Il futuro inizia oggi {Prologo}
Anno 2060, Venezia.
Un boato tuonò, scuotendo tutta la casa e svegliando dal sonno profondo la povera coppia distesa nel letto. L'uomo si alzò di scatto e corse alla finestra, per controllare cosa stesse succedendo. Vide la fine del mondo.
«Anna dobbiamo andarcene!» urlò guardando la moglie con gli occhi spalancati.
«C-che cosa su-succede?» chiese la donna, titubante per la reazione impaurita del marito.
«Qualcosa...qualcosa di o-orribile», seppe semplicemente rispondere.
I due si vestirono rapidamente con un cappotto e le ciabatte più calde che avevano, per potersi proteggere dal freddo invernale, e corsero verso la porta, per scappare da quella che avrebbe potuto essere la loro tomba: la loro stessa casa.
«Marcel, aspetta! Mi servono le cose per il bambino!» lo fermò lei sul ciglio della porta.
«Il medico ha detto che non nascerà prima di un mese! Non possiamo preoccuparcene adesso!»
Non si voltarono indietro. Scesero rapidamente le scale e raggiunsero la strada già colma di persone che guardavano quel bizzarro cielo tinto di rosso e verde. Nessuno sapeva cosa stesse succedendo: sembrava un fenomeno naturale mai visto. Rimasero in estasi per alcuni secondi, a guardare quello spettacolo di colori danzare sopra le loro teste. Solo per rendersi conto, poco più tardi, che non era uno spettacolo.
Il primo frammento cadde e creò un cratere nei canali veneziani, tingendo l'acqua cristallina di un verde putrido e marcio, sollevando un odore peggiore della morte stessa, mietendo quasi cento anime in un colpo solo. Le altre sarebbero arrivate poco dopo.
Marcel condusse la moglie lontano dalla gente, alla ricerca di un ospedale o di un posto sicuro in cui poter stare, in cui poter mettere al riparo la sua famiglia. Erano quasi arrivati, quando il secondo frammento cadde. E poi il terzo, il quarto, il quinto fino a che non iniziò una vera e propria pioggia di strane meteore, alcune più grandi e altre più piccole. Una di questa colpì in testa Marcel e lo fece cadere al suolo: il sangue sgorgava rapido dalla ferita sul cranio, mentre uno strano liquido verde sembrava usare quello squarcio per intrufolarsi nel corpo del povero uomo.
«Marcel!» urlò Anna disperata, mentre si inginocchiava affiancò al marito e gli stringeva con forza la mano, cercando di impedire la fuoriuscita del sangue con l'altra. Un piccola meteora si schiantò poco distante da lei, rompendosi in mille pezzi uno dei quali si conficcò nel grembo gravido della donna, facendola urlare dal dolore.
«Scappa...A-Anna. Per me...non...non c'è più spe-speranza», disse a fatica il giovane uomo.
«Non ti lascio, Marcel. Insieme per sempre, anche nei momenti difficili, ricordi?» Lui sorrise.
«Finché morte...non...ci...separi». Furono le sue ultime parole, prima di lasciare per sempre la mano della moglie. Anna pianse, le lacrime sgorgavano veloci tra le urla disperate della donna; ma se pensava che quello fosse il peggio, si sbagliava di grosso. Infatti, non ebbe il tempo di piangere la scomparsa del marito che la prima contrazione arrivò.
«No, non è possibile! Non ora, è troppo presto!». Una seconda contrazione la fece chinare dal dolore. Non poteva aspettare, stava partorendo.
Un uomo, anche lui che stava percorrendo quella strada per raggiungere l'ospedale, trovò la donna e corse in suo aiuto.
«Signora! Tutto bene? Deve andarsene di qui!» urlò.
«Non posso, mio marito...io...» un urlo di dolore per l'ennesima contrazione interruppe il suo discorso «Non posso partorire ora, non dopo la sua morte...» disse sommessamente tra le lacrime che tentavano di soffocare ogni sua parola.
L'uomo la tirò su di forza e la costrinse a guardarlo negli occhi. «Non so se riesce a rendersene conto, ma sta per avere un figlio! Se non vuole perdere l'ultima e più preziosa cosa che le resta di suo marito, le consiglio di seguirmi e di levarsi da questa pioggia di meteore!»
Le urla dell'uomo sembrarono risvegliare un minimo di buon senso in Anna, che si fece scortare fino all'ospedale, dove le infermiere condussero subito lei e il suo salvatore verso la sala parto. Il bambino era praticamente nato.
«Spinga, signora! Spinga!» Le urla di Anna echeggiavano in tutto l'ospedale, nonostante la quantità di persone che lo occupavano. «Ci siamo quasi! Lo vedo!». Altre urla, urla che portavano con sé il dolore per la perdita del marito, la paura per ciò che stava succedendo, l'ansia per ciò che sarebbe potuto succedere dopo.
Poi il primo pianto del nascituro. «Signora, è un maschietto in perfetta salute», cercò di rasserenarla il dottore. Anna fece un sorriso flebile e si girò verso l'uomo che l'aveva salvata.
«Non vivrò abbastanza per poterlo veder crescere...» - iniziò, con un sguardo dolce verso l'uomo a cui stava parlando - «Perciò vorrei...vorrei che lo crescesse lei...E...vorrei che lo chiamasse Elijah. Elijah Marcel Hampthorne».
Anno 2090, da qualche parte sul pianeta Terra
«Elijah! Elijah! Ce l'abbiamo fatta! Potremo finalmente usare il Pluthon per curare gli umani!» gridava a perdifiato uno degli assistenti del giovane ricercatore.
«Incredibile» - disse incantato lo scienziato - «Dopo anni di ricerche ci siamo riusciti». Tra le mani di Elijah c'era il primo prototipo meccanico di un arto base di Pluthon. Il materiale era contenuto nelle rocce che, trent'anni prima, erano piovute dal cielo a causa dell'improvvisa esplosione di Plutone, il più piccolo dei pianeti del Sistema Solare. Quelle informazioni erano state apprese grazie ad anni di ricerche e missioni spaziali e finalmente, dopo numerosi studi sulle proprietà chimiche di questo elemento, erano riusciti a creare arti meccanici di nuova generazione, capaci di crescere con il tempo come se fossero organici.
Elijah era estasiato. «Chiamate subito il primo volontario. Oggi faremo la storia!» escalmò, seguito dall'eccitazione dei suoi collaboratori.
«Vai a casa a riposarti, Theo. Effettuata l'operazione ti darò maggiori dettagli». L'amico ricercatore fece un cenno di assenso con la testa, ma prima di andarsene guardò negli occhi Elijah e gli poggiò una mano sulla spalla.
«Dovresti andare da tua moglie, a breve partorirà e sarà contenta di ricevere la bella notizia».
«Ho tutto il tempo del mondo per godermi la mia famiglia, ora devo prima portare a termine i miei doveri», rispose con un sorriso. L'amico sospirò sorridendo e se ne andò, lasciando il giovane scienziato da solo con le sue invenzioni.
~•~
«Qualcosa non va! Lo stiamo perdendo!» urlava una delle assistenti all'intervento.
«Dottor Hampthorne, dobbiamo fare qualcosa!» Elijah era immobile, in totale paralisi. La protesi appena instaurata nel paziente stava provocando convulsioni e svariati infarti, uno dopo l'altro. Le urla degli altri medici non riuscivano a riportare il giovane scienziato alla realtà: tutto ero ovattato, distante, immobile. Fino a che l'elettrocardiogramma non segnò il decesso del paziente. Era tutto finito. I medici iniziarono ad abbandonare la sala operatoria volgendo occhiate accusatorie all'inventore del prototipo "assassino".
«Che cazzo fai!» urlò Theo entrando con furia nella sala «Mi ha chiamato quasi tutto il dipartimento dicendomi che stavi qui a guardare un uomo morire! Potevi salvarlo!» Silenzio. Elijah non riusciva ad aprire bocca.
«Allora?» lo incalzò l'amico. «Si può sapere cosa ti sta succedendo?» chiese ancora, abbassando la voce fino quasi a sussurrare.
Nella testa dell'uomo stavano scorrendo un'infinità di immagini: cinque persone riunite in cerchio, ognuna con una maschera, davanti a un ologramma di quella che sembrava essere una città tecnologicamente avanzata; un giovane che correva nei boschi accompagnato da un ragazzo dai capelli rossi; delle formule strane basate sul Pluthon che avevano lo scopo di rinforzare gli organi umani; una sola parola che racchiudeva un enorme significato, il SuperCervello.
«H-Ho la soluzione!» affermò a un certo punto incurante di quanto fosse appena successo e di quanto l'amico gli avesse detto.
«La soluzione?»
«Sì! Il problema del nostro prototipo è che gli organi umani non sono pronti a sostenere un organismo estraneo come questo. Dobbiamo introdurre il Pluthon nelle persone!» Gli occhi di Theo si riempirono di quella che sembrava essere paura.
«Hai perso la testa. Nessuno qua ti seguirà, Elijah! Non dopo quello che è successo oggi!»
«Non servono tutti! Bastiamo io e te, insieme da sempre. Io e il mio migliore amico», rispose con l'eccitazione negli occhi.
«No, Elijah. Non ti seguirò in questa follia, non se non sei stabile mentalmente», disse girandosi per abbandonare la sala.
«Abbandoni così? Se tuo figlio fosse ancora vivo non vorresti salvarlo?» Theo smise di camminare e si voltò di scatto verso l'amico.
«Non tirare in ballo mio figlio! Questa è la fine delle nostre ricerche insieme, Elijah».
Dopo quella discussione passarono diverse settimane: Elijah abbandonò sua moglie e si rinchiuse nel suo laboratorio per proseguire le ricerche. Più i giorni passavano, più la sua stabilità emotiva si faceva labile, effimera. Continuava ad avere visioni riguardo il SuperCervello, riguardo una nuova popolazione di uomini in parte macchine che si sarebbero fatti chiamare T.E.K e che avrebbero fatto rinascere la popolazione. Vedeva anche i cinque individui mascherati, ma le ultime volte si era sentito come se fosse lui al centro della loro attenzione e non più la città fantascientifica.
La barba crebbe ispida, i capelli lunghi e unti, l'aria del suo studio sapeva ormai di marcio, le finestre sbarrate in modo che nessuno potesse spiarlo. Questa era la vita di Elijah, ma le cose stavano per cambiare.
«Non ci posso credere...» - disse a un certo punto - «Ci sono riuscito...Ci sono riuscito!» esclamò, lasciando fuggire una risata malata dalla sua bocca subito dopo.
La porta del laboratorio si aprì poco dopo, mostrando la figura di Theo.
«Theo? Theo! Che bello che tu sia qui! Non sai cosa ho appena...»
«Stanno venendo ad arrestarti, Elijah» lo interruppe con tono freddo l'amico.
«Arrestarmi? Per cosa?» domandò incredulo e con un ghigno sul volto il giovane ricercatore.
«Hai lasciato morire un uomo, ecco perché. Io e tua moglie abbiamo fatto la denuncia, lo abbiamo fatto per il tuo bene». Seguirono alcuni secondi di silenzio.
«Ma...Ma io...ho appena trovato la soluzione a tutto! Nessuno dovrà più morire!» proferì con un aumento progressivo del tono di voce.
«Elijah...»
«No! Taci! Perché vuoi rovinare tutto ciò? Non eri mio amico?»
«Sì! Prima che commettessi un omicidio! Tu sapevi come salvare quell'uomo!»
«Se non fosse morto non avrei mai trovato le risposte che cercavo! Era destino! C'è un progetto più grande di noi in corso!»
«Stai delirando. Per questo ti abbiamo denunciato, per salvarti da te stesso!» rispose a tono Theo.
«No» disse Elijah prendendo la pistola che custodiva segretamente nel primo cassetto della scrivania e puntandola contro l'ex collaboratore «Non rovinerete tutto ciò per cui ho lavorato». Theo alzò le mani istintivamente e iniziò a fare respiri profondi, gli occhi ricolmi di paura.
«Elijah...Respira...»
«Non voglio farti del male Theo, ma devi farmi uscire di qui con le mie ricerche», intimò Elijah con la pistola puntata verso il petto dell'amico.
«Okay...Okay...Facciamo così: ora ci scambiamo le posizioni, così potrai scappare dalla porta...».
Elijah mimò un "Grazie" con le labbra e lentamente si scambiarono le posizioni muovendosi in cerchio. Quando lo scambio fu completato, il giovane ricercatore diede le spalle all'amico, pronto per compiere la sua fuga.
Theo, però, aveva ben altro in mente: afferrò il portapenne in acciaio sulla scrivania e, dopo essersi velocemente avvicinato alle spalle dell'amico, lo colpì in testa facendolo cadere. Elijah urlò per il dolore e nel cadere perse la presa sulla cartella contenente i fogli delle sue ricerche e sull'arma da fuoco, che volò qualche metro più avanti. Si toccò più volte la testa e notò che la ferita sul capo era più grave di quanto immaginasse, rischiava di morire dissanguato.
«Sei impazzito?» sbraitò «Rischi di uccidermi!» Theo non rispose; ora nei suoi occhi c'era anche la paura di essersi macchiato delle stesse colpe che prima imputava all'amico.
«Mi..Mi dispiace...» fu tutto ciò che riuscì a dire. Elijah si sforzò con tutto sé stesso di raggiungere la cartellina e la pistola, ma quando l'amico lo notò lo bloccò subito mettendosi a cavalcioni su di lui.
«Basta Elijah, è finita!» continuava a ripetere. Poi accadde l'impensabile. Mentre il ricercatore si ribellava e dimenava con le ultime forze che aveva per liberarsi dalla presa dell'amico e scappare, urtò la pistola che andò a sbattere contro il muro facendo partire un colpo. Tutto si immobilizzò per qualche secondo. Poi, una macchia scura iniziò a formarsi sul petto di Theo, all'altezza del cuore. Elijah guardò con orrore prima il petto dell'amico, poi i suoi occhi vitrei, quasi inespressivi.
«Theo!» urlò. L'amico mollò la presa su di lui e cadde verso terra, ma Elijah fu in grado di prenderlo al volo mentre rapidamente si metteva seduto, la ferita sulla testa ancora sanguinante.
«No! No, non può essere!» gridò. In quell'istante, le sirene della polizia iniziarono a rompere il silenzio della notte.
Nello stesso momento, una visione si fece largo nella testa dell'uomo, più nitida delle altre volte. Come posseduto, abbandonò il corpo quasi esanime dell'amico e si mise al computer con la sua cartellina davanti, le dita che agevolmente si muovevano sulla tastiera, come un esperto informatico sa fare.
Fatto ciò prese un foglio di carta e una penna, tornò vicino all'amico e, tra le lacrime, iniziò a scrivere un biglietto.
«Un giorno mi troverai, Elijah, e forse saprai mettere a posto tutto questo».
Lasciò cadere il foglietto vicino a sé e chinò il capo sul corpo dell'amico, lasciando che le lacrime scendessero libere.
Quando quella sera la polizia fece irruzione nel laboratorio di Elijah Marcel Hampthorne non trovò nessuno ad attenderli.
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