14. La velocità di fuga di chi batte in ritirata
Velocità di fuga: anche chiamata seconda velocità cosmica, è la velocità minima iniziale a cui un oggetto (senza ulteriore propulsione) deve muoversi per potersi allontanare indefinitamente da una sorgente di campo gravitazionale come il Sole o un buco nero.
Quarantasette minuti.
È quanto ci rimane per fare irruzione nell'ufficio assegnato al Capo della Polizia, hackerare il suo computer e farla franca. Il tempo che abbiamo a disposizione – quarantasei minuti e cinquantuno secondi, per l'esattezza - non è abbastanza.
Nessuno lo dice apertamente, è chiaro. Nessuno dice niente. Quello che facciamo è seguire il piano di Nicholas Reichenbach quasi alla lettera e non pensare all'infinita lista di conseguenze catastrofiche verso cui ci lanciamo a braccia aperte, mentre nel grattacielo si consuma il caos. Lasciamo che il pericolo ci ingoi tutti interi, succhiandoci il sangue via dalle dita, contraendoci i muscoli senza chiedercene il permesso e masticandoci il petto senza opporre resistenza. Il coraggio non può reggere una morsa del genere, ma l'incoscienza non si arrende.
Mi mantiene vigile, intimando di seguire il piano.
Segui il piano, segui il piano, segui il piano.
La procedura all'inizio è la stessa: prevede di usare le scale anti-incendio per raggiungere l'ottantunesimo piano, rendere inattive le telecamere, confinare gli allarmi al perimetro dell'appartamento e accedere dall'uscita di sicurezza per fare meno rumore possibile. Fin qui le mie gambe doloranti ricordano la fatica a memoria.
È quello che arriva dopo ad essere diverso.
Mi concentro sulla presa instabile di Armand: la vedo stringersi attorno alla maniglia della porta d'emergenza e spingerla verso il basso. Lo fa così lentamente da portarmi a pensare che non basterebbe l'intero peso del suo corpo a tirarla giù.
Almeno fino a quando una lama di luce non mi taglia la fronte a metà.
È tardo pomeriggio, e l'ufficio del Capitano Zelda Hodgkin è illuminato dai deboli raggi di Sole che attraversano i vetri del Grattacelo. Sharazad si affaccia da sopra la mia spalla, in ascolto. Riesco a sentire il formicare di ogni singolo circuito si arrovelli dentro il suo corpo. Riesco a sentire tutto.
Secondo Shad è normale: il mio corpo si sta preparando alla battaglia – o alla fuga, in alternativa - acuendo i miei sensi, privando la mia pelle di sangue pur di irrorare i muscoli degli arti, aumentando la mia frequenza cardiaca.
Un miscuglio eterogeneo di voci che si accavallano ci raggiunge dall'altra parte del piano e mi toglie la capacità di deglutire.
Dopo qualche secondo Armand richiude la porta, poggiandoci la testa sopra con aria terrorizzata. Inizia a respirare con la bocca. Conosco la sensazione di non avere mai abbastanza ossigeno nei polmoni, così guardo l'orologio per dargli l'occasione di riprendersi in santa pace: quarantaquattro minuti. Anche a me conviene tornare a respirare come si deve. Il punto è che ogni boccata d'aria viene fuori così profonda da non vederne la fine.
Fa paura.
È come un tuffo nel buio.
È come entrare in quell'appartamento.
Shad è la prima a trovare la forza di parlare: - Ci sono almeno sette poliziotti, - comincia.
- Credo che stiano coordinando i movimenti di tutti gli altri.
Nel piano non c'è scritto solo perché è retorico: l'ufficio deve essere completamente vuoto se vogliamo avere anche solo la minima possibilità di scamparla. Shad scarta impacciatamente il foglio accartocciato tra le sue dita meccaniche e lo legge con un filo di voce. È incredibile come Nicholas abbia preso in considerazione qualunque evenienza: il suo biglietto è uno schema meticoloso e studiato, come un intervento chirurgico in cui lo step successivo si decide in base alle funzioni vitali di chi è sotto i ferri. Se il problema è del tipo A, la soluzione da rincorrere è B; se l'ostacolo è C, optare per D è la cosa migliore da fare.
- Nicholas si aspettava di trovare qualcuno nell'ufficio.
- Sentiamo, allora, come pensa che dovremmo liberarci di loro? Non posso insonorizzare la stanza, - dice Armand.
- Dobbiamo sapere esattamente dove si trovano quei poliziotti, e l'unico modo per riuscirci è ascoltare quello che combinano.
- Da qualche parte c'è la coordinata di una stazione radio, - mi intrometto. Disegno un cerchio sul foglio senza riuscire a decifrare cosa c'è scritto all'incontrario. Questa parte del piano me la ricordo perché è quella che offre ancora la possibilità di tornare indietro, se scegliessimo di darcela a gambe; lo faremmo tutti molto volentieri, immagino, se solo qualcuno avanzasse la proposta.
- Intercettandone la frequenza possiamo fargli credere che c'è un'emergenza al piano di sotto.
L'espressione di Shad si fa atterrita, quella di Armand sinceramente impressionata. So che cosa stanno pensando, perché è quello che ho continuato a ripetermi dal momento esatto in cui ho letto per la prima volta le indicazioni di Nicholas.
- Questo è inquietante, - dicono in coro.
- Come Nicholas abbia pensato a tutto?
- Sì, - dice Armand, - come se si aspettasse che sarebbe accaduto.
Non hanno tutti i torti, ma è di Nicholas Reichenbach che stiamo parlando; leone o volpe in base alla natura della sua preda: oratore affabile o spietato stratega a seconda della direzione verso cui soffia il vento. Non mi stupisco che abbia calcolato qualunque evenienza pur di non prendere in considerazione la possibilità di fallire. Quello di cui mi stupisco è che Armand e Shad non riescano a capacitarsene. Mi chiedo se abbiano mai provato a comprenderlo davvero o abbiano gettato la spugna al primo litigio. Alla fine faccio spallucce per lasciar cadere il discorso, visto che Armand, digitando una serie di numeri sul suo telefono, ci fa cenno di tenere la bocca chiusa. Torturo la lingua con la punta dei canini e aspetto.
All'improvviso Armand esclama: - L'ho agganciata!
Lo fa più rumorosamente di quanto il buonsenso non glielo permetta, ma non siamo in vena di farglielo notare. Dopotutto se ho la speranza di riuscire in un'impresa così disperata, lo devo a lui.
- Shad, parla tu, - continua.
- Io? Cos -
- Ho altro da fare, se non ti dispiace!
Lancia il cellulare nelle mani di Shad. La prontezza di riflessi con cui il suo braccio meccanico sferza l'aria per afferrarlo è tanto innaturale quanto sorprendete. Penso a tutte le partite di softball a cui mi hanno costretto a partecipare e alle brutte figure collezionate prima che mi squalificassero e al numero di palle color limone ricevute dritte sul naso. Ringrazio il cielo che non l'abbia passato alla sottoscritta, perché ci avrebbero arrestato in un baleno.
- A...attenzione, squadra 17, - balbetta Shad, - mi ricevete?
- Qui è l'agente...
Ci guardiamo con occhi sbarrati. Aspetto con impazienza il momento in cui una buca nella terra si decida a inghiottirmi e a lasciarmi sprofondare senza dover affrontare un tale livello di panico. Faccio fatica perfino a ricordarmi come ci si sente a non morire di tensione.
Muovo le labbra in silenzio e indico a Shad il piano di Nicholas.
Di' qualcosa!
- Barbara Calvin, della squadra 21, - mormora, leggendo attentamente.
- Mi ricevete?
- Negativo, agente Calvin, siamo della squadra 3. La comunicazione è disturbata.
O Dio, che cosa stiamo facendo?
E se ci scoprono?
Ci scopriranno al centoquattordicipercentopiùuno.
È impossibile che non lo facciano.
Shad scuote la testa in preda al nervosismo.
- C'è un...putiferio nella hall! Sì, un disastro! Non riusciamo a mantenere il controllo, in questo momento. I disordini stanno attirando l'attenzione dei Sapiens sulla strada.
- Riuscite a raggiungerci? – li supplica.
Qualcosa mi dice che non dovrebbe supplicarli.
- Ricevuto, agente.
Sto per tirare un sospiro di sollievo quando il poliziotto le rivolge la fatidica domanda: - Di quanti uomini avete bisogno?
C'è una pausa.
Io e Armand rotiamo gli occhi.
Tutti!
- Tutti quelli che avete.
Altra pausa.
Questa è più lunga e pesante e tragica.
Ho cantato troppo presto.
- Negativo, in assenza del Capitano dobbiamo anche monitorare quello che succede nel resto dell'edificio.
Trentotto minuti.
Non c'è tempo.
Nicholas mi perdonerà se mi concedo qualche licenza d'autore e faccio di testa mia. Ora che ci penso non c'è alcun bisogno che lui lo sappia.
- Al diavolo il Capitano, - ringhio, strappando il telefono dalle dita di Shad, – qui abbiamo un dannato codice rosso: si è arrivati alle mani, alcune persone hanno perso i loro badge, i Sapiens si stanno avvicinando all'ingresso!
C'è stato un terremoto, una tremenda inondazione, le cavallette!
No, non è il momento di mettersi a citare un film.
Preferisco sibilare nel telefono: - Datevi una mossa! – e chiuderla qui.
Shad si mette le mani a coppa attorno alle guance. Se il rossore attecchisse sulla sua pelle come sulla mia, a questo punto mi ritroverei davanti un adorabile pomodoro.
- Agente, - aggiungo, perché Armand è sconvolto e questo potrebbe farlo sentire meglio. Mi aspetto che ci riattacchino in faccia e che il piano di Nicholas vada in fumo nel giro di una comunicazione radio che viene troncata. Dal telefono però si alza un sospiro così rassegnato da lasciarci di stucco.
- Ricevuto, agente. Del resto non può andare peggio di così. Arriviamo.
La tromba delle scale ricade nel silenzio. Quando Armand si decide a riaprire la porta d'emergenza l'appartamento di Zelda Hodgkin è completamente deserto, ma nonostante questo ricevo la mia puntuale ramanzina.
- Mon Dieu, sei stata molto convincente, Sybil.
- Un pelino indelicata, se mi permetti.
A mia discolpa posso dire di non essere mai stata una fan dei polizieschi.
- Ha funzionato alla grande! – mi lamento.
Su questo non hanno nulla da ridire, ma mi assegnano il compito di conservare il piano per il resto del tempo. Lo prendo come un consiglio spensierato: per adesso si torna a fare come vuole Nicholas.
Controlliamo di nuovo i suoi schemi prima di entrare: secondo lui la camera da letto di Zelda sarà la prima stanza sulla sinistra, e il bagno si troverà poco più avanti lungo il corridoio. La planimetria del locale è piuttosto simile a quella dell'appartamento di Szilàrd, come se un architetto le avesse fatte costruire con lo stampino. Anche l'ufficio vero e proprio si trova nella stessa posizione, ma è separato dagli altri locali da una porta di vetro scuro. Mentre ci avviciniamo ad esso, uno dietro l'altro ma mai completamente separati, combatto ferocemente contro il desiderio di ispezionare tutte le stanze per accertarmi che non vi si nasconda nessuno dentro. Lo scherzetto subito nell'appartamento di Szilàrd dovrebbe averci insegnato la lezione, ma Armand ci tiene a ricordare che non possiamo toccare niente. E con niente intende niente. Nada.
Nemmeno una porta che non sia quella dell'ufficio.
Mi offro volontaria per aprirla.
Nella peggiore delle ipotesi la mia faccia deve essere l'unica a venire riconosciuta dalla polizia. Glielo devo, tutto qua: Armand e Shad stanno facendo molto di più di quello che è lecito pretendere da loro.
Faccio scorrere il vetro da una parte. È tiepido sotto il mio tocco, e molto pesante.
Sporgo la testa oltre la parete; piano, inumidendo le labbra, con la convinzione insensata che qualcuno stia per sbucare fuori dal nulla, deciso a spaventarmi. Ho sempre provato paura e interesse per le storie di fantasmi, per questo nessun angolo in penombra riesce mai a convincermi in pieno. Guardo a destra e poi ha sinistra, poi alzo la testa.
- Il computer, - dico. È vicino, tre metri al massimo, verso le finestre. La scrivania su cui poggia è immensa e ricoperta da pile di fogli, telefoni e schermate.
- C'è nessuno?
Un sacco da box pende da un gancio sul soffitto come se Zelda Hodgkin fosse stata interrotta durante una sessione d'allenamento intensivo, e dei vestiti sono sistemati sugli schienali delle sedie che circondano la scrivania; per il resto la stanza è un deserto di pezzi d'arredamento.
- Solo noi.
Ci infiliamo nell'ufficio di soppiatto, ognuno con il proprio compito.
Armand si fionda sul pannello che affianca l'entrata principale e fa in modo di serrarla dall'interno: nessun badge sarà in grado garantire l'accesso all'appartamento fino a quando non ce ne saremo andati. Il punto è che se la polizia dovesse tornare indietro prima del previsto si accorgerebbe che c'è qualcosa che non quadra. Troverebbe comunque un modo per buttarla giù, ne sono sicura.
A spallate, probabilmente.
O con una pallottola sulla serratura.
- Voilà.
Armand si avvicina al computer con l'espressione di chi non potrebbe essere più eccitato all'idea del guaio che ha appena combinato. I suoi occhi neri, specchio della malizia, mi fanno sospettare che abbia già infranto la legge prima; che abbia già usato le proprie conoscenze per spiare qualcuno, o sgusciare fuori di casa in piena notte, o compiere qualcosa di illegale. Ma Armand, così raffinato e minuto, dai ricci angelici e le palpebre che sembrano petali, non sarebbe proprio il tipo. Quello che sta facendo adesso lo fa perché... non lo so, in effetti.
Ricordarsene è spiazzante.
Non so perché mi sto fidando di lui, oltre per il fatto che è Armand. Nicholas gli ha promesso qualcosa, sì, ma che cosa?
Lo seguo dietro la scrivania. Se ne avessi ancora qualche traccia credo che in questo momento mi sforzerei di recuperare la calma. Invece finisco per mangiarmi le unghie fino a farle sanguinare.
- Perché ci sono tutti questi schermi? – domando. Ne conto quattro in totale.
- Sembra di trovarsi nella Batcaverna.
Shad e Armand armeggiano con il computer di Zelda, prestandomi poca attenzione. Sono fatta della stessa sostanza di cui sono fatti l'ansia e il sarcasmo, e do per scontato che le persone se ne accorgano. Non è così.
- La caverna di Batman, - chiarisco.
- Oh! - sorride Shad.
Armand è troppo concentrato per gradire il mio tentativo di allentare la tensione.
- È come lavora la polizia. Più schermi sono indispensabili quando hai diverse telecamere della sorveglianza da controllare: a noi basta il display principale.
In teoria.
In pratica il simbolo di un distintivo sul desktop mantiene il computer in standby.
- Ci serve un ID.
Scandaglio il foglio in cerca di indicazioni.
- #BCalvin311284, - azzardo.
- Gesù, io non riesco nemmeno a copiare al compito di matematica e Nicholas scopre vita, morte e miracoli di un'agente di polizia. Questa Barbara Calvin verrà licenziata?
- Probabile.
Scarico la frustrazione tirando una ginocchiata al sacco da box.
- Non è il momento di agitarsi. La parte peggiore deve ancora venire.
Altra ginocchiata.
Ne approfitto perché i miei colpi sono troppo deboli per fare rumore.
- Sapete, credo che dovremmo alternare le brutte notizie con qualche battuta.
L'impatto delle mie ossa contro il sacco lo fa dondolare.
- Adesso che il computer è stato sbloccato ci serve un'altra password per scaricare i file di Zelda. Una che ha scelto lei.
Riprendo il sacco tra le mani non appena torna indietro, indietreggiando sotto il suo peso. Sono costretta a inspirare con la bocca per riprendere fiato.
- Quindi?
- Posso rintracciarla, - dice Armand. Le sue braccia si muovono esperte da una tastiera all'altra con la sicurezza di chi conosce il linguaggio dell'informatica meglio di quello delle parole. Rintracciare, però, è un termine che non mi piace per niente. Implica un duro lavoro, una ricerca che va per le lunghe.
Noi abbiamo bisogno di immediatezza.
Armand sa che cosa sta facendo, non ci sono dubbi, ma il foglio che ho appoggiato sulla scrivania lo controllo lo stesso. Dopotutto il piano è seguire il piano.
La calligrafia di Nicholas, accuratamente studiata per non sembrare sua, non lascia spazio all'interpretazione: tre codici sono incolonnati l'uno sull'altro, cerchiati a penna e indicati come possibili chiavi d'accesso ai dati di Zelda Hodgkin. Faccio scivolare il foglio sul legno, con il sudore che stampa piccole impronte ovali sulla carta.
- Secondo Nicholas è una di queste tre.
- Sì, - soffia Armand, le labbra piene e arricciate dal disappunto, - peccato che abbiamo al massimo tre tentativi prima di mandare in stallo il sistema. Le ha tirate a caso, Sybil. Con molta probabilità sono sbagliate, è questo che vuole dire.
Che anche Nicholas può sbagliare.
- Sono la prima a ritenere che non sia infallibile, - insisto.
Sono la prima a ritenere che sia cinico e misantropo e saccente e che usi un dopobarba assolutamente atroce.
- Ma conosce Zelda Hodgkin.
Da dodici anni.
Più o meno è il tempo per cui Lilith ha frequentato Alphy.
-Sarà anche giovane per essere il Capo della Polizia, ma non mi sembra una sprovveduta. Dà più l'idea di essere un carrarmato da invasione, a parer mio.
Ha ragione anche su questo.
Faccio l'ultimo tentativo.
- Quanto tempo ci risparmierebbe, se avesse ragione?
- Una ventina di minuti al massimo.
Cosa?
E siamo ancora qui a discuterne?
Spalanco le braccia, contrariata. Venti minuti sono tantissimi, un'infinità, e per quanto detesti ammetterlo a me stessa, più che agli altri, Nicholas non lascia mai niente al caso. Nicholas dà la caccia al Caso con tutte le trappole a sua disposizione, per perseguitarlo e vincerlo e imporsi su di esso.
"La Fortuna scatena la sua potenza dove non c'è virtù a resisterle": è il credo di un Machiavellico.
Machiavelliano.
Quello che è.
- Sybil, capisco quanto straziante sia l'attesa, ma non possiamo rischiare, - dice Shad.
- Non questa volta.
Leggo a fior di labbra le password che Nicholas ha ipotizzato possano fare al caso nostro: a parte l'ultima, le altre non hanno niente di speciale a contraddistinguerle. La prima è un numero a cinque cifre, ma non si tratta di una data di nascita.
24601, eh? La sensazione di averlo già visto da qualche parte potrebbe essere frutto delle circostanze. Nel senso che la mia testa potrebbe aver iniziato a perdere colpi.
La seconda parola d'ordine è un'accozzaglia apparentemente improvvisata di lettere e simboli, e anche solo cercare di capire come Nicholas l'abbia ottenuta mi fa venire le vertigini. La terza è in tedesco: ne sono quasi sicura perché Lilith era solita lasciare il suo eserciziario per casa. Qualche volta mi cimentavo nella traduzione, prima di farle un dispetto e nasconderlo sotto il divano.
Mi rassegno alla presa di posizione di Armand, e prima che Shad si sistemi al suo fianco per aiutarlo le chiedo di sbirciare il foglio per conto mio.
- Che significa, secondo te?
- "Er wittert Morgenluft".
- Il mio tedesco è così scarso! Credo che sia un modo di dire: c'è ancora speranza, o c'è la speranza di una rivalsa.
- Un momento, credevo che Hodgkin fosse un cognome inglese!
- Oui, ma da quello che so sua madre era tedesca.
Armand taglia corto, digitando un tasto dopo l'altro senza mai staccare gli occhi dallo schermo. Riuscirebbe a ritracciare la cronologia delle mie ricerche su Google, se la cancellassi? Quando glielo domando si concede una risata leggera; immagino che lo considera un gioco da ragazzi.
L'idea non mi piace.
Mentre faccio la guardia all'entrata principale sviluppo una specie di ossessione nei confronti del mio orologio. Non riesco a fare a meno di lanciargli occhiate continue e disperate: com'è possibile che siano già sfumati sette minuti, se ne ho contati la metà? Faccio passare troppo tempo da un secondo all'altro? Ho contato alcuni numeri due volte?
Forza, Armand. Forza, forza, forza.
Quando lo sento esultare ho camminato avanti e indietro per l'appartamento così tante volte che sospetto di aver lasciato un solco nel pavimento. Mi precipito da lui.
- Siamo dentro!
- È stata inviata una segnalazione automatica alla sicurezza informatica, - lo informa Shad.
- Tutto normale, per adesso la registreranno come la presenza di un virus.
- Cercheranno di ripulire il sistema, quindi prova a tenerli fuori.
Si rivolge a me.
- Dubito che la Hodgkin abbia lasciato ai suoi colleghi un pc pieno di honeypots all'attivo, ma Nicholas che ne pensa?
- Mmh, ha scritto solo "no esche informatiche": è un buon segno, vero?
- Passami il disco rigido.
Oh, sì. È decisamente un buon segno.
Quando Armand inserisce la presa dell'hard disk nel computer di Zelda Hodgkin, scocca il ventiquattresimo minuto; Shad esala lentamente prima di rivolgerci un cenno d'assenso. È troppo tardi per tornare indietro, comunque.
- Facciamolo.
Armand serra le palpebre per non guardare quello che succede nell'esatto istante in cui la nostra rapina informatica ha ufficialmente inizio.
Tac.
I tasti "L", "F11" e "Fn" toccano il fondo sotto il peso dei suoi polpastrelli inguantati, poi il computer prende vita propria.
Tutti i dati a disposizione di Zelda Hodgkin si schiudono davanti ai nostri occhi; centinaia di gigabyte, centinaia di finestre che si sovrappongono e si ricomprimono dentro un rettangolo di plastica leggera; tutto compare e scompare sullo schermo così velocemente che guardarlo provoca un dolore fisico. Arraffo l'angolo di un grafico, l'immagine di alcune telecamere di sorveglianza, un'email indirizzata al Senatore Hermann H. Hodgkin risalente a due giorni fa che recita "non possiamo semplicemente ignorare la sua presenza"; di sfuggita riconosco la foto di una delle vittime dell'attentato di Marshall. Il resto sono numeri e simboli incolonnati che si accartocciano nel disco rigido a velocità impressionante.
Va avanti per una quantità di secondi tale che accumularli diventa insopportabile. A turno raggiungiamo la porta principale per ricontrollare che sia ancora chiusa dall'interno. A turno ci assicuriamo che le telecamere siano ancora disattivate. A turno ci mettiamo le mani tra i capelli e ci abbandoniamo allo sconforto. A turno torniamo ad avere fiducia.
Poi, al tredicesimo minuto, gli schermi si spengono.
Più nulla.
Nero.
Il computer è morto.
Rimango in piedi alle spalle dei miei amici, in attesa di udire i passi stizziti dei poliziotti che vengono a prenderci. Forse la mia non è mai stata una battaglia che potesse essere vinta. Forse ho trascinato Shad e Armand verso un'inevitabile disfatta.
limit.dat81=settwo,setninteen,11.3{error412-var(pen)} – premere "enter" per riavviare il Sistema.
Una scritta inizia a lampeggiare nell'angolo inferiore dello schermo.
Mi copro la bocca con una mano, stropicciando le labbra.
Per una volta Armand fa fatica a orientarsi sulla tastiera, come se avesse dimenticato che il suo compito è avere a che fare con i computer. Quando mi accorgo che lo shock gli impedisce di muoversi mi copro l'indice con la manica e premo "invio".
Ritraggo la mano di scatto.
All'improvviso il computer riprende vita.
Torna tutto come prima: la disposizione delle cartelle, la posta elettronica criptata, i registri degli ingressi e delle uscite. C'è tutto, e tutto al suo posto. Per un po' nessuno di noi ha il coraggio di proferire parola e rischiare di sgualcire il momento perfetto in cui realizziamo di avercela fatta. Perché ce l'abbiamo fatta, non è vero? Guardo Armand, e lui annuisce. Mi copro la faccia con le mani che scottano e le lascio bruciare sugli zigomi. Ce l'abbiamo fatta.
Armand si costringe a scollegare il disco rigido e controlla di non aver lasciato traccia della nostra presenza. Quando abbiamo finito di infrangere la legge, gli ultimi dieci minuti scorrono lentissimi, come se fossero sul punto di solidificarsi e le lancette dell'orologio facessero attrito. Ce ne andiamo a piccoli passi, con l'adrenalina che scaricandosi si lascia dietro il mal di testa. Io chiudo la fila, e quando sono sicura che Shad non mi veda rubo una giacca di pelle da una sedia. Me la infilo ben attenta a tenermi distante dalle pareti. Il colletto si tiene su quel che basta a coprire le ditate di porpora sulla mia gola. Se prima erano tutti troppo sconvolti per accorgersi dei lividi sulla mia pelle, adesso se ne accorgerebbero in un batter d'occhio.
Chiudersi alle spalle la porta dell'ufficio di Zelda Hodgkin fa uno strano effetto. Non abbiamo bisogno di parlare: aspettiamo pazientemente che Armand ricolleghi gli allarmi, le telecamere degli ingressi e la linea telefonica, poi, senza pensarci, ci abbracciamo. Rimaniamo stretti sul ciglio delle scale di sicurezza per tutti e quattro i minuti che ci restano, senza curarci di quelli che impiegheremo per raggiungere Xanders. Non credo che del tempo sia mai stato speso meglio di così: nella voglia di allentare la pressione con le lacrime, e con il respiro artificiale di Shad che riprende il giusto ritmo, e il mio mento sulla sua testa e il suo mento su quella di Armand.
- Vi voglio bene, - dico, e ritengo che se lo pensi davvero non sia scontato.
Fidarsi delle persone per me non è mai scontato, ma ho capito che può riservarti delle sorprese straordinarie: come avere successo nell'impresa più folle dei tuoi ultimi sedici anni di vita.
- Anche io, - mormora Armand.
- La prossima volta che accetto di fare una cosa del genere, però, datemi un colpo in testa. Sento che finirei per farmi sbattere in prigione. O peggio.
Lo rassicuro con un pizzicotto scherzoso sulla guancia.
Non ci dovrà essere un'altra volta.
Non ci sarà.
***
- Eccoli.
Delphine Navier lo singhiozza come se avesse intravisto un fantasma prendere forma nella cabina dell'ascensore. Armand si precipita tra le sue braccia senza la minima esitazione: è sudato, tremante e sfinito. Siamo tutti sudati, tremanti e sfiniti, ma non ci sono abbracci ad accogliere la sottoscritta nella stanza che, al piano terra, ospita l'uscita secondaria. O terziaria. Insomma, un'uscita al riparo dagli occhi indiscreti.
Attorciglio i capelli sulla testa, legandoli con un elastico che ho ritrovato attorno al polso. Nel frattempo osservo la scena: solo adesso mi rendo conto di quanto Armand e Shad dovessero essere preoccupati. Non per loro stessi, certo: per le loro madri e i loro padri e i loro fratelli. Se ci avessero scoperto, le loro famiglie avrebbero dovuto fare i conti con uno scandalo dalla quale rialzarsi – specialmente in un momento del genere - avrebbe richiesto tutte le risorse a loro disposizione. Risorse economiche, per capirci.
Mi gratto il naso.
Quello che è fatto è fatto.
Riservo ai sensi di colpa il tragitto di ritorno e mi limito a sventolare una mano in direzione dei Navier. Sto per raggiungerli quando la voce isterica di Xanders mi trapana il cranio, facendomi sobbalzare.
- DOVE DIAVOLO VI ERAVATE CACCIATI? – strepita.
Non mi merito questo. Non dopo una giornata del genere. No.
- Se prima riuscivo a sentirti, adesso mi hai fatto diventare sorda.
- E DOVE SONO LE TUE COSE?
La prossima volta che mi urla in faccia lo prendo a testate. Mi ritrovo a condividere l'insofferenza che i ragazzi della Villa provano nei suoi confronti: non perché sia cattivo o pedante, certo. È solo che manca di qualunque forma di adultità. Esiste, come parola? Poco male, adesso lo fa.
Shad anticipa la mia sfuriata con una risposta gentile delle sue: - Le riporterò io a casa, - assicura, - i bagagli di Beatrice prendono già troppo spazio, e comunque non abbiamo avuto tempo di fare le valige: Sybil si era persa i documenti.
- Erano sotto le lenzuola.
Proprio non riesce ad essere convincente quando mente. Le corde vocali di Shad vibrano del tono giusto solo al suono della verità. Le bugie stonano sulle sue labbra striate d'argento. Mi fa l'occhiolino, e io mi aggrappo a questo. Alla complicità tra di noi, che si fa più forte quando sale il livello della marea e i problemi rischiano di affogarmi.
- L'avete trovata? – domando.
- Beatrice? Sì, si era nascosta in camera di un conoscente.
- Per fortuna, - sbadiglio, ma alla scoperta del conoscente la mia faccia si intirizzisce come se qualcuno mi avesse sepolto viva nella neve.
Perché non mi merito nemmeno questo: Nicholas, Beatrice e Franz Kopplen che se ne stanno in cerchio centro della stanza. È ridicolo che dei tre milioni di individui che circolano a Chicago nell'arco di ventiquattr'ore sia costretta ad avere a che fare proprio con loro.
Inchiodo le gambe sul posto. La sensazione è quella di essere incappata in una pozza di cemento fresco.
- Che ci fa lui qui?
Lui è Franz Kopplen.
Lo dico ad alta voce. Le parole escono e basta. O loro o un fiotto di vomito.
Quando il gruppo si gira verso di me l'espressione di Nicholas è diversa da quella che gli ho visto addosso un'ora fa. Sembra aver riconquistato le redini del controllo. Adesso le porta legate saldamente attorno ai propri polsi.
Mi guarda, credo.
Di sfuggita mi sembra di beccarlo a guardarmi.
Io fisso Franz Kopplen e brucio di quello che è un sentimento imprecisato. Qualunque sia la sua natura ne ho il sangue così saturo che potrei fargli rientrare il naso nel cervello pugno dopo pugno. Ci sono le persone violente e quelle che non farebbero del male a una mosca. E poi ci sono io a pochi metri di distanza dal migliore - e forse unico - amico di Nicholas Reichenbach.
- Lui è con me, - dice Nicholas sulla difensiva, - è apposto.
Mi si presenta davanti la possibilità di studiarli entrambi senza sembrare indiscreta. Hanno meno in comune di quanto ci si aspetterebbe, visto il rapporto che li tiene incollati l'uno all'altro: la presenza di Nicholas è assuefacente. Non fraintendetemi: anche l'odore di benzina lo è, ma questo non vuol dire che faccia stare bene. È piuttosto tossico, in realtà, un veleno. Quello che intendo è che non puoi ignorarlo e fare finta che non ci sia. Nicholas, il modo in cui le sue spalle dritte e il suo mento alto si mettono in posa, in cui il suo cipiglio sfida apertamente il Mondo e i suoi capelli gli incoronano di platino la testa, non sono fatti per essere notati: ciò che vogliono è essere contemplati.
Franz invece sorride a tutti. A me in modo particolarmente detestabile. Saluta Shad con una mano, mandandola nel pallone; dà una pacca sulla spalla di Armand, facendolo sorridere; stuzzica Beatrice per tirarle su il morale e le offre una sigaretta. Ha un gesto "carino" da dispensare a chiunque. L'impressione è che gli piaccia stare in mezzo agli altri. O aborrisca la solitudine, o sia troppo vigliacco per affrontarla, o semplicemente non senta il bisogno di spiccare rispetto a qualcuno. O tutto insieme.
Improvvisamente mi ricordo che secondo Nicholas non ho la minima idea di chi sia Franz Kopplen.
Per quanto ancora posso sopportare questa farsa? Per poco. Per niente.
Si accettano scommesse.
Spingo le mani contro i fianchi per non portarmele al collo e scacciare il ricordo che qualcuno mi stia soffocando, ma non funziona. Faccio per parlare e Xanders fa per precedermi e allora io gli parlo sopra. È quello che fanno tutti ed è sbagliato, ma in questo momento non ho un freno.
- Pensavo che la nostra partenza dovesse rimanere un segreto, - dico.
- Franz ci ha dato una mano a ritrovare Beatrice, Sybil.
So che sta arrivando senza nemmeno dovermi guardare alle spalle. A volte capita di trovarsi da soli in una stanza e sentirsi osservati, come se ci fosse qualcuno con una mano sopra la tua testa. L'elettricità che in questo momento percepisco nell'aria è la stessa. Qualche secondo dopo, infatti, Nicholas mi raggiunge a grandi falcate.
Ha voglia di litigare.
Perfetto, è quello che voglio anche io.
Sono stanca ma sono preparata, e non aspetto altro.
- Ti ho detto che lui è con me, - ringhia a bassa voce. Franz Kopplen fa finta di dedicarsi interamente a dare sui nervi a Beatrice. Li vedo tirarsi piccoli schiaffetti sulle braccia. Lei lo ricopre di insulti e lui la ricopre di risatine. Sono due ingredienti indigeribili da separati e del tutto letali se mescolati.
- L'ho notato, - scandisco.
- Qual è il problema, allora?
Mi stringo nelle spalle. Potrei spiegarglielo, il mio problema. Basterebbe slacciarsi la giacca e tracciare ogni singola trama di capillari recisi ed ematomi anneriti che mi pittura la gola, e stare a guardarlo mentre gli chiedo di lavarla via. Faccio per schiudere le labbra e senza nessun riferimento a quello che è successo nell'appartamento di Zelda Hodgkin dico: - Spostati.
Per quanto difficile, torno a far finta di nulla: non so che cosa ci sia di speciale in lui, ma la dedizione di Nicholas nei confronti di Franz Kopplen sembra sincera. È l'unica verità scientifica appurabile su di lui.
Non vale la pena rischiare: Nicholas sarà sempre dalla parte di Franz.
Lo spingo di lato e passo oltre, perché nella classifica dei miei problemi settimanali, non so ancora dove piazzare Franz Kopplen. Una parte di me lo vuole in cima, in modo che abbatterlo sia più semplice e prioritario. L'altra non riesce a darsi pace all'idea che tutti gli altri guai possano accumularsi.
Ho bisogno di dormire.
Ho bisogno di un miracolo.
Sbrigatevi, ho bisogno di un altro miracolo.
- È tempo di salutarsi, - sospira Xanders.
- Siete già in ritardo.
Mi dirigo verso l'unica persona da cui non voglio separarmi e la stringo forte. Non ho fatto caso al momento in cui la sua presa è diventata familiare, come l'odore di casa o il tragitto per andare a scuola la mattina. È successo senza che me ne accorgessi.
- Ci vediamo presto, - soffia Shad, - qualche giorno.
Lei e Armand non faranno ritorno alla Villa insieme agli altri ragazzi: ne approfitteranno per passare qualche giorno in più con le rispettive famiglie.
- Rimarremo amiche quando tutto questo sarà finito, - dico, poi faccio dietrofront e raggiungo la porta insieme agli altri. Vorrei che ci fossero delle indicazioni per dire le cose giuste al momento giusto; un manuale, o che so io. Finché qualcuno non si deciderà a scriverne uno, non riuscirò a fare a meno di articolare esattamente quello che mi passa per la testa, per quanto inappropriato o fuori tempo possa sembrare.
Mentre lancio un'occhiata d'intesa ad Armand, preparandomi a una bella corsa sotto la pioggia, colgo lo stralcio di una conversazione alla mia sinistra.
Franz Kopplen rassicura Nicholas con il suo tono affabile e bambinesco.
- Starò bene, magnificamente.
Il modo in cui lo pronuncia è sbagliato e Nicholas sembra tutto fuorché convinto. Direi più sicuro del fatto che Franz potrebbe far sprofondare la città per errore.
- Che ne dici di tornare a DC? Non posso permettermi di stare in pensiero per te, adesso.
- Ti darò una notizia che potrebbe sconvolgerti: Chicago non mi sbranerà. Non posso andarmene senza aver preso un cheeseburger e una pepsi alla Billy Goat Tavern.
- Una coca cola, Franz. Ti sbatterebbero fuori per aver chiesto una pepsi. Lo vedi che ti metterai nei guai?
- Una coca, giusto.
Dal ghigno pestifero che riserva a Nicholas deduco che sia l'unico qui in mezzo a divertirsi un Mondo. Quasi quasi mi ricorda Leslie.
- Farò il turista per qualche giorno e poi tornerò a Washington, contento? Adesso vai.
- Se pensi di potertene andare in giro da solo per l'Art Institute, ti sbagli. Ti farò pedinare, - dice Nicholas.
- Ci sentiamo per telefono, comunque.
- Signorsì signore. Ormai ho più padri che anima, - sorride. Qualunque sia il senso della sua battuta, Nicholas si ammutolisce. Che significa? Quanti papà può avere una persona?
- Adesso va', - dice Franz, - Sciò. Via.
Nicholas annuisce e io riprendo a camminare. Sto per incrociare Delphine Navier quando Nicholas e Beatrice, avvinghiati, mi superano senza nemmeno scusarsi di avermi quasi fatto inciampare.
Delphine li insegue con lo sguardo e con la mano, ma Nicholas si ritrae al suo tocco con un accenno di disgusto sul viso: - Fate attenzione, - sussurra lei.
- Tuo figlio ti sta aspettando.
Nicholas, ammicca ad Armand. La sua voce è tombale.
I miei genitori saranno pure dei pazzi, ma un po' di educazione me l'hanno insegnata. Il minimo indispensabile per stare al Mondo, direi. Scuoto la testa, rassegnata, e mi avvio verso l'uscita con i documenti tra le mani. La differenza di temperatura tra l'interno e l'esterno dell'edificio è surreale: pensavo fosse il colmo per una ragazza del Minnesota battere i denti dal freddo, ma il vento che s'incanala tra i palazzi porta con sé il gelo del Lago e mi attanaglia le ossa.
Rivolgo un'ultima occhiata verso il grattacielo alle nostre spalle, trattenendo un'imprecazione. I palmi di Shad sono schiacciati contro il vetro della parete mentre mi guarda andare via. Uno è bianco, e non si adatta alla superficie liscia del vetro; l'altro ha il colore scuro e caldo della sua pelle e preme forte per non lasciarmi partire. Sulla sua spalla si appoggia una mano affusolata che cerca di confortarla: è quella di Franz Kopplen.
Questo è troppo per non rincorrerlo e spaccargli la faccia.
Deve stare lontano da lei.
- Ti lasciamo qui, creaturina.
Nicholas è una statua di ghiaccio sotto la pioggia che fucila Chicago; mani bianche, viso bianco, capelli chiari. Aspetto che le sue dita assorbano il calore della pelle di Beatrice, trasformandola in neve.
Non succede.
Pensiero sconnesso.
Detesto che si tengano la mano.
A lui non importa di lei.
Magari sì.
A lei importa di lui?
Riprendiamo a camminare sempre più veloce.
Chicago ci scruta dall'alto in basso in un giudizio universale di grattaceli e ferrovie sospese. Sfrecciamo verso la macchina, macinando l'asfalto bagnato sotto i piedi, con la pioggia che si trasforma in grandine e il fiume che schiuma contro le fondamenta dei palazzi. Ci aggrappiamo alla portiera, Beatrice e Nicholas da una parte e io dall'altra, fino a quando i nostri corpi non si incastrano nei sedili posteriori. Sento che se non inizieremo a muoverci la città mi terrà sotto processo: nel silenzio che segue la chiusura delle portiere e lo scatto della sicura, sembra inevitabile sentir calare il colpo della sentenza. Tocco il ginocchio di Nicholas con il mio e lo ritraggo, stringendo le gambe. Lui, senza abbassare gli occhi dalla strada, fa scorrere una mano fino alla mia tasca. Lo sento tastare la superficie ingombrante dell'hard disk e indugiarvi per qualche secondo, prima che il motore prenda vita. Dopo aver scassinato un appartamento non ho paura di cercare il suo sguardo attraverso specchietto retrovisore. Passa un po' di tempo prima che Nicholas si decida a incrociare il mio, ma alla fine succede. Io annuisco per rassicurarlo sull'esito della nostra missione suicida e lui poggia la testa contro il sedile. Non chiude gli occhi. Li usa per trafiggere la metropoli, contestando un verdetto tanto ingiusto.
- Va tutto bene, - boccheggia il padre di Armand, sfilandosi la giacca fradicia d'acqua.
- Ce ne andiamo da qui.
È così, ce ne andiamo.
Non perché siamo colpevoli.
Siamo una minoranza, ed è per questo che non combattiamo: è per questo che scappiamo via alla massima velocità di fuga.
Sono arrivata ad un capitolo della mia storia in cui un equilibrio, da qualche parte, è stato spezzato.
Il nemico ha il vantaggio.
Angolo autrice: la sessione estiva è finita, ma riprendere a scrivere decentemente richiede tempo. Come sempre mi scuso per avervi fatto aspettare; sono dell'opinione che meritiate il meglio che sia capace di offrirvi. Liquidarvi con cinque pagine non mi soddisfa. Il capitolo è di passaggio, come avrete notato, ma indispensabile: Sybil ha bisogno dei dati nascosti nel computer di Zelda, e presto capirete perché. È inoltre un campo minato di indizi. Alcuni sono meno velati, altri sono da ricercare con pazienza, ma sono sicura che i lettori più attenti riusciranno a scovarli. E niente, spero che la storia vi sia mancata e che siate ancora qui a seguirla. Fatemi sapere se il capitolo vi è piaciuto oppure no; datemi i vostri consigli, i vostri pareri, le vostre ipotesi. Avere dei lettori è bello perché sono parte della storia. Per me voi siete parte della storia. Vorrei che questa fosse un'avventura da vivere insieme.
Vi mando un bacio e vi ringrazio. A presto!
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro