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Capitolo 56- Oggi non è giovedì

«Sei teso?»

«No.»

L'ascensore stridette per un momento, mentre saliva all'ultimo piano. Non l'avevano mai preso.
Forse perché, tutte le volte che percorrevano le scale della Centrale, avevano in mente troppi pensieri per ricordarsi di usarlo.

«Hai visto Mulder?» chiese infine Xavier, sistemando la cravatta sotto al completo.
Zelda scosse la testa.
«No, sarà già in sala riunioni» disse, mentre toglieva qualcosa di invisibile dalla sua camicia di velluto.

Le ante dell'ascensore si aprirono.

«Eccoli!» trillò qualcuno.
Poi una cascata di complimenti, tanti auguri, congratulazioni per il posto! prese a infrangersi verso di loro mentre tutti si affacciavano per osservarli entrare nella stanza, come se i protagonisti di uno spettacolo avessero appena fatto il loro ingresso in scena.
Ognuno aveva uno sguardo diverso in volto: tra chi sembrava essere lì senza una ragione ben precisa, a chi sorrideva trionfante, forse perché le sue previsioni si erano avverate, fino a passare a chi, invece, li guardava con diffidenza e rancore malcelato.

Zelda sorrideva e Xavier ringraziava, quasi si fossero spartiti i compiti per sopravvivere alla situazione. Stavano vicini, cercando di spostarsi dagli angoli più colmi di persone.

Mulder si fece spazio tra la folla, mentre teneva in mano due bicchieri di champagne.
«Allora ce l'avete fatta, bastardi» disse, mentre passava loro i calici strabordanti.
«Non ce la facevo più, a stare qui a discutere di tennis con quelli della narcotici.»

«Ci sono anche quelli della narcotici?»
Xavier si guardò intorno, muovendo gli occhi lungo la platea di persone davanti a lui.

«Hanno detto che volevano venirvi a vedere.
È perché li avete aiutati delle volte con gli interrogatori.»

Zelda annuì, distante, prima che qualcuno le appoggiasse un braccio intorno alle spalle. Sobbalzò, voltandosi e riconoscendo il volto di Alma.
Lei le sorrideva, con in mano un bicchiere a metà.

«Cazzo» sbuffò.
«Allora è veramente vero che prendete il comando. Io non ci ho creduto fino all'ultimo, pensavo fosse uno scherzo di Mulder.»

Anche io, lo pensavo, si disse Xavier mentalmente.

«Sapete» continuò Alma.
«Non avrei mai pensato che accettaste. Ora che comandate ricordatevi che non ho mai parlato alle vostre spalle, d'accordo?» mormorò, in uno strano tono ambiguamente scherzoso.
«Ma posso dirvi chi lo faceva» aggiunse, e i gemelli si guardarono, sorpresi e divertiti.

«Con piacere» disse Zelda, prima di volgere lo sguardo verso il tavolo dove un gruppo si era radunato a parlare.

L'idea che ora tutto potesse dipendere da lei la spaventava.
L'idea che gli altri sapessero che tutto dipendesse da lei la terrorizzava.
Guardò ancora una volta Xavier, e lui di rimando bevve un sorso di champagne.

«Allora, un attimo di attenzione, prego!» esclamò all'improvviso Oscar, battendo chiassosamente le mani.
Un'orda scintillante di ospiti si voltò, attendendo solo le sue parole.

Liza, pensò Xavier, faceva tintinnare un cucchiaino contro il bordo del bicchiere, per richiamare l'attenzione.

«So che siete venuti qui perché si beve gratis» iniziò Mulder.
«Ma oggi si celebra qualcosa di molto importante, per me e soprattutto per la centrale, oltre all'esistenza degli alcolici.»

«Cristo santo» sibilò Zelda, senza un apparente motivo.
Sembrava che le parole di Oscar la turbassero, che tutta quell'attenzione posata direttamente su di lei, in qualche modo, la paralizzasse.

«Tranquilla» bisbigliò di rimando Xavier, voltandosi il tempo necessario per pronunciare quella brevissima parola.

«Oggi la centrale decide di andare avanti. No, non senza di me. Ma ormai sono vecchio, lo sanno anche e reclute» ammiccò a un gruppo che lo osservava con una timorosa ammirazione, mentre da lì si levava una risata.

«Così ci ho ragionato, riflettendo su come la centrale avrebbe potuto finalmente ritrovare un momento d'equilibrio.
E non appena mi sono chiesto chi potesse riuscire a portare l'ordine in questo caos» si trattenne all'ultimo dal dire bordello.
«Mi sono venute in mente solo due persone. Zelda e Xavier Lynch, che ero certo potessero gestire una responsabilità del genere.
Sapete, le responsabilità sono il loro forte: credo ne abbiate già avuto prova con il caso Enigma.
E con tutti i loro casi precedenti.
Non falliscono, e se lo fanno, trovano una via efficace per riordinare tutto.»

Zelda inspirò, contraddicendo tra sé e sé ciò che Mulder stava dicendo.
Forse potevano riequilibrare tutto, ma solo dentro le mura della Centrale.
E Oscar lo sapeva bene, mentre li osservava dritti in viso, esclamando il suo efficace monologo.
Ma lui sapeva scindere ciò che erano quando lavoravano, e ciò che diventavano una volta che non avevano il lavoro a cui pensare.

Zelda ricordava di una volta in cui Mulder le aveva detto che non si sarebbe mai fidato di loro, se fossero stati in ambito lavorativo ciò che erano nella vita privata.
Quella sua affermazione le aveva fatto male, ma in quel momento credette finalmente di averla capita, perdonata, e accettata come verità.

«È per questo che ho scelto loro. Perché so che grazie al loro criterio e alle competenze che li caratterizzano la Omicidi potrà brillare. Quindi»
Li indicò con il calice di Champagne.
«Non fatemi pentire della mia scelta. Non fate bruciare questo posto dopo due giorni.»
Qualcuno tra i presenti rise, una risata rischiosa e sommessa.

«E soprattutto» disse Oscar, mentre si avvicinava.
«Fate vedere che le cose ve le ho insegnate io.»

Questa volta furono loro a ridere, rassegnati, mentre si destreggiavano nei più raffinati tentativi per mostrarsi commossi.
Oscar fece l'occhiolino ad entrambi, mentre si allontanava da quel crocchio frusciante d'applausi che aveva appena intrattenuto.
La gente li applaudiva, e anche se non potevano avere la certezza che tutti fossero davvero contenti per loro sapevano che alcuni lo erano, che Oscar lo era. E bastava questo.

Zelda guardava davanti a sé, un sorriso tiepido e assorto tra le labbra.
Aveva lo sguardo attento e pensoso al contempo, quasi stesse ragionando su qualcosa di imminente. «Allora» disse, voltandosi e incontrando gli occhi di Xavier.
«Adesso comandiamo noi?» ironizzò, mentre incrociava le braccia e le stringeva tra loro, quasi volesse rassicurarsi.

Xavier le rivolse un'occhiata complice e veramente divertita, forse la prima che le avesse mai rivolto da tempo.
«Temo di sì.»

«Lo spettacolo che desiderate. Lo spettacolo che temete.
Quello che vi scandalizzerà, quello che vi lascerà a riflettere, quello a cui dovete assistere!»
Una pubblicità del Dionysus scorreva lungo uno schermo sottile messo al bordo della strada. Mostrava lo spettacolo riguardante Enigma, finalmente nel teatro.
Era il tre di aprile, le giornate erano miti, le sere ancora fredde, i pomeriggi scroscianti di una pioggia fine e gelida.
I giorni si erano susseguiti, tutti con un breve, piccolo dettaglio che ricordasse loro di Maximilian Mitchell.
Zelda si girò, osservando di nuovo la pubblicità.
Si convinse che fosse il dettaglio del giorno.
Quello che la facesse ricordare.

Per qualche tempo aveva pensato addirittura di andarci, allo spettacolo, poi Xavier l'aveva fatta ricredere.
Sai quanti giornalisti ci saranno? No, non ne hai idea. Entreresti a teatro a metà del secondo tempo.

Così non c'era andata, lasciando che i giornali le dicessero quanto fosse stato spettacolare, strabiliante, rivoluzionario...

«Prego, il teatro ti accoglie.»

Zelda alzò gli occhi verso le nuvole plumbee, incontrando la figura spettrale e olimpica del Dioniso che svettava sempre sopra al teatro.

«Vuoi sapere la verità su di me?» chiese l'ologramma.
Si chinò per avvicinarsi, appoggiando i palmi delle mani sulla ginocchia, laddove oscillava il bordo del chitone.
La guardò in viso, lei fece lo stesso e riconobbe nei suoi tratti il volto di Andrew.

Era veramente lui, il dio che il Dionysus aveva scelto come sua icona.
La voce, lo sguardo, tutto riluceva della stessa essenza dell'attore.
Era qualcosa di ipnotico, spaventoso, terribilmente sbagliato.

«Vuoi sapere cosa mi ha spinto a commettere ogni omicidio?» continuò lui, mentre sorrideva con la stessa pungente dolcezza di Wilson e si portava alle labbra una coppa di bronzo.

«Posso raccontarti cosa è successo, dal principio. Basta solo che tu varchi le soglie del mio teatro.»
Poi la sua mano sembrò tendersi verso quella di Zelda, per quanto effettivamente potesse, e sul suo palmo crebbero germogli di vite.

La invitava a percorrere lo spazio che li divideva, a comprare quel maledetto biglietto che si intravedeva tra le foglie che gli crescevano tra le mani, quello che l'avrebbe fatta rivivere tutto da principio, che l'avrebbe costretta ad assistere a qualcosa di immorale e semplicemente stupido.

«Quindi» disse Andrew, con il suo tono solenne e accattivante.
«Vuoi conoscere la verità sul caso Enigma?»

Zelda scoppiò in una breve e cinica risata.
«No» disse, mentre si voltava, cambiando strada.

«Ti ho detto che non ci andiamo!»

«Ma perché

«Lo sai che mi fanno paura quelle cose. Non voglio dover uscire dal teatro a metà tempo!»

Una coppia stava passando vicino al Lullaby. Camminava veloce, mentre discuteva con svogliatezza riguardo allo spettacolo su Enigma.    

Zelda si sporse dal bordo del suo balcone, mentre la sigaretta che teneva tra le mani illuminava il buio con i suoi ardenti e rossi bagliori.
Una polvere sottile di cenere cadde al di sotto, sulla strada.

«E poi non mi interessa, ne abbiamo già avuti i giornali e la televisione piena per mesi.»

Si abbandonò contro il muro freddo e ruvido del terrazzo, scontrando la finestra aperta.
Sentiva una falena sfarfallare freneticamente sopra di lei, sbattendo sulla luce al led esterna, e il suo ronzare si mischiava con la melodia distante di un brano Jazz.
Poi Zelda si voltò verso l'interno, rendendosi conto che il suo giradischi fosse fermo, e non fossero sue le note che sentiva sibilare, lontane e offuscate.

«E allora ci andrò da solo! Cosa devo dirti!»

«Ciao.»
Xavier stava appoggiato alla ringhiera, le dita delle mani a tamburellare contro il ferro.
Rimase immobile per un po', prima di voltarsi a guardare la via.
Non aveva illuminazioni sul suo balcone, perciò la sua figura si stendeva nell'ombra come se facesse parte di quel buio.
Unica testimonianza del suo esistere era la sua voce calma e la sua sagoma poco visibile.

«Mi hai spaventata.»
Zelda si portò mano al petto, sentendolo battere piano. «Non ti avevo visto.»
Lei, invece, era irradiata dal led sopra il suo capo, che la illuminava con una strana aurea diafana.

«Li sto sentendo da almeno dieci minuti. Sono uscito per vedere che stesse succedendo.»
Xavier si avvicinò al balcone dell'altra, venendo rischiarato a sua volta da quella luce fortissima.  Ora si poteva intravedere l'ombra pallida di un sorriso tra le sue labbra, mentre abbassava lo sguardo a osservare la coppia che litigava, sotto di loro.

«Tutto per uno spettacolo su Enigma» disse Zelda, puntando gli occhi verso la strada a sua volta.
«Assurdo» constatò, in un sussurro appena percettibile.

«Certo! Tanto fai sempre tutto da solo! Mi chiedo cosa ci faccia io nella tua vita, se non mi vuoi mai tra i piedi!»

Xavier sbarrò gli occhi per un momento, colto da un'espressione colpita e sorpresa.

Zelda incrociò le braccia, per poi ritrarle subito dopo, quando la coppia sembrò placarsi d'un colpo dopo le parole della donna.
Evidentemente aveva detto una scomoda verità. Entrambi proseguirono per la loro strada, vicini, stando ben attenti a non scontrarsi.
Era finito lo spettacolo a cui avevano inconsciamente assistito, e della confusione rimanevano solo i gelidi rimorsi.
Pensò che fosse un sentimento che conosceva bene, poi Zelda spense la sigaretta.

«Senti» Xavier la richiamò, e le fece uno strano effetto osservare il suo volto sereno dopo che si era persa nei ricordi di tutto ciò che si erano detti, sputati addosso fino ad allora.   
«Ho preparato qualcosa da mangiare, vieni da me.»

Lei scosse la testa.
«No, tranquillo» disse, lanciando un'occhiata alla sua cucina, pallida dietro le tende che la nascondevano.

«Ho una bottiglia da finire, non farmici ubriacare, dai» scherzò lui.
«Brindiamo al posto, a Enigma, al fatto che non siamo morti, non lo so. Scegli tu.»
Poi le sorrise, -un sorriso ampio e felino che usava quando voleva a tutti i costi convincere qualcuno a fare qualcosa- e si lasciò ricadere nell'ombra del suo balcone.

Zelda gli lanciò un'occhiata acquiescente.
«Va bene.»

Detroit brillava, dietro i vetri splendenti del salotto.

Zelda aveva sempre pensato che la vista dall'appartamento di Xavier fosse migliore della sua, ma credeva che non le importasse.
In quel momento, davanti alla rassicurazione che quel panorama statico e luminescente le dava, si disse che se fosse stato suo avrebbe potuto rivolgervi lo sguardo molte volte, quando ne aveva bisogno, e di certo si sarebbe tranquillizzata.

Due piatti semivuoti giacevano sul tavolo, fermi come parte di uno strano quadro moderno, mentre il lampadario ne illuminava la porcellana candida.

«Hai annaffiato le piante?» chiese Zelda, raggomitolata in un angolo del divano, mentre tra le dita teneva un bicchiere a metà.
Il vino pallido al suo interno oscillò appena, quando indicò le piante per porre la domanda.

«Oggi non è giovedì» rispose solo Xavier, mentre prendeva i due piatti, per riporli nel lavandino.

Zelda annuì, silenziosa, mentre continuava a guardare lontano, oltre i vetri della sala.
Osservò il calice che teneva tra le mani, per redersi conto con una pungente fitta che era uguale a quelli che un tempo erano stati anche suoi, e di cui ne rimaneva un unico, solitario pezzo.

Poi diede un'occhiata al vino.
«Ho come l'impressione che sia troppo costoso per essere tuo» disse, ironica.

«Infatti è di Liza. Lo aveva portato da Chicago» rispose lui, sommesso, mentre bloccava il flusso d'acqua del rubinetto.
Rimase di schiena per qualche secondo, mentre Zelda si tormentava l'interno della guancia, mordendolo. Non disse nulla.

«Però è buono?» chiese Xavier.

«Sì» sibilò lei.
Non aveva il coraggio di girarsi e di guardarlo in faccia.
Non poteva voltarsi e incontrare i suoi occhi, perché già sapeva che sarebbero stati assorti, pensosi, intenti a riflettere su qualcosa di troppo malinconico.
Così rimase in silenzio, con lo sguardo rivolto verso quei palazzi lontani, che sembravano paradossalmente così vicini da far quasi paura.

Xavier si sedette dall'altro capo del divano, sciogliendosi in un effimero sospiro, prima di bere un sorso. 
Rimasero così, fermi e in silenzio, per diverso tempo.
Ognuno perso in ciò che non voleva dire, ma su cui voleva ragionare in solitudine, ricordando tutto ciò che era successo e che non era ancora riuscito a capire fino in fondo.
Restarono smarriti nelle loro menti, e avrebbero potuto trattenersi ancora a lungo in quella marea di riflessioni se Zelda non si fosse voltata.
Finalmente conscia di ciò che voleva dire, con il terrore che le parole non avrebbero ubbidito ai suoi ordini, incapaci di uscire, parlò.

«Mi dispiace per Liza» esclamò, lapidaria, facendo fluttuare quella frase nella quiete dell'appartamento, rompendola in maniera irrimediabile.
«Non avrebbe dovuto finire così. Non credo-» poi si fermò.
Non sarebbe dovuta finire con tutto ciò che avevano temuto.
Sentiva addosso la colpa di non essere riuscita a sistemare le cose, e in quel momento si rendeva conto che nulla poteva essere rimandato, niente avrebbe mai potuto ripararsi.
Come uno specchio in frantumi, un dipinto disciolto dall'acqua, Liza se n'era andata e non aveva potuto fermarla. 
E per lei, che aveva sempre convissuto con la colpa, con la paura costante di continuare a sbagliare, quelle parole erano state l'ennesima verità che rifiutava di accettare.

«No, non dirlo.»
Xavier la guardò di rimando, sofferente, negando come se non volesse accettare ciò che aveva appena detto.
«Ormai è finita così. Non possiamo rimpiangere, non dobbiamo» sembrava che si fosse ormai convinto che doveva andare avanti, come se fosse stato parte di un tacito accordo con Liza, con il vuoto che aveva lasciato.
E le parole di Zelda lo facevano dubitare, lo facevano annegare in un abisso in cui gli venivano ricordate le possibilità sprecate.

«No, io non sto rimpiangendo» lei sembrò sinceramente turbata da quell'atteggiamento.
«Non voglio rimpiangere niente. È solo qualcosa a cui stavo pensando.»
Il tono della sua voce si abbassava man mano che stava parlando, fino a trasformarsi in un mormorio insicuro.

Xavier premette le labbra l'una contro l'altra.
«Sai» disse, mentre la voce gli scricchiolava. «Avrei voluto che funzionasse.»
Poi guardò Zelda negli occhi, quasi avesse voluto osservare i suoi pensieri, curioso se fossero uguali ai suoi.
«Con Chicago, con Liza, con tutto.»
Espirò, come a voler trovare l'equilibrio per continuare, e Zelda sentì una fitta alle viscere quando si accorse che fosse sul punto di piangere.

«Avrei davvero voluto che funzionasse.»
Sì sfiorò gli occhi con una mano, poi scosse la testa.
«Ma non è stato possibile. E la cosa che voglio, l'unica cosa che voglio, adesso, è non perdere più occasioni.»

Zelda posò lo sguardo sulle proprie mani.
Le punte delle dita le tremavano, e c'era un sentimento nauseante, un dolore fisico al petto, che le fece credere di poterne rimanere sopraffatta, quasi il cuore stesse lentamente e dolorosamente dissolvendosi.
Una sensazione così totalizzante e familiare, che l'accolse con un vago retrogusto di pace.

«Non avrei dovuto lasciarti qui. Non dopo ciò che ti ho detto.»
Poi Xavier si fermò, come se tutta quella situazione gli stesse togliendo il respiro.
Era quasi impossibile ripensare al momento in cui i loro futuri sembravano essersi staccati irrimediabilmente, una volta per tutte.
Ed era ancora più assurdo rendersi conto che niente era stato come invece lo avevano programmato, e su cui avevano silenziosamente sofferto.

«Non ti odio» confessò lui, infine.
«Come potrei odiarti?» chiese, rivolgendo a se stesso quell'angosciante domanda.

Se un tempo aveva creduto fosse possibile odiarla, in quel momento si rese conto che non lo era mai stato. Anche quando ne era convinto, anche quando avrebbe potuto giurare che niente l'avrebbe mai fatto cambiare idea, Zelda era sempre rimasta la spina di una rosa troppo inestimabile per essere calpestata.

Ciò che era cresciuto in lui e che aveva scambiato per quel sentimento così feroce, in realtà era solo una pianta infestante.
Ed era germogliata dalla ferita procurata dal dispiacere di non essere amato.  

Per tutto quel tempo si era voluto convicere di non avere nulla a cui spartire con Zelda, rifiutando la possibilità di esserle simile.
Eppure soffrivano esattamente allo stesso modo, commettendo gli stessi errori e procurandosi gli stessi, dolorosi mal di testa dopo aver pianto troppo. Faceva male riconoscere che in loro risiedeva la stessa sofferenza, e che forse era proprio la cosa che più li legava.
Ma era ugualmente rasserenante rendersene finalmente conto. 

«Nemmeno io» disse Zelda, «non ti ho mai odiato.»
Non c'era stato odio.
Solo il riflesso di un rammarico brutale e radicato che aveva specchiato come un raggio di sole su di lui, rendendolo partecipe e colpevole al contempo della sua infelicità.

«Ma ho paura che tutto finirà come prima.»
Deglutì, trovando un dolente peso sulla trachea. «Ho paura che continuerò a fare gli stessi errori. Che si rovinerà di nuovo ogni cosa e che torneremo ad essere soli.»
Poi si sfiorò le labbra con le dita, irrequieta, quasi volesse zittire addirittura i suoi pensieri. 

Avrebbe potuto essere così?
Tutto esattamente come prima, promesse sprecate come era già stato fatto troppe volte, illusioni di qualcosa che non poteva cambiare.
E la solitudine, quella terribile incompletezza, sarebbe tornata.

«Non voglio che succeda. Non voglio che sia come le altre volte, anche se ho così paura che possa esserlo.» Sbattendo le ciglia, quelle si inumidirono appena.
«Ma non posso nemmeno lasciare che accada»
mormorò, atterrita dall'idea di dover rivivere il passato, decisa a fare un tentativo nel cambiare il futuro.
Aveva sempre cercato di reprimerle, quelle memorie che infestavano la sua mente e che rendevano così difficile poter andare avanti.
Solo allora si rese conto che quello era solo il modo migliore per ripeterle all'infinito.
«Ti voglio troppo bene per poter ripetere tutto.»

Rimasero entrambi in silenzio, immobili e storditi da tutte quelle confessioni difficili eppure così naturali.

«Zelda» bisbigliò poi Xavier, con un tono nuovo, fatto della stessa triste dolcezza di un addio, quasi la stesse rincontrando dopo tantissimo tempo.

«Zelda» ripetè, e pianse, perché non aveva mai detto il suo nome con una tenerezza simile.

Lei sorrise.
Rise quasi nel pianto, in un malinconico paradosso.
, pensò, come se non si fosse veramente conosciuta prima d'allora.

Forse le colpe non potevano essere assolte, forse le parole di Maximilian nascondevano un fondo di verità.
E quindi che altro potevano fare, se non arrendersi a loro?
Lasciare che ciò che era stato venisse accettato, capito, senza lasciare l'amarezza del rimorso.

Forse non sarebbero cambiati, forse sarebbero tornati inevitabilmente a ciò che erano, ma in quel momento volevano escludere quella possibiltà, lasciandosi cullare da quel bellissimo e triste sentimento che li stava accomunando.

Zelda rivolse un'ultima, offuscata occhiata a Xavier, mentre lasciava scivolare ogni pensiero con leggerezza, in un flusso discontinuo e tiepido di lacrime.

Poi abbandonò la testa contro la sua spalla, e insieme osservarono la notte al di là della vetrata.

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