Capitolo 35- Altri due Mason Daisy, per favore!
Due agenti stavano uno vicino all'altro, quieti, lo sguardo socchiuso in un gesto di estrema attenzione.
A volte si scambiavano uno o due sussurri o esclamazioni a bassa voce, mentre guardavano Liza parlare.
Altri poliziotti erano fuori dalla sala interrogatori, nei corridoi, nei loro uffici, in movimento.
La notizia dell'ipnosi di Wilson aveva raggiunto ogni sottile angolo della centrale, e tutti ne sembravano profondamente interessati, come se la morbosa curiosità che aleggiava intorno al metronomo fosse sembrata loro qualcosa di sovrannaturale.
L'ipnosi magia, e Liza la prestigiatrice.
«Uno...» Liza fece scioccare le dita, mentre tutti, nella stanza interrogatori, la guardavano affascinati. I suoi gesti, le sue occhiate, le sue parole erano così sicure e professionali da catturare tutta l'attenzione possibile.
Zelda era seduta vicino alla finestra, impossibilitata a fare solo un passo.
Fumava e guardava Liza, in silenzio.
Aveva scelto di rimanere e di osservare, di ricordare quegli schiocchi di dita e quelle frasi calme e pacate che poco tempo prima erano state rivolte a lei.
«È Capodanno, Andrew. Dove sei, la notte di Capodanno?»
La voce di Liza risuonava limpida attraverso il registratore vicino allo specchio.
Il suo tono si incurvava ad ogni frase, sempre più lento e scandito, come un foglio di carta che brucia accartocciandosi.
Xavier era seduto, le mani giunte in preghiera seppur non fosse il loro scopo, gli occhi abbassati e le spalle ricurve.
Ascoltava ogni parola con attenzione, lasciandole depositarsi tutte nella sua mente, una ad una, come tante piccole piume.
«Sono al Pandora. Il teatro.»
«Cosa stai facendo, al Pandora?»
Liza prese a far ticchettare le unghie sul tavolo, in un movimento ritmico e tranquillizzante.
«Sono da solo.»
«Non c'è altra gente?»
«No. Sono da solo e sto camminando.»
«Dove, stai camminando?»
«Sto uscendo.»
I due agenti si guardarono, poi presero a confabulare qualcosa, concitati.
Xavier alzò lo sguardo di scatto, staccando i palmi delle mani dal viso.
Li osservò per qualche secondo in silenzio prima che si zittissero del tutto, tornando seri e distanti come prima, oppressi dal suo sguardo severo e teso. L'entusiasmo dietro i loro occhi scintillanti era cupo e brillante come un'ametista.
Quell'interesse, pensò Xavier, che tutti avevavo almeno provato una volta dietro alle mura di quella centrale.
Si dispiaque per qualche secondo più del necessario per non riuscire a provarla, consumata come un cerino che si era acceso il giorno dell'inizio suo primo caso e non aveva mai smesso di bruciare.
«Stai uscendo dal teatro? Dove stai andando?»
Liza scrisse qualcosa di velocissimo sul foglio, facendo scorrere la penna con durezza, come se volesse appuntare i suoi pensieri nella maniera più effimera possibile.
«Devo fare una cosa. L'orario è giusto.»
Liza si spinse contro lo schienale della sedia, poi incrociò le braccia.
«Cosa devi fare?»
Wilson scosse la testa, fossilizzato sul metronomo. Sembrava quasi irreale che fosse così docile e immobile, dopo tutta la voce che aveva sprecato fino a qualche attimo prima.
«Devo tornare all'appartamento.»
«Bene» Liza fece scorrere lo sguardo da una parte all'altra della stanza, prima di continuare, «ora sei nell'appartamento?»
«Sì.»
«Cosa vedi davanti a te?»
Andrew assottigliò lo sguardo, come se dovesse mettere a fuoco qualcosa di invisibile.
Dischiuse la bocca.
«Delle lettere, sul tavolo» poi abbassò gli occhi, distese i palmi e li osservò, «porto dei guanti.»
Liza sentì una vampata di adrenalina scorrerle fino al viso, e i suoi occhi si illuminarono di una macabra speranza.
«Dei guanti» Mulder si alzò, passando vicino a Xavier.
Andò più vicino allo specchio, portando le mani suoi fianchi, «dei guanti.»
«Fa silenzio, per favore» Xavier aprì gli occhi, indicando l'altro per zittirlo.
«Perché hai bisogno di coprirti le mani?»
Liza scorse lungo il tavolo, camminando un passo dopo l'altro, lasciando che una mano sfiorasse i fogli vicino a lei.
Oltrepassò Zelda come se non esistesse, evitando o forse non vedendo le occhiate che lei le lanciava di continuo.
«Perché potrei sporcarmi con il sangue.»
Zelda sbattè le palpebre una, due volte, in un leggero sfarfallio.
Poi si voltò di scatto, guardando oltre lo specchio che, da quella parte della stanza, poteva sembrare vero.
Guardò a lungo in quella direzione, conscia che Mulder e Xavier potessero vederla e che avessero avuto la sua stessa reazione.
«Il sangue?» chiese Liza, tiepida, mentre tornava a sedersi.
I suoi polpastrelli tremavano appena, quasi impercettibilmente, a contatto gli uni con gli altri.
«Ce n'è molto. Ha una consistenza vischiosa, e mi sporca le scarpe. Penso che dovrò bruciarle.» Wilson scosse la testa, parlando come se stesse facendo una semplice considerazione.
«Perché c'è del sangue, Andrew? Qualcuno è stato ucciso?»
Wilson incurvò le labbra in un ghigno distorto e irritato, «non mi piace mai questa parte» disse poi, guardandosi le punta delle scarpe con disgusto.
«Andrew» ripetè Liza, il tono più teso, «qualcuno è stato ucciso?»
Wilson rise, arricciando il naso, come se la domanda dell'altra lo avesse quasi intenerito.
«È il... collo che sanguina tanto. È la giugulare.»
Fece per ritrarsi, come se qualcosa vicino a lui lo infastidisse.
«Di chi è il collo? Di chi è il corpo, Andrew?»
Liza appoggiò la penna lontano da sé, inclinando la testa e attendendo risposta.
Era composta, seria, di una professionalità immacolata.
Lui sospirò, buttando il collo all'indietro, «il telo è troppo corto e sottile. Il pavimento si inzuppa, il parquet lo assorbirà»
«Chi hai ucciso?» domandò lei, lapidaria.
Chi hai ucciso? Ripetè mentalmente.
Lo avrebbe fatto fino a che la risposta non fosse arrivata.
«Ah» Andrew sorrise di nuovo, poi scoppiò in una vera e sommessa risata, «la sua testa è ancora vicino al corpo. Vorrei spostarla, ma... no, meglio di no. Deve sanguinare ancora un po'.»
Zelda dischiuse le labbra, le dita pietrificate a reggere la sigaretta, lo sguardo fisso sul profilo romano di Andrew.
«Il corpo. Il corpo è di Marcus Rivera? Andrew»Liza gli si avvicinò, parlando a qualche centimentro dal suo volto, camminando sul quel filo invisibile che separava il controllo dalla frustrazione totale, ondeggiandoci sopra pericolosamente.
Annuì. Wilson scosse la testa, lentamente, annuendo più e più volte.
Lei lo squadrò per qualche attimo.
Le labbra le fremevano incontrollate, mosse da quella paura che aveva dimenticato di provare fino ad allora.
Schioccò le dita.
«Rivera è stata una magnifica coincidenza.»
Wilson teneva il mento appoggiato al pugno chiuso della mano destra.
Guardava davanti a sé, parlando come se cercasse di ricordare un avvenimento avvenuto moltissimo tempo prima. Liza era davanti a lui.
Le braccia distese, le dita a sollevare le unghie smaltate in frequenti, piccoli e ossessivi movimenti.
«Uno di quei momenti in cui capisci... comprendi bene che devi fare quello che va fatto.»
«Quello che va fatto?» chiese Zelda, avvicinandosi al tavolo.
Era sola, vicino a lei non c'era, come sempre, la figura longilinea di Xavier e sembrava tutto sbagliato.
Come se mancasse qualcosa e la stanza fosse inconsolabilmente vuota.
Lui era dietro lo specchio.
Quando era arrivato il tempo della confessione aveva preferito scomparire con discrezione.
Per una volta si era dimenticato di preoccuparsi del giudizio degli altri, e in un meccanismo di semplice autodifesa aveva constatato che guardare in faccia Enigma era qualcosa che non voleva affrontare. Non in quel momento.
«Di sera tendo ad annoiarmi facilmente. Così spesso passo qualche ora in un locale qualsiasi, che scelgo sul momento. La sera del ventisette dicembre sono passato per caso dall'Artistry, un locale vicino al teatro.»
Ventisette dicembre, sera.
Stava di spalle, silenzioso.
La bocca chiusa in una linea e i pensieri che sembravano fluttuare sopra la sua figura.
Andrew indicò il bicchiere davanti a lui con un gesto scocciato. «Barista,» disse, «non mi sembra di aver ordinato un Daisy classico. Avevo ordinato un Mason Daisy.» Schioccò le dita, mentre lasciava che il barman ritirasse il cocktail.
Sorrise quando l'uomo si scusò.
Non un sorriso comprensivo, quanto più soddisfatto.
«E voglio della menta, sopra. Non mi interessa se nella ricetta originale non c'è. Lo preferisco così.»Aggiunse.
Qualcuno scoppiò a ridere vicino a lui, e Andrew sobbalzò per un istante.
«Ci vuoi pure l'autografo del cameriere, insieme?»chiese una voce, tagliente.
«No» rispose lui, sibillino, voltandosi verso chiunque avesse parlato.
Un uomo sulla trentina lo squadrava, mentre reggeva con forza un bicchiere a sé.
«Beh, peccato. Sicuramente vorresti il mio, però.»
Andrew soffiò una risata sbalordita, «col cazzo. Se vuoi provarci con qualcuno vai da un'altra parte.»
L'altro rise di nuovo, «non hai capito nulla» poi si fermò, come se dovesse calibrare le prossime parole da dire.
Ma non lasciare che le lettere gli sfuggissero dalle labbra era difficile, e gli Old Pal che gli circolavano in corpo potevano confermare la situazione.
«Voglio dire che...» si portò una mano alla tempia, chiudendo gli occhi nel tentativo di scacciare il fastidioso senso di sfocatura che gli appannava la vista.
«Che se sapessi chi sono vorresti il mio autografo.»
Andrew assottigliò lo sguardo, prima di scuotere la testa, esasperato. «Certo. Senti, sei fradicio, lasciatelo dire. Chiedi il conto e lasciami bere il mio cocktail in pace.» Enfatizzò l'ultima frase con una forte punta di disprezzo.
«Fanculo!»
L'uomo scaraventò lontano da sé il bicchiere che fino a qualche attimo prima teneva saldo.
«Se sapessi cosa ero, adesso non saresti qui a trattarmi come uno stronzo qualsiasi. Se potessi riavere la mia vita, il mio lavoro, invece di vivere nell'ombra...» gli si avvicinò, mormorando, «se fossi ancora alla Gentric, se fossi ancora un genetista, tu saresti rovinato.»
Andrew si immobilizzò.
I suoi occhi incolori vagavano da una parte all'altra del viso dell'altro, come scariche elettriche impazzite. Rimase fermò per qualche attimo.
Poi sbattè le ciglia, mentre un sorriso di pura e genuina felicità gli si stendeva sulle labbra.
«Hai ragione, perdonami. Credo di essere partito col piede sbagliato,» disse, con una nota di falsa mielosità abbastanza fine da non essere colta dall'altro.
«Altri due Mason Daisy, per favore!»
«Una coincidenza del genere... non potevo crederci. Era come se tutta la realtà si fosse allineata per lasciarmi agire. Era un grande "Via". Era un'opportunità da non lasciarsi fuggire, un invito fatto su misura per me.»
«Cosa è successo in quei quattro giorni?»
Mulder si arrotolò la manica sinitra della camicia, muovendosi sotto il led posto a centro stanza.
«Non l'ho ucciso subito.»
Andrew scosse la testa.
Ucciderlo subito, per lui, era semplicemnete qualcosa di stupido.
«Prima ho dovuto pensare bene a tutto il resto. Dove posizionare il corpo, come, quando.
Non potevo fare niente di approssimativo.»
«Quindi lo hai tenuto in vita per tre giorni?»
«Due, sì La maggior parte del tempo non era cosciente. Non sono nemmeno certo che abbia ben capito cosa stava succedendo.»
Si stirò, buttando il collo all'indietro.
Sembrava rilassato.
«Rivera ha scelto di sua spontanea volontà di seguirti nel tuo appartamento?»
Zelda lo guardò per qualche secondo negli occhi, come se fosse in atto una sfida di coraggio con se stessa.
«Sì. Era totalmente ubriaco, quindi è stato facile da manipolare.»
Liza annuì, gelida, «cosa hai usato per decapitarlo?» Domandò, prima di prendere un profondo e tesissimo respiro.
«Un'ascia.» fu la riposta. Lapidaria e semplice.
«Avevi già programmato gli omicidi, vero?» chiese dal nulla Mulder, tirando su col naso.
No, non poteva aver architettato tutto in quattro giorni.
«Sì» rispose lui, quasi meravigliato che fossero riusciti ad arrivarci.
«Sì. Dovevo solo scegliere le vittime. Ma mai mi sarei aspettato di trovarne una così... inestimabile.»
«Quando hai inizato a pensare ai dettagli?»
Zelda guardò il registratore, pregando di non dover ascoltare mai più quella conversazione.
Andrew scrollò le spalle, «l'idea è nata per caso. Vi ho conosciuto grazie al caso Omega. Ho pensato che sarebbe stato davvero interessante avvicinarmi a voi. Ed è stato altrettanto interessante imparare le vostre abitudini.» Parlava come se davanti a lui ci fossero dei giornalisti, piuttosto che degli investigatori.
Schioccò la lingua, e quel suono sordo risuonò più cupo del previsto.
«Beril Wright. Cosa hai fatto con lei?»
Xavier si chiuse la porta alle spalle con delicatezza rimanendo vicino all'uscio, come un gatto che cammina raso alla strada per la paura delle auto che passano.
«Ah, Beril» Andrew sorrise, «sì, è stata semplicissima da raggirare.
L'ho incontrata di pomeriggio, addirittura.
A lei non è servito nemmeno l'alcol per essere ingenua.» mormorò, scoccando un'occhiata a Xavier e osservandolo dritto dentro alle sue iridi verdi, come a cercare ciò che vi si nascondeva dietro per squartarlo brandello dopo brandello.
«Le contusioni e i lividi sono stati impegnativi. Però in compenso ho scoperto che i sacchi di cemento sono perfetti per rompere ossa.»
Xavier deglutì, spostandosi dall'altra parte del tavolo.
«E il poliziotto?» chiese, glaciale, mentre teneva lo sguardo oltre Andrew.
«Un errore. Anche s non mi piace definirlo tale. Una inevitabile mossa, più che altro.
Lo avevate mandato a pedinarmi, da solo.
Non c'era altra soluzione.»
Inspirò, serio, «mi dispiace» disse, mostrandosi rammaricato per qualche secondo, «perché non è assolutamente nel mio stile un lavoro così poco curato. Erano solo tre pallottole nel petto, qualcosa di anonimo.»
Mulder scoppiò in una risata furiosa.
«Piccolo figlio di troia» sibilò.
«Sei fottuto.» ringhiò, «fottuto nel nostro stile, contento?»
Lui si sciolse in una risata sorniona, incassando la provocazione come se non lo turbasse veramente.
«Perché tutta la questione della Perfezione?»
chiese all'improvviso Liza, zittendo Mulder con un'occhiata mentre lui continuava a mormorare e inveire.
Xavier e Zelda si scambiarono un'occhiata per la prima volta.
I loro sguardi si incontrarono per una effimera e sfuggente frazione di secondo.
Andrew mantenne l'espressione divertita.
Un sorriso plastico e brutale gli incorniciava il volto, e lui lo indossava con una terribile disinvoltura.
Poi prese a recitare, come se il suo spettacolo del Dionysus non fosse mai veramente finito.
«Perché ci sono tanti modi per essere perfetti, ma il più puro può essere raggiunto solo attraverso un sacrificio. L'omicidio.
Perché non si può condannare un uomo per il suo desiderio di essere perfetto» alzò il volto soffiando una risata sommessa, stanca, e al contempo colma di tutto l'orgoglio possibile.
«E perché la costante ricerca della perfezione non è un cazzo di difetto, ma il migliore dei pregi che si può sperare di avere.»
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