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Capitolo 45- E adesso il Meteo


«Cos'è?»

«Leggila.»

Zelda stava con le mani conserte, la schiena contro il vetro tiepido della finestra, immobile come una lucertola sotto al sole.
Mulder si mise gli occhiali, prese la lettera tra le mani.

«Da quando metti gli occhiali?» lei si versò del bourbon in uno degli opachi bicchieri messi in fila vicino alla scrivania.

«Da poco. Da vicino non ci vedo più un cazzo. Mi spieghi che roba è?» Oscar sventolò il foglio con disinteresse, passandosi una mano sul mento.

«Non ti sembra troppo specifica?»
Zelda bevve un sorso, guardandolo con la coda dell'occhio.
La sua idea era stata di mantenersi calma. Tranquilla, senza panico, senza ansia, senza paure infondate con cui ammorbare Mulder.
«Sembra scritta esattamente da Enigma.»
Si morse la lingua.

«Ma che cazzo...»

«L'hai letta?» chiese lei, prima di sedersi nella poltrona davanti a Oscar, gli avambracci tesi accomodati sui braccioli.

«Va bene, può somigliarci. Ma chiunque potrebbe sapere come scriverla.» Tentò lui.

«C'era anche questa» Zelda gli passò la ricetta medica, «è una prescrizione di Liza, di gennaio. L'avevo buttata.»
Si abbandonò allo schienale della poltrona, i capelli scomposti in lisce ciocche dietro le sue spalle.

Mulder la fissò per qualche secondo, lei fece altrettanto.
Oscar sembrava sull'orlo di ridere, ma era impossibile che fosse il suo vero intento.
Quando era troppo stupito per reagire, il suo viso assumeva un'espressione involontariamente ironica.

«Sono puttanate.»

«Oscar» Zelda scoppiò in una risata spaventata, «per favore» disse poi, completamente seria, quasi lo pregasse di crederle.

Lui le fece segno di passargli un bicchiere e la bottiglia di cristallo.
Lei li afferrò con entrambe le mani.

«Quando l'hai ricevuta?» domandò lui, mentre il bicchiere che aveva davanti si riempiva.

«Ieri sera.»

Mulder non disse nulla.
Bevve un lungo sorso, poi espirò, rilassando le spalle.
«Hai fatto bene a dirmelo» la rassicurò.
Distese le labbra in una linea dritta e severa, quasi non volesse pronunciare le sue prossime parole, «ma di qualsiasi cosa si tratta, devo essere l'unico a saperlo.»

«Che cosa?» Zelda sgranò gli occhi, incapace di reagire. Quasi Oscar non avesse mai detto niente, quasi lei non volesse accettarlo, continuò:
«Tienila tu. Mandala alla grafologa, alla Tyrell. Guarda se la calligrafia è di Andrew.»

«Come può essere di Andrew?» esclamò Mulder ridendo, incredulo.

«Non lo so!» esplose lei, furente, buttando il bicchiere sul tavolo.
Quello scivolò, fino a posarsi davanti alle mani conserte di Oscar.

Zelda appoggiò il gomito, portandosi una mano alla tempia, «non so cosa fare.»
Se ne stava così, il palmo a reggere dei pensieri che non voleva affrontare.
Scoccò a Oscar uno sguardo rabbiosamente pensoso e ai limiti dello sfinito.

«Ascolta» lui sembrò comprendere la sua confusione, «tengo io la lettera. Posso provare a parlarne con alcuni dei detective. Ti ricordi Alexander Myers?»

«Quello col cappotto caramello?»

«Lui. Ci parlo, ormai lo conosco bene. Ci parlo subito, oggi.»

Zelda annuì, inquieta.

«Ma Carter non deve sapere un cazzo, d'accordo? Nessuno deve sapere un cazzo, a parte quelli che sappiamo per certo non diranno niente ai giornali.»Oscar si alzò, andò ad aprire la finestra e tornò con un'espressione ancora più tesa.

«Va bene» Zelda abbassò lo sguardo, facendolo scorrere lungo il pavimento, «se la stampa lo sapesse...» ma non disse altro.
Non voleva che l'idea che tutto potesse ricominciare le sfiorasse le labbra.

«Se la stampa lo sapesse, sarebbe un puttanaio assicurato. Quindi stiamo molto attenti...» cercò una parola professionale, «stiamo attenti a muoverci con cautela.»

Zelda fece per aggiungere qualcosa, forse addirittura iniziò una pericolosa frase, quando la porta dell'ufficio di Mulder si spalancò, cigolando appena.

«Ecco dov'eri» Carter stava in piedi, appoggiato allo stipite.
Aspettò qualche secondo prima di muoversi verso il centro della stanza.
Poi rise. «Zelda, ora che non hai più nessuno con cui confabulare hai scelto Oscar?»

Lei si lasciò andare a uno stretto sorriso sprezzante. «Stavamo proprio parlando di te» bisbigliò, graffiante, ammettendo con sarcasmo una pura verità.
Strinse tra le dita il bicchiere, e le sue impronte digitali trasparirono sul cristallo come tanti sottili scheletri.

«Ah, davvero?» disse lui, senza aggiungere altro, quasi fosse certo che quello fosse un ennesimo attacco ironico.
Anche lui prese un bicchiere, e si versò indisturbato da bere.

«In caffetteria c'è una giornalista che vuole parlarti» avvisò Mulder, mentre faceva rotare il bourbon, simile ad ambra fluida.

«Non posso parlare, adesso.»

«Trova un momento in cui puoi, Oscar.»

Lui schioccò la lingua, osservando l'altro con noia. «Devo finire di compilare dei fascicoli.»

«Allora finiscili e poi vai da lei. Giusto?» si volse verso Zelda chiedendone l'approvazione, e lei di rimando guardò Oscar con una sottile espressione di finto rimprovero.
«Giustissimo» asserì, e lui nascose una risata dietro a un teatrale colpo di tosse.

Carter sembrò far finta di niente, non mostrando alcun segno di irritazione.
Tese il braccio, tenne il bicchiere stretto tra le mani, fino a incontrare quello di Zelda e scontrarlo in un lento e mellifluo brindisi.
«Alla Grant» disse, poi sorrise.

Lei rimase ferma, lo sguardo fisso oltre Mulder, ad ammirare la libreria dietro di lui.

«Zelda ha fatto l'ultimo passo falso, anche se forse non se ne rende conto» prese poi a raccontare Bennie, quasi fossero chiacchiere da niente. «Peccato, poteva fare la sua parte.»

Oscar gli lanciò un'occhiata confusa e torva.
«Che cazzo vuoi dire?»

«Niente» Carter sbottò in una risata sommessa e quasi ferina. «È una cosa tra me e Zelda.»
La guardò, ma lei aveva occhi solo per il fondo del suo bicchiere, coperto da una patina traslucida di bourbon.
Rimase in silenzio, mentre le parole le si congelavano tra le labbra prima di poter essere pronunciate, come gocce che si trasformano in brina all'arrivo del primo freddo.

Sperò che Carter fosse morto.
O, meglio, che non fosse mai esistito.
Poi finì il bourbon.

Delle luci arancioni provenivano dall'appartamento di fronte, quello che completava, insieme ai due monolocali già occupati, il trio del quarto piano.
Era stato affittato da qualche giorno a un ragazzo di New York, un tipo taciturno che stava sempre sul balcone, a guardare la strada.
Ora gli artificiali ed elettrici bagliori provenienti dalla sua finestra irradiavano, per corrispondenza, anche la cucina di Zelda.

"Va tutto bene. Ti richiamo in serata."

Il messaggio brillava dietro di lei, proiettato a risplendere sopra al tavolo sparecchiato, vicino a un calice vuoto.
Era stato inviato nel primo pomeriggio.

Zelda stava a osservare il piatto abbandonato nel lavandino.
L'acqua scorreva sulla sua superficie di ceramica, incontrollata. Poi il rubinetto si chiuse, il suo rumore scrosciante finito.

«Che ore sono?»

«Sono le otto e cinquantanove» rispose il clearcircle, e Zelda afferrò il freddo bordo del lavandino con entrambe le mani.
Chiuse gli occhi, aspettando solo che le nove scoccassero e la voce artificiale dietro di lei parlasse di nuovo.

Una sveglia fastidiosa e acuta, o almeno così la percepì, prese a ricordarle che doveva prendere la sua solita, pallida pastiglia di Valium.

«Sono le dieci-»

«Va bene» esclamò Zelda, frenetica.
Si staccò dalla cucina, avvicinandosi al tavolo, in cerca di qualcosa che non si trovava lì.
Indecisa su cosa farsene prese il calice, -l'unico soppravvissuto di quella sfortunata coppia- e lo riempì di nuovo, questa volta di un'acqua irrimediabilmente rosea, tinta dalle scie del vino precedente.

Un cassetto si aprì con un suono stridulo sotto la sua spinta, e Zelda cercò qualcosa con lo sguardo al suo interno, per qualche rapido istante.
Il contenitore dall'etichetta scrostata del Valium giaceva sotto a una cartolina della spiaggia di Chicago.
Lei lo prese, lo scosse per accertarsi che ci fossero pastiglie rimanenti.
Più si avvicinava alla cucina, al calice colmo d'acqua che l'aspettava, alle luci arancioni che la ipnotizzavano, più apriva e chiudeva il contenitore con un ritmo convulso.

Si fermò, tra le mani una, poi due, poi tre pasticche. Caddero sul suo palmo come fiocchi di neve sproporzionati, petali di un fiore infestante.

Accese la televisione.

«Come definiresti il tuo nuovo romanzo?» chiedeva l'intervistatore.

«Molto personale. Psicologico, quasi» rispondeva la Grant.

Zelda cambiò canale.

«E adesso il Meteo. Iniziano ad alzarsi le temperature in tutto il Mitchigan...»

Sbuffò, sospirando, sibilando qualcosa di incomprensibile.
Chiuse gli occhi, deglutì, fece qualsiasi piccolo gesto che le potesse far riprendere il controllo.

Quando riaprì gli occhi, e il suo sguardo si posò di nuovo sullo schermo delle tv, riuscì a leggere solo una frase, scorsa veloce lungo la barra delle notizie.

"Andrew Wilson: intervista agli attori della sua compagnia"

Scoppiò in una risata omerica, quasi schernisse con incredulità quelle crudeli coincidenze.
Non era superstiziosa, disprezzava chi si sentiva in balia di fatti più grandi di se stesso.
Lei era pragmatica, o almeno era così che amava essere etichettata, quasi l'obbiettività dei suoi ragionamenti potesse renderla ancora più accattivante agli occhi di chi la giudicava.
Ma era la vulnerabilità del momento, la sua terribile e offuscante fragilità, a dirle che quelle coincidenze potevano, in effetti, significare qualcosa.

Senza prima osservarle come aveva preso a fare quasi inconsciamente, buttò giù quelle tre pasticche, insieme.
Raccolse subito il calice bevendo più del dovuto, per poi appoggiarlo al tavolo con una strana violenza repressa.
Scoccò un'occhiata rancorosa al barattolo di Valium, osservandolo con senso di colpa: era lì, fermo davanti a lei, strabordante di tanti piccoli confetti bianchi. Era intollerabile.
Le sembrò improvvisamente affetto da una orrenda maledizione.
L'infernale condanna che aveva sempre in tasca e che aveva accolto con così tanto sollievo ora la faceva boccheggiare.
Ne aveva mai avuto bisogno?
Quella domanda che non si era ancora posta arrivò in quel momento, sadica e irragionevole, mentre afferrava con una mano il contenitore e lo trasportava verso il lavandino.

No, si rispose, mentre vedeva il contenuto di quel barattolo svuotarsi e sciogliersi sotto l'acqua corrente, diventando un inquietante agglomerato perlaceo.

Si lasciò cadere sul letto. L'arancio dell'esterno, che, come l'avesse seguita, le illuminava metà viso. Il resto era annerito dall'ombra della camera, immobile sotto quel manto scuro.
Una musica proveniva dalla strada, forse, non riusciva a esserne certa. Dream dei Pied Piepers, sì.
Quella canzone la rendeva sempre troppo malinconica.

Il ragazzo di New York spense le luci, e il caldo arancio che le scaldava gli occhi si dissolse, lasciandola vagare con lo sguardo in quel buio troppo chiaro per essere accecante.

Dream
When you're feelin' blue

Dream
That's the thing to do

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