici falangi per cinque dita: usale!
Chiaramente lo studio dell'anatomia umana ti è estraneo {[(come tutto il resto)]}.
Ti avevo chiesto di non farti ammazzare.
RISPONDI.
Sybil, non sei divertente.
Senti, fa' come ti pare. Nell'armadietto dell'ala nord non c'è niente, provo con il secondo.
Gli altri sono più o meno sulla stessa lunghezza d'onda, solo più isterici, e mi strappano un sorriso chilometrico. Un po' mi piace saperlo in pensiero, lo confesso. Tengo premuto il tasto del microfono e gli invio un messaggio vocale.
- Mi trovo davanti all'armadietto. Do un'occhiata e ti faccio sapere.
Ne invio un altro subito dopo.
- Questo significa che non mi hanno ancora fatto fuori, quindi rilassati.
Prima di riporre il cellulare al suo posto controllo la combinazione che Alphy ha salvato sulla mia rubrica, ripentendola a fior di labbra. So come funzionano gli armadietti, ed è per questo che rimango interdetta quando, nonostante il codice, la porta non si apre.
Ci riprovo e non funziona.
Rimango immobile, poi tiro un calcio contro l'armadietto sotto quello di Lilith.
- Ma stiamo scherzando! – sbotto.
Non ci credo che è stata così previdente da passare in presidenza prima dell'attentato per farsi cambiare la combinazione della serratura. Psicopatica di una criminale. Tiro la sottile incanalatura nell'alluminio che funge da maniglia.
Impreco.
Non va.
Comincio ad agitarmi e ci riprovo.
A intervalli sempre più brevi mi guardo alle spalle perché detesto l'abbinamento solitudine e buio.
Nel frattempo la pioggia ha iniziato a sgocciolare dalle fessure sul soffitto, arruffandomi I capelli.
- Stronza, - ringhio, strattonando la maniglia.
- Stronza, - strattone, - stronza, stronza, stronza!
E all'improvviso la porta si apre con uno sferraglio sordo, mandandomi per terra.
Una nube di cenere e intonaco polverizzato esplode in aria, ostruendomi la gola. Tossisco con violenza, cercando di strofinarmi gli occhi irritati, ma sono costretta a strisciare lontano dalla parete per riprendere il respiro. Osservo da lontano la nuvola di sporco che precipita sul pavimento, poi mi rialzo e barcollo di nuovo verso il muro, recuperando la torcia.
La punto davanti al mio petto.
È davvero il suo maledettissimo armadietto.
È davvero l'armadietto di Lilith.
Mi serve meno di un'occhiata per riconoscere i suoi quaderni, tutti rigorosamente monocromatici, con una tonalità diversa per ogni materia; i libri di scuola con i segna-pagina a separarne i capitoli e i fogli arricciati dal calore dell'incendio; un astuccio con la faccia di un gatto cucita sopra e la cerniera di plastica sciolta.
E poi questo, il suo muro di carta costruito ad arte sul retro della porta. Sento scoppiare una bolla di tristezza mentre ci passo sopra le dita, dall'alto in basso. Lilith amava tappezzare i suoi piccoli spazi con piccoli ricordi felici, o pensieri ispirati, o immagini che la facessero sentire bene, come se imprigionarli sui fogli le permettesse di portarli sempre con sé; di raggiungerli, e sentirsi al sicuro
Non avevo mai pensato prima a mia sorella come a qualcuno che avesse bisogno di rassicurazione. Ho sempre creduto che Lilith avesse tutto sotto controllo, dai suoi problemi alle sue insicurezze.
Forse mi sbagliavo. Se avessi avuto ragione, probabilmente, non avrebbe fatto quello che ha fatto.
Che stronza che era, comunque.
Poi mi rendo conto che continuo a pensare a lei come a una parte del mio passato, e mi disgusto per questo, e indietreggio di nuovo e alla fine mi riavvicino. Maledico la polvere perché mi fa lacrimare gli occhi.
Tocco tutte le sue cianfrusaglie, partendo da quelle in cima: ci sono fotografie dei suoi amici incollate con del nastro adesivo colorato. Dentro una cornice di cartoncino a forma di casa c'è un collage di polaroid di lei e Alphy, e sotto l'immagine stampata di un cervello con i lobi di colore diverso in base alla loro funzione. Folle.
Mi viene da sorridere, ma ho il dubbio che sia sbagliato farlo adesso, così scendo più in basso con lo sguardo. Studio le stampe di alcuni reperti istologici, di una cartina dell'Italia e di citazioni di vari film e canzoni che le stanno a cuore.
Tutto è così scurito dal fumo e dalla cenere che all'inizio non mi accorgo del rigonfiamento alla base della porticina di metallo: è come se tanti fogli fossero stati appiccicati l'uno sull'altro per coprire qualcosa che si trova sotto di essi.
Li stacco uno per uno, e sotto c'è una busta: è già stata aperta, e prima dell'attentato doveva apparire bianca. Dubito che ci fosse scritto sopra il mittente, o riuscirei comunque a leggerlo.
La stacco per studiarla da vicino e la mia delicatezza non risparmia qualche chiazza di carta dall'essere lasciata indietro, una volta strappata. Punto la luce sulla busta: avevo ragione, non c'è scritto niente di niente. Stringo la torcia tra i denti, piegando il collo per aggiustare il fascio di luce sulle mie dita mente scavo il fondo della carta con affamata curiosità. Dentro ci sono due oggetti: il primo è un cartoncino con un indirizzo di posta elettronica e una sequenza alfanumerica scritti con la calligrafia di mia sorella. Il secondo è un foglio le cui dimensioni sono state calcolate al millimetro per non dover essere piegato o danneggiato, e lo spessore che ricorda quello dei blocchi da disegno.
È un disegno, in effetti.
Lo guardo meglio.
È bellissimo, tutto colori caldi e zero cancellature.
Però è sinistro.
Non saprei come altro descriverlo.
Rappresenta un giovane uomo, asciutto e tagliente, seduto su una sedia che appena s'intravede contro lo sfondo aranciato. Le sue mani sono aperte, contorte sugli avambracci piegati ad angolo retto, come se le avesse bruciate, o si fosse squarciato i palmi e non potesse utilizzarle. C'è qualcosa di nevrastenico nell'asprezza delle linee nere che delimitano la sua figura.
Incontro lo sguardo dell'uomo: è disperso, vuoto.
La sua anima sembra alla deriva.
È un capolavoro, ma fa paura.
Giro piano il foglio e dietro, stavolta, c'è una dedica a penna:
"Egon Schiele, Der Maler Albert, 1918, Istituto delle Arti di Minneapolis.
Sapevo che lo avresti amato come lo amo io.
Grazie per avermi accompagnato. A presto."
Rileggo la didascalia sul retro del disegno almeno cinque volte, senza capire. Pare quasi che Lilith si sia recata con l'autore del disegno al museo più importante di tutto il Minnesota, e che questo dipinto lo abbiano contemplato insieme. Ma non è possibile. È fuori discussione. Lilith non aveva – non ha – abbastanza soldi da permettersi un biglietto per l'Istituto delle Arti, o per qualunque altro museo.
Ma allora, forse, il disegno risale a qualche anno fa.
Eppure sembra nuovo.
Non ci capisco niente. Non so nemmeno se questo quadro, a Minneapolis, sia conservato davvero.
Cerco di richiamare alla mente un'occasione in cui Lilith abbia parlato alla mamma di una gita nella Capitale, ma è tutto inutile. Non le prestavo abbastanza attenzione, e comunque a me non parlava degli affari suoi.
Continuo a frugare nell'armadietto, rovistando tra i libri di scuola di Lilith. Tasto perfino il fondo dello spazio, senza alcun risultato: sembra tutto apposto anche tra le pagine dei suoi quaderni e tra gli astucci, ma quando richiudo la porta dell'armadietto posso ritenermi soddisfatta. Forse i dati su quel cartoncino nascondono qualcosa di importante.
Lo infilo in uno strappo all'interno della manica del cappotto, insieme al disegno ripiegato. Lascio dentro la busta e mi guardo intorno un'ultima volta per assicurarmi che sia tutto apposto.
Poi il telefono comincia a squillare.
Giurerei che si tratta di Nicholas: se gli rispondo adesso, confermandogli che ho controllato da cima a fondo l'armadietto, mi costringerà a raggiungere l'uscita. Ho una mezza intenzione di tornare nel luogo della scomparsa di Lilith sulla via del ritorno, e sono certa che non me lo lascerebbe fare. Le alternative si risolvono a due, e cioè dargli ascolto o ignorarlo.
Lo ignoro.
Con la torcia stretta in mano e il cappuccio rialzato sulla testa per coprirmi la visuale dalle gocce d'acqua mi addentro nell'ala carbonizzata della scuola, questa volta a ritroso. Sono troppo sulle spine per cercare di distendermi: sento di aver scoperto qualcosa di grosso con quella busta, e non vedo l'ora di mostrarne il contenuto agli altri. Avanzo rapidamente e realizzo di star facendo troppo baccano, ma non riesco a rallentare il ritmo. Va tutto velocissimo, le mie boccate d'aria consumata, il mio cuore, le mie gambe. Mi dico che è il telefono a mettermi fretta. Continua a squillare ininterrottamente. Dannato Nicholas.
Dopo essermi lasciata alle spalle gli armadietti, ritrovare la svolta a cui sto dando la caccia è semplice. Se sarò fortunata, non sarò costretta a ripercorrerla da capo:: l'uscita da cui sono scappata la prima volta dovrebbe aver lasciato uno spiraglio da cui sgusciare direttamente all'esterno dell'istituto.
Ci sono quasi.
Le mie braccia cominciano a prudere nei punti in cui la pelle sta ricrescendo del tutto.
Riconosco il punto in cui le luci sul soffitto sono precipitate in una vampata di elettricità. Cerco impronte, firme lasciate dalle suole delle scarpe, ma ogni traccia è stata coperta da nuovi strati di cenere. Fisso il metro quadrato in cui mia sorella se ne stava dritta di fronte a me, con il fuoco a circondarla e a separarci. Mi ricordo le bruciature sulla sua gonna pastellata e la sua faccia, così simile alla mia, eppure così diversa e distante, dall'espressione febbrile e allo stesso tempo sollevata.
Serena.
Mi avrebbe lasciato morire, se non me ne fossi andata e fossi rimasta qui, pur di non abbandonarla? Mi avrebbe salvato? Mi asciugo la pioggia dalle guance. Alla fine dei conti non importa. Adesso sono qui: mii sono salvata da sola. Se me lo avesse permesso, avrei salvato entrambe.
All'improvviso, dopo una breve pausa, il telefono ritorna a squillare.
Vengo riscossa dai miei pensieri con una violenza talmente inaspettata da farmi imprecare a bassa voce.
Il principino sa essere fastidiosamente insistente.
Distolgo lo sguardo dal cerchio di cenere, decidendomi ad afferrare il telefono per spegnerlo definitivamente, poi faccio scorrere gli occhi irritati sullo schermo e -
E non è Nicholas.
Rimango come inebetita.
È Alphy.
Undici chiamate perse da Alphy.
Ma un momento.
Gli avevamo indicato di chiamarci solo in caso di emergenza.
Solo se qualcuno si fosse avvicinato alla scuola mentre eravamo ancora dentro a perlustrarla.
Prendo un'infinita boccata d'aria per calmarmi e sistemo la torcia tra il braccio e le costole per scrivergli un sms con due mani.
Non guardo dove finisce il raggio di luce.
Almeno fino a quando dalla penombra non si solleva una voce.
- Signorina Crowford.
Non so di preciso che cosa mi impedisca di morire dallo spavento.
So solo che il mio sguardo atterrito schizza in avanti tutto in una volta e se lo ritrova là, dove prima non c'era nessuno.
Come un fantasma che assorbe la luce.
L'ispettore Jerome Ryars.
Angolo autrice: e adesso questo maledetto ispettore che cosa vuole? Chissà. Non ci sono note particolari, se non alcune informazioni curiose. I Twins sono la squadra di baseball delle città gemelle, Minneapolis e Saint Paul, e la partita di cui parla Sybil è stata realmente giocata il giorno 24 luglio 2015: vi ho assistito personalmente, ed è stata folle. Anche il quadro citato nel capitolo esiste, ed è realmente conservato all'Istituto delle Arti di Minneapolis. Potete osservarlo nel banner. Se avete curiosità scrivetemi pure e stellinate, commentate e datemi consigli e pareri! Vi mando un bacione ❤️
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