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Capitolo 26-Tutti erano irrimediabilmente guasti

«Ha scelto proprio uno spettacolo del Dionysus.» Liza guardava la stanza in penobra, dall'uscio.
In piedi, davanti all'entrata, non entrò nell'ufficio di Zelda.
Rimase sul posto, mentre il braccio ondeggiava sulla superficie della porta.

«Hai trovato il tuo collegamento» disse Mulder, scocciato, mentre gettava sulla scrivania un quotidiano e quello nell'impatto si sfaldava in fogli irregolari.

«En fait, è stata Zelda a trovarlo.»
Liza guardò di sfuggita l'altra, ma lei non fece altro che serrare le labbra e tenere lo sguardo fisso sulla finestra, mentre le ombre delle tapparelle le si riflettevano in viso sotto forma di strisce scure e opprimenti.

«Coglione» sussurrò Oscar, mentre lanciava un'occhiata carica d'odio alla prima pagina.

Enigma: ecco il vero nome del Killer di Capodanno. A confermarlo è il detective capo della Omicidi, Bennie Carter.

«Mio Dio» soffiò Xavier, seppur restando inflessibile, mentre riordinava i fogli del giornale.
Lo scosse una volta per raddrizzare le pagine, poi assottigliò lo sguardo e iniziò a leggere a voce alta.

«Enigma. È questo il nome con cui il nostro killer si firma. Non posso lasciar trapelare altre informazioni, segreto professionale. Ma posso dirgli che abbiamo i nostri sospetti e che le indagini procedono in maniera positiva.»
Il suo tono era serio e neutrale, ma c'era una rabbia nascosta dietro alle parole che Xavier si sforzava di pronunciare.

Inspirò profondamente, «Carter è già tornato da New York?» chiese, tranquillo.

«Sì, stamattina» gli rispose Zelda.

Lo aveva incrociato in caffetteria.
«Ciao, uccellino.» Le aveva detto.
E lei, che era partita con l'idea di bere un decaffeinato senza che nessuno la notasse, aveva preso solo un bicchier d'acqua.

«Alma!»

La ragazza era passata, rapida, lungo il corridoio.
Si fermò al richiamo di Xavier.

«Cosa c'è? Voglio dire, ciao, Lynch. Cosa succede?»
Esaurita. Forse lo era già, forse era in bilico. Teneva una mole indefinita di fogli sotto il braccio.

«Sai se Carter è in ufficio?»

«Credo di sì. Ma è sicuramente occupato.»

«Va bene. Grazie, Alma.»
La graziò con un breve e luminoso sorriso, pronto a svanire nel momento esatto in cui l'altra si fosse voltata.

«Non fatevi licenziare un'altra volta, perfavore» gridò lei, da in fondo al corridoio.

Xavier alzò gli occhi al cielo, controllò che Alma se ne fosse andata ed esclamò:
«Quando vogliamo dirglielo, a Carter, che abbiamo risolto l'indovinello da settimana enigmistica

Xavier aprì la porta di vetro opaco con uno scatto che non voleva essere né discreto né elegante.

Liza lo osservò per una frazione di secondo, prima che la porta si aprisse e mostrasse due uomini, seduti uno di fronte all'altro, discutere.

«Roscoe. Non ci penso nemmeno, a riassumerti qui. È troppo grave...»
Carter si fermò di colpo.

«Al momento sono occupato. Potrò parlare con voi quando mi sarò liberato. Chiedete ad Alma.»

«Abbiamo risolto la lettera» disse solo Liza, mentre avanzava verso il centro della stanza.

«Sì, mentre tu dicevi stronzate ai giornalisti» continuò Mulder, quasi urlando, mentre entrava nella stanza come se fosse venuto lì solo per pestare Bennie.

«Complimenti. Ma adesso-»

«Lascia stare, Bennie» l'uomo di fronte a lui si alzò e Xavier riconobbe in lui il detective dall'impermeabile beige che era presente sia a Capodanno che dal Fluo Flamingo, «Enigma è più importante della nostra discussione. Ma la mia opinione su di te non cambia. Sei un bastardo che non sa come farsi rispettare.»
Si alzò, prese il cappello di feltro che aveva lasciato sulla scrivania, «e dubito tu abbia davvero studiato qualcosa, all'accademia.»

Era solo uno sconosciuto, ma Roscoe era riuscito a esprimere a parole quello che Zelda aveva sempre pensato.

«Quindi, fatemi capire.» Carter era dietro allo scrittoio, seduto su una sedia girevole di cuoio. Ondeggiava da un lato all'altro, «volete farmi credere che avete davvero trovato un senso a quella lettera?» Se solo ci fosse stata una possibilità di convincerlo, la discussione e l'umiliazione che aveva appena subito faceva scartare fin da subito tutte le possibiltà positive.

«Non è questione di farti credere o no» Mulder si accomodò, senza che fosse mai stato invitato a farlo, su una delle poltrone, «è palese.»

«Certo. E io mi dovrei fidare di qualche insensato collegamento che avete fatto nella pausa tra un caffè e l'altro.» Ammiccò rivolto a Zelda.

«Non invertiamoci di ruoli, per favore» sibilò Xavier, mentre abbandonava la giacca su una delle poltrone.

«Oh, non ci provare» lo fermò Carter, indicando il completo con superiorità, «su quelle poltrone si appoggiano solo giacche costose.»

«Perfetto.» Xavier gli rivolse un sorriso vuoto e falso, poi riprese l'indumento solo per appoggiarlo sulla sedia speculare a quella di Bennie.

«Bon, Detective,» disse Liza in un fruscio simile al rumore di una flebile e melodiosa cascata, «può dubitare o meno delle nostre deduzioni, ma guardi lei stesso la lettera e i collegamenti che abbiamo ipotizzato. Sono certa che troverà anche lei una logica come ci siamo riusciti noi.»

Come ci siamo riusciti noi. Lo stava trattando come uno stupido, ma Carter sembrava non essersene reso conto.
Sollevò le sopracciglia in un'espressione scettica.

Xavier rimase sorpreso dal tono dolciastro di Liza, ma non abbastanza per non comprenderne il motivo.
Stava imparando a raccogliere i frammenti del suo carattere che lei si lasciava dietro, a formare una via fatta di frasi, gesti e abitudini.

«Lasciatemi i fascicoli qui. Ma non fatevi troppe aspettative, perchè so già che saranno tutte stronzate.» Carter aprì il palmo della mano in attesa dei documenti che gli passò Liza.
Li ispezionò lanciando rapide occhiate all carta.

«Chi di voi è arrivato alla conclusione dell'uva e del Dionysus?»

«Io» rispose Xavier, incrociando le braccia.

«E chi a quella di Rhapsody in Blue?»

«L'ho risolto io.» Zelda non fece in tempo a distrarsi che la sua mente le ricordò di tutti i suoi casi pregressi.
I loro, di lei e di Xavier.
Perché in nessuna di quelle indagini aveva mai lavorato da sola.
Nemmeno in quel momento.
Nemmeno con Enigma.
Perchè, involontariamente, gli enigmi nascosti in quella lettera se l'erano divisi, come facevano da sempre.

Carter ispirò una lunga boccata d'aria, annuì senza dire nulla, continuando a osservare i fogli che teneva svogliato tra le dita.
Non poteva farlo.
Non poteva dar loro quella soddisfazione.

«Non trovo alcun collegamento sicuro, sul momento. Ma ci rifletterò.»
Ma non poteva nemmeno negare l'evidenza. Era tutto così... irritante.

Liza si lasciò sfuggire un sorriso sollevato, «allora aspettiamo con ansia il suo responso.»

«Il mio responso è già evidente, mi sembra. Quindi non fatevi troppe illusioni.»

«Oh, non ce le faremo. Più che altro staremo a pregare che non succeda come a capodanno.» Zelda era rimasta sull'uscio per tutto il tempo. Si staccò dal muro al quale era stata appoggiata fino a quel momento, poi abbandonò la stanza come se non ci fosse nessuno tranne lei, accendendosi una sigaretta.

«Sei sicura di poter affrontare il caso?» Sentì dire Carter, alle sue spalle, con un tono disgustosamente sibillino.

«Certo. Cosa ti fa pensare il contrario?»

«Le pasticche di Valium, presumibilmente.» Bennie scoppiò in un sorriso divertito, sotto lo sguardo impassibile di Zelda, «Oh, non penserai mica che non me ne sia accorto, in caffetteria. »

«Dovresti provarle anche tu. Soprattutto quando fai degli interrogatori.»

«Le tenevi nascoste nella manica del cappotto.»

«E sono certa che sarai più calmo. Non picchierai senza una logica più nessun sospettato.» Continuò Zelda, ignorando le frasi pungenti di Carter.

«Credevi di poterle nascondere. Con Xavier ha funzionato? Con gli altri ha funzionato?»

Zelda inspirò.
Trattenne il fumo con irritazione.
«Non dovresti guardare i nostri resoconti? Quelli che ti salveranno il culo con Enigma?
O forse hai appuntamento con un altro giornalista?»

Carter arricciò le labbra in una smorfia che in teoria doveva avere la parvenza di un sorriso, «potrai aver anche risolto l'enigma, ma sappiamo entrambi che c'è una piccola cosa che può rovinarti la carriera, uccellino.» Appoggiò le mani sulle spalle di lei, ma Zelda si ritrasse subito, spostandosi sotto lo stipite della porta e liberando i polmoni dal fumo grigiastro.

«Si chiama psicofarmacologia, e potrei benissimo mandarti in malattia da domani» mormorò.
Sembrava che si stesse divertendo da matti.

«E perché non lo fai, allora?» Zelda si allontanò ancora di più, «forse perché ti servo. Perché ho risolto la lettera e perché hai già visto i danni di avermi licenziata per tre giorni.» Si mantenne ostile, ma una paura sottile stava iniziando a strisciarle addosso.

Carter sbottò in uno sbuffo strano, come se la situazione lo intenerisse, in qualche modo, «vedo che ti credi ancora al centro del mondo. Ti prendi tutti i crediti per la lettera.»

Lei non seppe replicare.
L'aveva portata a un punto di frustrazione talmente accecante che si era presa addirittura tutti i meriti.

«Devi solo conviverci. Non cambierai mai.»

Zelda lo guardò ancora per qualche istante, illuminata da una rabbia fredda.

«Ma non preoccuparti, per il Valium.»
Finì di formulare la frase, quando Carter sentì un dolore forte e pungente sul dorso della
mano.
La sigaretta di Zelda stava sfrigolando sulla sua pelle.
Lui si ritrasse, imprecando, ma non sembrò troppo colpito da quel gesto improvviso.
Zelda buttò il mozzicone ai piedi dell'altro, poi si voltò, avviandosi verso l'uscita della centrale.

«Sarà il nostro bel segreto!» sentì urlare dietro di lei e accentuò ancora di più il passo.

Uscì. 
La livida luce mattutina che metteva in risalto tutti gli enormi problemi della città, fino a quel momento camuffati dalle luci e dalla notte, sembrò illuminare anche i suoi, di problemi. Ricordandole che nessuno, nella metropoli, era esente dall'imperfezione.
Che tutti erano irrimediabilmente guasti.

Un sacchetto di mele scorreva lungo il nastro trasportatore con lentezza.
La cassiera lo prese e lo passò sopra allo scanner con un gesto annoiato.
Fece lo stesso con del pane per tramezzini e due lattine di una bevanda alle ciliegie cosparsa di scritte in giapponese.

Uno squillo fece voltare, per qualche frazione di secondo, tutte e quattro le persone in fila.

Zelda si guardò intorno, poi prese dalla tasca del cappotto il ClearCircle con un gesto rapidissimo.
Lo bloccò esattamente nel momento in cui aveva iniziato a parlare.
Guardò l'orario, poi spostò lo sguardo sul messaggio della sveglia.

Sveglia: secondo Valium.

Inspirò ed espirò guardando la cassiera tenere un cartone di latte aromatizzato alla fragola tra le mani smaltate di un giallo iridescente.
La donna si fermò un istante e provò a far passare il latte una seconda volta sopra lo scanner, senza riuscirci.

Guardò Zelda e le disse, a bassa voce, una frase in coreano.

«Mi scusi?»
Sbrigati, ti prego. Pensò, mentre lanciava l'ennesima occhiata allo schermo del ClearCicle.

Sono le tre e due. Sveglia per "Secondo Valium".

«Non scorre. Vuoi lasciarlo qui?»

«Cosa?» Zelda si corresse subito, «ah, sì, sì va bene.»

«Mi scusi, posso passare? Ho solo queste.»

Zelda si sentì sfiorare la spalla.

Un uomo, sulla quarantina, era dietro di lei in coda e le sorrideva, mentre al suo fianco stava salterellando un bambino.

Zelda si voltò, quasi in confusione, poi osservò il pacchetto che il bambino teneva stretto al petto.
Era una busta di plastica trasparente, colma di caramelle alla liquirizia.

Liquirizia, pensò.

Pensava, mentre sentiva l'ansia salire fino al viso, mentre la percepiva scorrerle lungo le gambe, facendola sentire improvvisamente leggera e priva di equilibrio.
Pensava e si sforzava di capire perché si sentisse così.
Ma più guardava quel sacchetto, più stava male e più non capiva perché.
Perché tutto quello per un sacchetto di caramelle.
Non poteva andare avanti così.

Se non so da dove è partito tutto, non posso guarire.
Si disse, ricordando ciò che le aveva detto Liza con quel suo tono cordiale e diretto.

«Quindi? Possiamo passare?»
L'uomo la guardò confuso, mentre il bambino scrutava il sacchetto e lo scuoteva immaginando già il sapore delle caramelle scure al suo interno.

Zelda stirò le labbra in un'espressione semi-dispiaciuta, «ho già iniziato a passare le cose. Mi dispiace.»

L'uomo allora si voltò, in cerca di un'altra cassa.
«Se ti fossi svegliata prima, magari!»

Lo aveva sentito sussurrare, ne era certa.
Aveva ragione.
Lei non sapeva mai fare la scelta giusta.

«Zelda! Cosa succede?» Liza aprì la porta d'ingresso, pensierosa, mentre l'altra stava davanti all'uscio, tenendo in una mano un sacchetto di plastica.
Liza sbirciò al suo interno.
Del pane per tramezzini e delle bibite alle ciliegie.
Zelda riusciva a sorprenderla perfino con una spesa.

«No... niente. Volevo solo sapere-» si fermò.
«Cazzo» sbottò, sibilando, «mi dispiace. Ti ho solo disturbata.»
Ci fu un silenzio strano, surreale, che sembrava essersi dilatato fino all'impossibile per reggere i pensieri di entrambe.

«Vuoi entrare?»

Zelda si guardò la punta delle scarpe, poi alzò il mento di scatto, guardando altrove. Annuiva.

«Hai detto che se non ricordavo, non potevamo fare nulla.» Zelda camminava a passo misurato lungo tutto la stanza, mentre aggrovigliava le mani tra di loro in un movimento che tentava in tutti i modi di essere nascosto.

«È vero. Dobbiamo trovare la causa scatenante-»

«Mi hai parlato di un'idea. Una cosa che avresti potuto provare-» Si voltò, di scatto, e il suo viso sembrò illuminarsi di una speranza flebile e persistente.

«Zelda, con calma. Come va con il Valium?»

«Bene.»

«Bene?»

«Bene, lo prendo!»

«E con lo Zaeplon?»

«Liza,» disse, «prendo tutto. Ma se potessimo provare quello che mi hai detto-»

Liza la interruppe, fermandola con un gesto della mano, «Zelda, siediti, per favore.»
«Vuoi qualcosa da bere?»

«No» si corresse, «no, grazie.»

Si sedettero entrambe, esattamente negli stessi posti che avevano occupato l'ultima volta che si erano viste.

Liza inspirò una, due volte.
«Quello che voglio fare. L'idea che ti dicevo. Non so se può funzionare.»
Non aveva mai pensato di usarla veramente. Solo le la situazione fosse stata davvero a un punto cieco.

«Mi hai detto che si poteva fare.»

«Je sais. Lo so. Ma potrebbe solo farti ricordare cose che non hai vissuto veramente.»

«È solo questo il rischio con la regressione?»

«Zelda...»

«Proviamo, ti prego. Ti prego, Liza. Se non mi ricordo... io non ricordo nulla, davvero.
Ci ho provato, ma. Non lo so.
Non so che cosa fare.» Zelda si alzò, senza preavviso, scoppiando in un'agitazione più simile al terrore.
I suoi occhi imploranti cercavano disperatamente quelli di Liza.

«È una cosa che ho provato poche volte.»
Poche
Volte.
Ma tra una di quelle volte, c'era stata anche Esther.
Adesso le sembrava di rivederla nello sguardo supplicante di Zelda, così diametralmente opposto a quello irridente che indossava di continuo, come un abito che le piaceva particolarmente.

«Non mi interessa» disse Zelda, con una decisione violata dal leggero tremolio della voce.

Liza la guardò pensierosa, incrociando le mani davanti a sè.
«Perché hai tutta questa fretta? È successo qualcosa? Stai avendo delle ripercussioni con il trattamento?»
Sarebbe potuta non essere semplice agitazione, lei lo sapeva.
Guardò Zelda, i suoi movimenti spazientiti, e pensò che potesse essere colpa dei farmaci.

«Mio Dio, no... non. Quello va bene, davvero.» Scacciò l'idea che potessero essere le pillole con un gesto incurante. Non potevano essere loro, la colpa.
Era impossibile, perché anche se era scritto sul foglietto delle controindicazioni che lei aveva letto con molta, moltissima attenzione, non era vero.
Non era vero perché erano cose di cui si veniva avvisati, ma era semplicemente impossibile che accadessero.
«Voglio solo... vorrei solo cercare di iniziare il prima possibile.»

«Zelda, finché la pensi così non potrà mai funzionare. Non devi avere fretta.»

«Ma io ho fretta, Liza! Cazzo, devo seguire un caso da prima pagina, tutti hanno delle aspettative su di me e sono ridotta a uno spettro, certo che ho fretta!» Si girò di scatto, gesticolandosi addosso, velenosa come un gatto a cui è appena stata schiacciata la coda.

«Devi avere pazienza. Non posso aiutarti altrimenti-»

«Io non posso avere pazienza!» gridò, in un tono tanto colmo di frustrazione da essere spaventoso.
I suoi occhi incontrarono quelli di Liza e fecero di tutto per rimanerne agganciati.
«Io... io sto facendo tutto bene. Prendo il Valium tre volte al giorno, lo Zaeplon tutte le sere. Ma non sto meglio. Sto meglio fisicamente, ma sono-» si fermò e a Liza sembrò che avesse pestato il piede a terra in un movimento irrisorio e spazientito.
Come una bambina a cui è stato negato un capriccio, in quel momento Zelda era infastidita da se stessa, dalla sua voce tremante e dall'impossibilità di continuare a spiegare un concetto fondamentale.
«È la stessa scena dell'altra volta. La stessa cazzo di scena.»

«Tu che sei sul punto di piangere e io che rimango in silenzio?» chiese Liza, sorridendo appena.

Zelda sorrise a sua volta, scoppiando in un riso brevissimo e triste, «esatto.»

Sapeva che il sarcasmo avrebbe funzionato.
Se c'era una cosa che aveva imparato di Zelda, era che per lei l'ironia era sempre ben accetta. Anche quando si trattava di una nerissima autoironia come in quel momento.

«Liza, ti prego. Fammi provare. Se non funziona mi addosserò tutta la colpa» stava sussurrando, parola per parola, come se il fatto che stesse pregando qualcuno fosse un inconfessabile segreto.

Liza sospirò, guardando davanti a sè.

Possiamo provare, Esther.

Non so se fidarmi.

Non è la stessa cosa, si disse Liza.
Non è la stessa situazione.
Guardò Zelda, mentre lei aveva abbassato lo sguardo, fissando il cinturino delle scarpe, ciondolando su se stessa.

«Mi servirà il metronomo. E dovrai mantenere la calma più assoluta.»

Zelda alzò gli occhi, puntando Liza.
Sorrise, un sorriso disperato e stanco, più simile a un sibilio, mentre riprendeva aria come se avesse trattenuto il fiato fino a quel momento.

Sì schiarì la gola, «grazie» riuscì a dire, mentre guardava oltre Liza, osservando la vetrata dietro di lei, improvvisamente spaventata dall'incrociare lo sguardo dell'altra.

«Zelda,» la richiamò lei, «mi devi promettere che se avrai qualche problema con la terapia me lo riferirai subito» la osservò, ma Zelda continuava a tenere lo sguardo fisso davanti a lei, scrutando con finto interesse il grattacielo illuminato di fronte.

«Devo esserne sicura, perché-» Continuò Liza.

«Va bene,» Zelda si diede una rapida occhiata alle dita, poi prese a strapparsi le pellicine dell'indice, «te lo dirò subito.»

Liza annuì, dischiuse le labbra per dire qualcosa, quando un suono limpido e metallico le rubò la scena.
«Salve, Liza Aster. Alle quattro e quaranta ha ricevuto una chiamata da Xavier Lynch. C'è un messaggio in segreteria. Desidera ascoltarlo?»

«Sì, grazie» rispose lei, senza pensarci troppo, mentre Zelda si avvicinava all'ologramma che era appena apparso.

«Non ci crederai, ma ho una buona notizia» disse Xavier, sorridendo, «Carter ha autorizzato a scortare tutti i musicisti del concerto e di tenerli sotto sorveglianza fino al quindici. Il Dionysus sarà messo in sicurezza e "metterò miei uomini da tutte le parti" citandolo. Alla fine ci è arrivato pure lui.
O almeno è abbastanza spaventato da prendere dei provvedimenti.
Spero non ci ripensi, perché mi sembra tutto troppo bello per essere vero.» Scoppiò in una risata breve e incredula, poi si fermò per qualche secondo, lasciando sbiadire l'espressione quasi allegra di cui si erano dipinti i suoi lineamenti.
«Vorrei vederti, se non ti dispiace. Possiamo-» si passò una mano sulla guancia, poi continuò, «possiamo cenare, magari da me, così potremmo parlare di-»
L'ologramma scomparve sotto al comando di Liza, che aveva spento il ClearCircle con un movimento rapido e allarmato.

«Lo sentirò dopo.» Si voltò, tra le labbra un sorriso caldo e che tentava in tutti i modi di essere riparatorio. Si sentì stupida. Semplicemente stupida.

Zelda era rimasta davanti al tavolino di vetro, dove fino a qualche attimo c'era la proiezione di Xavier.
Aveva la bocca dischiusa in un'espressione indecifrabile, un misto di sorpresa e delusione, rassegnazione e sconforto.
Morse ancora una volta le pellicine delle mani che tanto la infastidivano.
«Non dirgli che ho pianto.» Prese con lentezza la busta della spesa che aveva appoggiato sul divano, mentre l'indice si arrossava e una ferita aperta iniziava a sanguinare lentamente.

«No... certo che no» mormorò Liza, mentre la porta si chiudeva e Zelda scompariva dalla sua visuale, leggera ed estremamente silenziosa, come un'ombra forse mai veramente esistita.

Almost Blue,
Almost doing things we used to do.

«Páthei máthos. Si impara soffrendo.» Valentine fece schioccare un fiammifero lungo il bordo della sua scatola.
Una fiammella arancione gli illuminò il volto.

«Eschilo» disse, mentre piccole gocce incandescenti di cera incominciavano a colare dalla candela che stava scaldando, infrangendosi su una mano sottile e tremante.

There's a girl here and she's almost you.

«Il padre della tragedia» si fermò, contemplando il vuoto, «anche se alcune teorie dicono che sia nata grazie al culto di Dioniso
Le gocce continuavano a colare, facendo sciogliere quelle che si erano già solidificate.

Almost all the things that you promised with your eyes.

«Ed è vero. Si imparano molte cose, soffrendo.» In mano teneva una lente d'ingrandimento.
Cliccò un interrutore alla parete e una lampada da comodino di vetro s'accese.

«Sono certo che tu concorderai con me.»
Si voltò, incontrando uno sguardo chiaro e terrorizzato.

I see in her's too.

Scrutò a fondo quegli occhi, così colmi di un sentimento inconcepibile per chiunque non fosse al loro posto.
Una paura troppo profonda li animava, una disillusione troppo paralizzante li stava rendendo sempre più vitrei.

Now your eyes are red from crying.

«Ma adesso, ti prego di non chiudere gli occhi, o verrà un lavoro spreciso.»

E mentre Chet Baker intonava Almost Blue, la cera colava su delle braccia scosse da tremori spaventati e Valentine faceva luccicare la lente sotto le luci flebili dell'acquario.

Le meduse, dietro di lui, sembravano osservare la scena.
Indifferenti ed eleganti come sempre.

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