Capitolo 31-Non esiste più nulla, vicino a te
Andrew Wilson stava seduto, sciogliendosi sempre di più lungo lo schienale della sedia di metallo, guardandosi intorno mentre muoveva le labbra in impercettibili e sconclusionati movimenti.
Trovarlo era stato complicato, tra gente che giurava di averlo visto partire per Toledo, chi per Cleveland e chi affermava di non vederlo da anni.
Poi avevano parlato con quel venditore di ologrammi.
Lui lo aveva visto, e anche da poco, ed era addirittura riuscito a confessargli che abitava in uno dei palazzi vicini al suo negozio.
«c'est incroyable, è davvero lui?» Liza guardò oltre il vetro, incredula.
«E non è finita qui» Mulder incrociò le braccia, e sembrava quasi soddisfatto, «ha comprato un ologramma, una settimana fa.»
«Che modello?» Zelda si avvicinò alla porta, guardando il detective con sospetto.
«Uno zeroventicinque. Di quelli applicabili al soffitto.»
Zelda annuì, e dietro al suo sguardo le ipotesi iniziarono a danzare come ballerini alla loro ultima sera di danze.
«L'ologramma del Dionysus. Era attaccato al soffitto dietro le quinte e tu hai detto che Andrew ne ha comprato uno una settimana fa, quindi i giorni coincidono. Potrebbe essersi trovato da solo, a teatro, d'altronde era l'attore protagonista. E lì-»
«Lì ha potuto lasciare indisturbato l'ologramma.» Xavier fece per entrare, poi si ritrasse all'ultimo, come se il pomello della porta fosse incandescente.
«Allora facciamogli il culo, a questo pseudo Enigma.» Con una delle sue classiche battute da vecchio poliziotto, Mulder si fece spazio tra gli altri, varcando la soglia della stanza interrogatori.
«Detective... Mulder, giusto?» Wilson sorrise, mentre incrociava le mani davanti a lui, appoggiandole al tavolo in un fruscio.
«Esatto, vedo che ti ricordi di me.» Oscar si sedette, avvicinando la sua sedia a quella del sospettato.
«La notte del quindici gennaio Enigma ha colpito di nuovo.»
«Mmmh. Mi dispiace.»
«Certo. Cosa stavi facendo, dalle sei alle otto del giorno prima?» chiese il detective, ricordandosi dell'autopsia della vittima e della sua ora di morte.
Andrew fece roteare gli occhi di cemento in un piccolo gesto d'irritazione.
«Ero all'High Voltage.»
«Hai testimoni che lo possano confermare?»
«Sì.»
«E invece la notte del quindici? Dov'eri, dalle undici in poi?»
«Dalle undici in poi?»
Mulder non rispose, ma continuò a guardarlo negli occhi.
Lo osservava con lo stesso disgusto con cui si osserva la più brutta e pericolosa specie di ragno.
«Ero all'High Voltage.»
«Di nuovo?»
«Sono qui per essere interrogato o perché mi vengano rinfacciate le mie scelte di vita?» Andrew rise per qualche secondo, fino a che quella risata amara e fuori luogo si scaricò come una fiammella sotto la pioggia.
«Una settimana fa hai comprato un ologramma da un rivenditore di Millennium Village.
È vero?»
«Sì.»
«Perché?»
Lui sbuffò, «perché, cosa? È un ologramma.»
«Rispondi alla domanda.»
«Perché mi serviva qualcosa per arredare casa.»
Mulder alzò lo sguardo dal taccuino su cui stava scrivendo.
Così non caverò un ragno dal buco, gli venne da pensare.
«Sulla scena del crimine è stato ritrovato un ologramma della stessa serie che hai comprato tu. Lo stesso che Enigma ha usato per avvisarci del suo omicidio.»
«Quindi?»
«Quindi sei il nostro primo sospettato.»
«Va bene.»
«Tutta questa sfacciataggine aumenterà solo gli anni, Wilson.»
«Gli anni? Sta scherzando, vero? Cosa potete farmi, ora? Avete qualcosa contro di me?» dopo quella grandine di domande pungenti si avvicinò al detective, sporgendosi con la stessa sottile pericolosità di un serpente che striscia sempre di più nella direzione della sua preda, «avete qualcosa di vero contro di me?» sibilò, divertito.
Mulder rimase impassibile, «no» ammise.
«Ma lo avremo presto.»
Concluse, prima di alzarsi.
Andrew rise.
«Detroit è fatta di ologrammi e sospettati, Detective. Buona fortuna a trovare quelli giusti.»
«Dobbiamo trattenerlo in centrale.»
Oscar si chiuse la porta alle spalle, lasciandola schiantarsi contro il muro.
«Non abbiamo niente» gli ricordo Xavier, disilluso.
«Non me ne frega un cazzo, dobbiamo trovare qualcosa» Mulder ripeté il concetto con più vigore, «non possiamo trattenerlo?»
«No» il detective scosse la testa, paziente.
«Xavier ha ragione. Mulder, non pensiamo d'impulso, per cortesia.»
Liza fece due o tre passi sconclusionati, mentre, guardandosi la punta delle scarpe, pensava senza tregua.
Xavier non rispose, ma continuò a guardarla di sottecchi.
Dietro al suo sguardo si nascondeva malamente un dubbio vivido e persistente.
«Allora arrestarlo, arrestiamolo, vediamo se avrà qualcosa da dire.»
«Oscar» Zelda lo fermò. Guardava davanti a sé, ma il suo tono colpì comunque come una stilettata al cuore, «non possiamo farlo. Non abbiamo abbastanza contro di lui. L'unica cosa possibile è interrogare i testimoni dell'High Voltage» poi sorrise, con amarezza, «e oggi è chiuso.»
Così guardavano la causa dei loro problemi, il possibile re della mattanza che colorava le strade notturne di Detroit, senza poter fare nulla se non osservare.
Se c'era una cosa peggiore del dubbio era la consapevolezza immutabile, quella che si poteva guardare, ma non toccare, come un bel quadro famoso ad un'ennesima mostra d'arte.
La porta scattò, in un suono sordo e quasi fastidioso una volta paragonato al religioso e immobile silenzio che regnava nell'appartamento.
A seguire i passi incerti, i tacchi delle scarpe che battevano contro le assi del pavimento e tutti quegli altri e infiniti rumori che rappresentano l'arrivo a casa di una persona conosciuta.
«Come hai fatto ad entrare?» chiese Xavier, senza che la minima ombra d'irritazione sfiorasse le sue parole incolori.
«Ho le chiavi di riserva. Me ne hai fatta una copia tu.»
Zelda rimaneva sull'uscio, come se avesse dovuto aspettare il comando di qualcuno per poter infrangere l'incantesimo che la rendeva statua.
All'improvviso decise che quell'ordine non sarebbe mai arrivato, così mosse i primi passi per la cucina, trascinandosi appresso il vento gelido dell'esterno che ancora le danzava attorno.
«Perché sei entrata, allora»
Ecco di nuovo quel tono impersonale.
Ed ecco il sorriso mite e limpido sulle labbra di Zelda.
«Volevo dirti una cosa.» Ma non finì la frase.
Si guardò intorno, fino a osservare con rammarico i vasi vicino alla finestra.
«Le foglie si stanno ingiallendo. Da quanto non le annaffi?»domandò, mentre si avvicinava alla giungla d'appartamento che aveva sempre visto verde e fiorente.
Notarla sciuparsi lentamente fece vacillare il suo sguardo tranquillo per qualche secondo.
Xavier non rispose. «Cosa volevi dirmi?»
Lei prese la teiera e la riempì d'acqua per metà. Poi si diresse nuovamente verso le piante, non prima di aver sfiorato il terrario ed essersi resa conto che un sempre più spesso strato di polvere ne stava ricoprendo i vetri.
«Zelda» quel tono freddo e tiepido iniziava a fratturarsi, «cosa volevi dirmi?»
La guardò come si può osservare se stessi allo specchio dopo che si è fatto un tremendo errore.
«Prima un cocktail.»
Appoggiò la teiera sul tavolino vicino, guardando la sua opera con soddisfazione, mentre una tensione si nascondeva ben celata dietro ai suoi lineamenti distesi.
Stappò la bottiglia con un gesto preciso e pulito.
Era un immacolato Champagne destinato a quel Capodanno che invece era stato il battesimo del loro personale antinferno. Guardarlo scorrere così candido e innocuo, così in contrapposizione con i ricordi che sembravano fluirci insieme, la fece quasi pentire di averlo aperto.
Si guardò intorno, muovendosi tra gli scaffali in cerca di qualcosa di ignoto ma essenziale.
«Ci sono due Irish Stout in frigo.»
Come se avesse già intuito le sue intenzioni, Xavier indicò il frigorifero dietro a Zelda.
Lei si voltò, ringraziando con un'alzata di mano.
Si udì il tintinnio delle bottiglie di vetro, poi Zelda le appoggiò sul tavolo, stappandole una per volta, come se la lentezza in quel momento fosse necessaria per farla ragionare bene su che cosa dire in seguito.
Lo Champagne si unì alla birra in dei lucidi e comuni bicchieri colmi di ghiaccio.
Era troppo chiedere delle coppe o dei flûte in quell'appartamento.
Come lo era chiedere una varietà più assortita di alcolici.
Quei Black Velvet erano tutto ciò di fattibile, quasi un prodigio che fossero riusciti così bene. Lei li osservò un'ultima volta, vicini, prima di aggiungere ad entrambi due ultimi cubetti di ghiaccio con la stessa precisione con cui un miniaturista dipinge le ciglia di una delle sue microscopiche figure.
Zelda insistette per un brindisi, ottenendone un'ombra pallida.
«Dopo andrò da Liza» disse, nella maniera più normale possibile, «per l'ipnosi.» Aggiunse.
Ecco la confessione, ecco il peso stupido ma incommensurabile che doveva togliersi prima di quella sera.
La verità era che non aveva la minima idea di cosa sarebbe potuto succedere dopo l'ipnosi. Avrebbe potuto ricordare cose che forse l'avrebbero fatta addirittura impazzire, le suggeriva se stessa, e che quindi avrebbero reso impossibile il suo tentativo di rincollare i pezzi della loro relazione.
Non era certa che fosse ancora possibile sistemare quei cocci più simili a polvere, ma prima di quella sera voleva avere l'illusoria convinzione che fosse così. Almeno in parte.
«Buon per te.» Xavier guardò il bicchiere, ma non lo sfiorò nemmeno.
La sua mente cantava e strillava e sussurrava solo Liza.
Elizabeth, che lo conosceva così bene.
Forse troppo.
«Non so cosa succederà, ma probabilmente saprò qual è la causa scatenante della mia ansia.»
Zelda appoggiò i gomiti sulla superficie del tavolo, e sulle spalline del suo abito comparvero delle piccole pieghe.
Era uno dei suoi vestiti preferiti e chiunque poteva notarlo semplicemente da come lo indossava.
Il suo colletto alto e severo sembrava condividesse la sua stessa personalità.
La sua stoffa nera e i tulipani variopinti che vi ci danzavano sopra festosi dovevano essere stati ideati per la sua pelle fatta di neve.
«Buon per te.» rispose lui, prima di sorridere. Cosa vuoi? Dicevano i suoi occhi in una domanda silenziosa.
«Ma non importa» Zelda scacciò via le parole come se non andassero bene, come se, se avesse potuto avere l'opportunità di ricominciare il discorso da capo, lo avrebbe fatto.
«Come stai?» chiese invece, in un tentativo semplice e quasi ingenuo.
Xavier sbatté le palpebre, incredulo, «stai scherzando?» domandò, «Zelda, stai scherzando?» ripeté, con più sdegno.
«No» lei scosse la testa, pronta a parlare in quei pochi secondi che aveva a disposizione.
«Voglio sapere come stai. Mi dispiace per quello che è successo. E per quando abbiamo litigato, per quella sera... te lo ricordi? Voglio solo sapere come stai e se posso fare qualcosa. Poi me ne vado, davvero.»
Erano frasi scollegate, dettate dalla furia di mettere le cose in chiaro e soprattutto a posto. Di rimediare a qualcosa che sembrava destinato a incombere su di loro per sempre.
Poi, il silenzio.
Uno strano silenzio, caduto appena l'ultima della sue parole si era infranta al suolo facendo lo stesso doloroso rumore del cristallo che si spezza.
«Tre anni fa ti ho addirittura creduto» sibilò Xavier, «quando mi hai detto che ti dispiaceva.»
«Ma era diverso, adesso.» Si fermò.
Adesso cos'era?
«No, non è vero e non ci credi nemmeno tu. Pensi di poter fare quello che vuoi, saziando il tuo ego usando tutta quella cattiveria e quel sarcasmo del cazzo sugli altri, per poi credere che ogni cosa potrà risolversi con due attenzioni dell'ultimo minuto? Zelda? Davvero sei convinta di questo?»
Poneva domanda su domanda, sempre con più astio e amarezza, sporgendosi verso l'altra parte del tavolo, dove lei sedeva.
Zelda rimase composta, bevendo qualche sorso di drink ogni tanto, quando il tono di Xavier diventava più irato.
«Non posso cambiare ciò che ho fatto e non voglio trovare scuse» disse infine, «vorrei solo che mi ascoltassi mentre ti dico che mi rendo conto di aver sbagliato.» Continuò, intervallando dei toni più seri a certi più dispiaciuti.
Mai realtà, mai finzione, oppure sempre entrambe.
Con persone come lei non si capiva mai ciò che era vero e ciò che era invece falso.
Verità e menzogna erano le facce distorte della stessa moneta e la sua controversa arte era quella di utilizzarle entrambe a suo piacimento. Eppure mentre parlava sembrava di una sincerità che andava oltre.
«Ma io ti ascolto, tranquilla» Xavier rise, sardonico, «ascolto benissimo e mi viene da vomitare» soffiò, annuendo.
Zelda lasciò cadere la testa fino a sfiorare il petto con il mento, in un gesto di rassegnazione.
«Perché non puoi semplicemente accettare le mie scuse?» Così non andava.
Non andava per niente.
Ti voglio così bene, pensò all'improvviso, con la stessa rapidità di un tuono che si schianta su un tetto, perché non mi perdoni e basta?
Nella sua mente tutto, o almeno qualcosa, in teoria avrebbe dovuto risolversi.
E invece stava solo peggiorando.
Come poteva affrontare quello che sarebbe venuto dopo?
Xavier scoppiò a ridere.
In quel momento Zelda capì perché ogni volta che era lei, a ridere così, lui ne soffrisse così tanto. Faceva male. Un male cane.
«Perché mi voglio bene, cazzo. Perché Enigma mi ha appena dedicato uno dei suoi omicidi e tu vieni qui a parlarmi della tua ansia, perché non ci tengo a illudermi una seconda volta di poter avere una vita normale con mia sorella e perché so che da te non posso ricevere altro che umiliazioni e dispiaceri.»
Allontanò da sé il bicchiere, improvvisamente riluttante all'idea di poter avere a che fare con qualcosa ricollegabile a Zelda.
Poi si diede dello stupido.
Seguendo quella melodrammatica teoria, non avrebbe più potuto guardarsi allo specchio.
Lei prese a tormentare il filo di perle che le girava intorno al collo.
Quel classico della sua vita, che faceva ormai parte di lei, in quel momento le parve più un cappio che un'innocua collana.
«Perché fai così?» chiese, rifiutandosi di internalizzare ciò che lui aveva appena detto, «non è vero,» disse, «non sono così.»
«Sì, invece. E forse nemmeno te ne accorgi. Tu fai soffrire, Zelda. È la tua specialità, e ti riesce anche molto bene.»
«Smettila, Xavier. Non sono così. Io non mi diverto. Non voglio far soffrire.» Zelda scosse la testa, facendo vagare lo sguardo lungo la stanza, febbrile.
«Sì, invece» disse lui di nuovo, evidenziando quell'invece' con un tono duro e soddisfatto, «lo fai di continuo. Manipoli, fai soffrire, chiedi scusa. Poi tutto ricomincia. E io sembro essere la tua preda preferita, forse perché sono sempre gentile con te.»
«Basta. Basta, smettila di essere così.»
La sua era una supplica camuffata da rimprovero.
Si alzò, senza rendersene conto, inveendo contro Xavier, che ancora sedeva, glaciale.
«Così come te?»
Zelda dischiuse le labbra per rispondere, ma si rese conto di non riuscire a contrastare quella verità.
Come uno scacchista che abbassa la pedina del re consegnando la vittoria all'avversario, lei fece lo stesso: vinta da chi pensava avrebbe sempre superato, ferita da colui che credeva incapace di farlo, ammise la sua sconfitta con l'amara certezza che fosse meritata.
«Prima di iniziare, qualche domanda.»
Liza sistemava con minuzia gli angoli più disordinati della sua libreria, stirandosi per raggiungere i libri più alti.
Non guardava Zelda mentre le parlava, ma era esattamente come se lo stesse facendo.
Lei non disse nulla, rimase seduta, immobile in quella posizione composta e rigida, mentre lasciava che la tazza di té le scaldasse le mani gelide.
«Come va con il Valium? Lo prendi regolarmente?»
Una spolverata da una parte e poi dall'altra, piccoli impercettibili movimenti che assicuravano l'ordine.
«Sì.»
«Mi sembra che la terapia stia avendo un esito generalmente positivo» Liza evitò accuratamente anche solo di nominare ciò che era successo al Dionysus, «hai reagito bene al farmaco.»
«Sì.»
«Non mi sembra tu abbia nemmeno quella stanchezza classica degli psicofarmaci» sorrise, osservando un'ultima volta la libreria, «sei fortunata.»
Zelda non disse nulla, ma sbuffò, mentre gli angoli della bocca rientravano e delle fossette andavano a crearsi sulle sue guance, completando quel sorriso colmo di disprezzo. Sei fortunata era per lei un ossimoro tanto assurdo che quasi risultava un'offesa.
«Sì, forse» rispose.
Liza rimase a sorridere ancora per qualche secondo, poi, come scossa da una nuova e inaspettata idea, si voltò.
«Il sonno?»
«Come?»
«Il sonno. Dormi?»
Zelda distese la mano, cogliendo le parole dell'altra, «ah, sì. Abbastanza.»
«Ore?»
«Quattro o cinque, dipende. A volte anche sei. Ieri» si fermò. Non sembrava che fosse restia a parlare, quanto più a ricordare qualcosa che le sembrava lontanissimo, «due, forse. Poche, comunque.»
«È comprensibile.» Non andò oltre.
Si girò, tenendo tra le braccia un metronomo di legno rossiccio come se fosse un vaso di pregiata porcellana.
Lo appoggiò sul tavolino del salotto, davanti a Zelda.
«Xavier come sta?»
«Bene.»
E lo spettacolo d'ipnosi e memorie iniziò, senza che nessuno avesse il tempo per opporsi al proprio viaggio tra ricordi dimenticati per un motivo.
«L'unica cosa che dovrai fare è seguire la mia voce e mantenere la calma. Credi di riuscirci?»
Zelda guardava il metronomo, e più lo osservava, più pensava che presto si sarebbe pentita di ciò che avrebbe visto.
«Credi di riuscirci?» ripeté Liza, accertandosi che l'altra capisse tutto prima di iniziare.
Lei annuì senza aprire bocca, incantata e tormentata dalla punta di metallo che, davanti a lei, sembrava quasi sfidarla.
«Conterò fino a dieci. Dovrai seguire parola per parola quello che ti dico, e quando sarai in fase di trance inizierò con la regressione.»
«Cosa succede se vedo qualcosa che non mi piace?» domandò Zelda, alzando la testa e incontrando gli occhi di Liza.
Vedrai qualcosa che non ti piace, pensò lei, ma «Farò in modo che tu ti svegli.»
«Un'ultima cosa» aggiunse poi, «mi serve un dettaglio che possa farti ricordare esattamente ciò che stiamo cercando» poi, di fronte all'espressione confusa di Zelda, continuò, «c'è qualcosa che ti mette ansia senza una ragione precisa? Qualcosa che ricordi molto spesso?»
«La liquirizia» la guardò, implorandola con lo sguardo di non ridere di lei, «le caramelle alla liquirizia.»
La lancetta del metronomo ondeggiava.
Veloce, sincopata e impossibile da fermare, come un moto perpetuo destinato a non smettere mai di muoversi nemmeno quando il mondo sarebbe finito e non ci sarebbe stato più nessuno capace di dargli tregua.
«La prima cosa che farò sarà contare al rovescio» Liza camminava con un passo cadenzato che doveva essere stato creato apposta per essere unito al ticchettare.
Così come la sua voce ferma e sterile, che risuonava nell'appartamento con una calma che sembrava trascendere lo spazio per diventarne parte.
«Cinque,» disse, mentre continuava a chiudere quei cerchi perfetti che creava con i suoi passi, «inspira.»
Il suono del respiro di Zelda durò qualche secondo, prima di scomparire insieme a tutti gli altri piccoli e comuni rumori che sembravano svanire in quella stanza.
«Quattro,» Liza incrociò le braccia, corrugò leggermente la fronte, concentrata, ma la sua voce continuò a uscire tranquilla e ipnotica come il suono di una pioggia lontana, «espira. Ora senti le braccia più leggere.»
Con sorpresa Zelda si accorse che sì, sentiva che le braccia non fossero più realmente lì. Dissolte come sale nell'acqua.
«Tre, la mia voce è più distante» il tono salì leggermente, e il metronomo sembrò seguirlo come un serpente che ubbidisce agli ordini della sua incantatrice, rendendo il suo ticchettio ancora più assordante.
Almeno era questo che credeva di sentire Zelda.
Tutto stava iniziando a diventare troppo lontano, troppo risonante per essere colto nei dettagli.
«Due» Liza lanciò un'occhiata al metronomo.
I tacchi battevano sul parquet con più decisione, le mani si attorcigliavano tra loro e i respiri si facevano più rapidi e brevi, «non esiste più nulla, vicino a te, oltre al metronomo.»
Zelda sembrò trattenere l'aria per qualche secondo, prima di guardarsi intorno come può osservare un cieco.
«Uno» rivolse lo sguardo davanti a sé.
Deglutì, prima di chiudere gli occhi per un momento.
Deve funzionare.
Poi, lo schioccare limpido delle sue dita fu l'ultimo suono a vibrare lungo le pareti della sala, lasciando dietro di sé un vuoto sospeso e colmo di tensione.
«Liza» Zelda scosse la testa.
Era terrorizzata da qualcosa di invisibile, mentre fissava il metronomo con angoscia.
«Il metronomo non si muove più.»
Liza guardò la sua lancetta oscillare normalmente e sorrise, sollevata.
«Mantieni la calma,» disse, e Zelda realizzò di colpo, «ora che sei ipnotizzata, possiamo iniziare con la regressione.»
Più che un sogno, sembrava come ci se ne immagina uno.
Come se si avesse la possibilità di osservarlo dall'esterno.
Zelda era sveglia, lo sapeva con certezza, ma stava vivendo qualcosa, intanto.
Qualcosa di indefinito, i cui contorni sembravano sfuggire come in un quadro impressionista.
Un limbo fatto di sensazioni vivide, di emozioni contrastanti e di un retrogusto d'angoscia non completamente identificata. Qualcosa di delicato e spaventoso, situato in un luogo troppo incerto per essere descritto, ma abbastanza familiare da essere ricordato.
E la stanza era bianca.
Una stanza che Zelda non ricordava di aver mai visto in vita sua, ma che era certa di aver conosciuto in un'altra forma.
Come se quelle quattro mura pallide e accecanti fossero state solo il costume per un posto che lei conosceva da... sempre.
«Adesso inizi a ricordare. Hai delle caramelle alla liquirizia davanti a te.»
Le suggerì la voce inconsistente di Liza, come se stesse parlando oltre le pareti di quella stanza.
Zelda non mosse lo sguardo per qualche secondo, prima di abbassarlo in uno sfarfallio di ciglia.
Tra le sue braccia distese sulla fredda superficie di quel tavolo bianco giaceva una ciotola di vetro, colma di luccicanti e scure rotelle alla liquirizia.
«Riesci a visualizzarle?»
«Sì.» Zelda sfiorò il recipiente, mentre gli occhi vagavano, osservando quella realtà diventare sempre più concreta e dettagliata.
Una mano si avvicinò alla sua.
Una mano curata e familiare.
Due occhi più simili a profonde pozze d'acqua la scrutavano con una durezza nascosta dietro a uno splendido e luminoso sorriso.
«Zelda, ora cosa vedi?»
Lei non staccò gli occhi dalla donna che le sedeva davanti, cibandosi della sua immagine e osservandone ogni angolo, come se volesse ricordarne per sempre le fattezze.
«Mia madre.»
«Cosa ti sta dicendo?»
Ma lei non diceva nulla.
Almeno, parlava, ma la sua voce sembrava perdersi prima di arrivare ai suoi timpani.
«Zelda, cosa dice tua madre?»
E poi una voce. La voce.
Quella che aveva tanto odiato un tempo e rincorso con furia quando di lei non era che rimasto il ricordo.
Una voce fatta della stessa essenza di cui può essere fatta una mattina di marzo al mare. Dolce e aspra al tempo stesso, come una fragola non del tutto matura.
«Ricordi cosa ti avevo detto?»
«Sì.» Zelda rispose come può rispondere un computer al comando di un programmatore.
«Ti avevo dato due opzioni, se non ricordo male.»
Lei continuò a guardare davanti a sé, ma questa volta il suo sguardo puntava dietro alla figura di Aìbell Lynch.
La voce di Liza sembrava svanita.
E più il tempo scorreva, o forse sembrava scorrere, più lo sguardo diventava vuoto e consapevole.
«Potevi deludermi oppure no. Io credo davvero tanto in te, Zelda. Non perché tu sia speciale, questo...» le fece segno di parlare, come se dovesse continuare un mantra che aveva imparato nel tempo, fino a considerarlo l'unica verità.
«Questo non devo mai pensarlo.»
Parlò, sentendosi piccola e malleabile come colla, istruita come ricordava vagamente di essere stata.
«Però non riesco a capire come tuo fratello abbia preso un voto più alto di te nell'ultimo test di matematica.»
Aìbell incrociò le mani davanti a sé, inspirando e aspettando una risposta come se fosse stata veramente necessaria.
«Non lo so.»
«Eppure dovresti saperlo. Lui non é mai stato al tuo livello e mai dovrà esserlo, mo leanbh.
Altrimenti perché io spenderei tutto il mio tempo per crescere questo bel germoglio, invece che uno già malato in partenza?»
sorrise, sbatté le ciglia con dolcezza e poi continuò.
«Hai preferito fallire invece che eccellere. E sai cosa significa. A quelli mediocri come Xavier non resta niente del mondo. Possono sforzarsi quanto vogliono di essere impeccabili, ma non ci riusciranno.
Per te potrebbe essere diverso. Potrebbe, ma rimarrà un condizionale finché continuerai a non saper fare la scelta giusta.
Ripetilo, per favore.»
«Non so fare la scelta giusta.»
Zelda trattenne il respiro.
Ricordava, o almeno iniziava a ricordare.
«Mi dispiace» pianse poi, spinta da un terrore infantile che aveva smesso di provare da tempo.
Ma aveva già intuito che quella non fosse lei. Almeno, non quella lei di ventisette anni.
Se avesse potuto guardarsi allo specchio, in quel momento avrebbe visto la se stessa di otto anni, quella bambina troppo magra e troppo furba che in classe prendevano in giro per il colore dei suoi capelli.
La donna scosse il capo, delusa, e Zelda si sentì rabbrividire.
Come spinta da un istinto ancestrale si ritrasse, inspirando, terrorizzata da quello che poteva significare il gesto della madre.
Non lo ricordava, era impossibile che ci riuscisse, ma il tempo non aveva sbiadito la paura che lo accompagnava.
«Piangere é la via diretta per la rovina» disse, esclamando le parole come se fossero state direttamente prese da un libro motivazionale.
«Ma entrambe sappiamo cosa bisogna fare per evitare che ciò accada» alzò il suo sguardo verso di lei, come se fosse desiderosa di incontrarlo per ripetere quelle parole di melma direttamente nella sua anima.
«Devi imparare a capire che a delle determinate azioni equivalgono dirette conseguenze, mo leanbh.»
Zelda annuì.
Le lacrime che le macchiavano le guance erano la testimonianza di quanto ricordare avesse fatto male.
Pianse per se stessa e per la consapevolezza che le era stata negata quella tranquillità d'animo che sarebbe dovuta essere un diritto.
Pianse per Xavier e per come non si fosse mai resa conto del dolore e dell'umiliazione a cui era stato messo davanti quotidianamente.
E pianse per quella bambina che pensava fosse una sciagura provare qualcosa.
«Quindi, ricordi cosa avevo detto?
All'eccellenza equivaleva un premio» diede un'occhiata alla ciotola, «e al fallimento una lezione.»
Poi indicò le caramelle, sorridente.
«Forza, mangiale. Sono tue. Ma devono esserle tutte.»
Zelda chiuse gli occhi, scosse la testa e si ribellò in altri piccoli e insignificanti gesti, sapendo in partenza che non avrebbe potuto opporsi a qualcosa di già accaduto.
«Che cosa vuol dire?» chiese come da copione, anche se sapeva già la risposta.
«Che dovrai mangiarle tutte. Adesso» le accarezzò quei capelli così simili ai suoi, «davanti a me, per favore.»
Zelda prese tra due dita la prima caramella, la guardò per qualche secondo, stregata, prima di morderla mentre gli angoli della bocca le tremavano.
«Come il successo può diventare presto fallimento, il premio può tramutarsi in punizione» disse al vuoto Aìbell, mentre le labbra si distendevano in un sorriso da cui sembrava trasparire tutto il suo orgoglio.
Zelda fece per prendere un'altra liquirizia, quando vide che la ciotola era già vuota.
«Brava» esclamò sua madre. Come se quello fosse stato il comando che Zelda attendeva, iniziò a sentire una nausea vera e reale comprimerle il petto.
Distese i palmi delle mani sul tavolo, respirando a fatica.
«Liza» sibilò.
Liza Liza Liza Liza Li-
«Adesso puoi andare a vomitarle» le permise Aìbell, mentre il suo tono sembrava tanto dolce da sciogliersi come miele.
Talmente dolce da diventare stucchevole e raccapricciante.
Appoggiò le mani sulle spalle tese di Zelda, si avvicinò al suo orecchio e come il peggiore dei diavoli tentatori mormorò: «Per un po' non stare con tuo fratello, per favore. Evitalo fino a che non capirete entrambi qual è il vostro posto.»
«E ora... ti svegli»
Liza fece schioccare le dita, mentre l'altra mano le tremava appena.
Zelda sbatté le palpebre due, tre volte, prima di rendersi conto di non essere più di fronte a sua madre, ma di nuovo nel sofisticato e luccicante appartamento di Liza.
«Non... non ti ho più sentita, non ti ho più sentita dopo poco» ammise, ancorando le mani ai braccioli della poltrona, «tu non hai sentito nulla, vero? Io non ti parlavo?» chiese, e il sollievo che non avesse assistito si mischiò al terrore che avrebbe dovuto rivivere tutto di nuovo.
Liza serrò le labbra, «no» le uscì più secco del previsto, trasudando una fermezza utilizzata solo per nascondere uno dei tipi più profondi di dispiacere, «continuavi a parlarmi. Non te ne sei accorta» annuì, mentre stringeva a sé il velluto del suo abito.
Guardò Zelda e la prima cosa che vide fu la sua infelicità.
La sua immensa, malinconica infelicità.
Di quel tipo troppo forte da essere affrontato da vicino.
Poi andò oltre, tuffandosi in quelle foreste verdi e cupe che erano i suoi occhi.
E vide un sollievo nascosto, forse non ancora realizzato, che presto avrebbe sostituito tutto il resto.
Zelda dischiuse le labbra in qualcosa di troppo doloroso e confuso per essere un sorriso, «alla fine mia madre c'entrava.»
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