Capitolo 24 • Commissione
C A P I T O L O X X I V
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• C o m m i s s i o n e •
Sfregai i capelli energicamente con l'asciugamano grigio che avevo trovato sul letto, cercando di asciugarli il più possibile. Quando mi rialzai, lo sguardo del mio riflesso restituì il mio.
Ero stato l'ultimo a fare la doccia, mi ero sacrificato per potermi concedere tutto il tempo che volevo per riflettere e per cercare di reprimere il bisogno che provavo di scappare di lì, per raggiungere mia sorella, a poche ore di cavalcata. Anche a vedere dal mio riflesso, tutto il mio corpo fremeva per il bisogno di muovermi di lì, di uscire da quella casa.
Presi un respiro profondo, convincendomi che quello era il mio posto, a fianco dell'ultimo sole e del suo gruppo di amici. Potevo diventare un eroe, salvare questo regno aiutando Evelyn Lewis nella sua missione impossibile.
Fin da quando eravamo piccoli ci caricavano di una bella dose di storie e di racconti su cosa sarebbe potuto succedere nel caso un Dominus della Luce si convertisse nel suo alter-ego oscuro. La Grande Guerra ne era stato l'esempio emblematico. Anche poche ore prima, quando avevo visto la palla d'energia dell'Ibrido diventare nera, mi si erano rizzati i capelli sulla nuca.
«Mia madre è stata assassinata! Non si è sacrificata per il bene dell'Ordine. Loro... l-loro l'hanno u-uccisa solo perché mi aveva salvata.»
La voce di urlante di Evelyn risuonò per tutta la casa ed io aggrottai la fronte, chiedendomi che cosa fosse successo quella volta.
«E credi che io non lo sappia?»
Arrivò anche la voce di Joanne, forte e chiara. Decisamente, se fossi stato al suo posto, avrei reagito al suo stesso modo: sapere che la propria madre riposava fra i martiri di guerra, in cima alla Montagna Rossa, mi sembrava una grande presa in giro.
Tutti sapevano che Alya Lewis era stata sepolta lì dai Ribelli, dopo che era stata uccisa da loro stessi. Tutti sapevano quella storia nell'Altopiano del Fuoco, nessuno escluso.
Sentii dei passi veloci fuori dalla porta e capii che Evelyn aveva deciso di ritornare in soffitta, sicuramente con mille pensieri in testa. Mi augurai che non stesse pensando a qualche idea suicida. Già la stessa idea di venire qui si era rivelata molto azzardata: meno male che, quella volta, l'istinto di Evelyn aveva avuto ragione.
Mi vestii in fretta, ritornando ad indossare i vestiti tipici di un normale Dominus del Fuoco che abitava da quelle parti: con una maglia a maniche corte marrone scura e un paio di pantaloni tipici di Elyria. Avrei dovuto mettere una giacca resistente sopra la maglia, ma Joanne non me ne aveva data una. Mi sentivo abbastanza spoglio senza tutti i pugnali che quando ero più piccolo infilavo nelle numerose tasche dell giacca, dovevo ammetterlo.
Sfregandomi ancora i capelli con la mano, uscii dal bagno, appena in tempo per vedere Matt uscire dalla nostra camera, cercando di non fare troppo rumore.
«Dove vai?» gli chiesi subito, vedendo che stava puntando verso la soffitta.
«L'ho sentita urlare.» spiegò accennando al piano superiore. «Voglio capire che cos'è successo.»
Annuii, rispondendo: «Io vado di sotto, ho bisogno di bere del caffè. Non riesco a dormire ma non voglio avere un esaurimento energetico a metà giornata.». Sentendo le dita muoversi impercettibilmente sul fianco per il bisogno che provavo di tenere in mano una sigaretta, scesi le scale. Era stato decisamente difficile abituarsi all'idea di non poter fumare e ancora oggi, ad un mese di distanza dal nostro ritorno ad Elyria, mi sentivo dipendente dalla nicotina.
Arrivai in quella che supposi essere la cucina vedendo la padrona di casa seduta sul tavolo con lo sguardo fisso su un punto del giornale a stringere con la mano la tazza, così fortemente che le nocche le erano diventate bianche.
«Tutto bene?» le chiesi subito, affacciandomi allo stipite della porta.
«Sì.» rispose dopo essersi riscossa, posando il mio sguardo su di me. «Avevi bisogno di qualcosa?»
«Del caffè, se c'è.» replicai facendo un passo avanti nella stanza, avendo ancora una volta l'impressione che quella donna fosse davvero ricca.
«Sì, sopra il lavandino.» replicò chiudendo di colpo il giornale. «Tu sei nato qui vero?»
La domanda che mi fece mi lasciò un attimo interdetto. Che cosa le importava dove fossi nato? Raggiungendo il lavandino, mi ritrovai a rispondere sinceramente: «Non proprio qui, a Lerae, ma Fyreris la conosco molto bene. Ho accompagnato molte volte mio padre in città per lavoro.»
«Perfetto.» replicò. «Perché ho bisogno del tuo aiuto.»
Dopo aver afferrato il caffè, mi girai in fretta verso di lei, ritrovandomi a dire uno «Scusami?» confuso. Decisamente non me lo ero aspettato, ma, se quello che mi avesse proposto sarebbe stato ragionevole, ero più che disposto ad aiutarla.
«Due persone che conoscono la città sono più veloci ed efficienti che una sola, dico bene?» rispose. «Potremmo velocizzare i tempi se mi aiutassi a svolgere qualche commissione.»
«Di che tipo?»
«Ho bisogno di qualcuno che mi faccia da portavoce mentre svolgo altri compiti. Dovresti andare a parlare con la persona che ci aiuterà nella nostra missione.»
«E chi sarebbe?» aggrottai la fronte.
«Bryant Blain.»
***
«Stia attento!»
Schivai per un millimetro un lattaio che trasportava due secchi pieni di latte in una delle vie principali del Quartiere di Marte, uno dei più poveri della città di Fyreris. E, in quanto tale, uno dei più affollati e pieni di vita.
Sin da quando ero bambino, avevo apprezzato la peculiarità delle grandi città di Elyria di avere i vari quartieri chiamati secondo una precisa linea tematica. Per esempio, Ilyros, la capitale, chiamava i propri quartieri con i nomi delle pietre preziose e Fyreris con i nomi degli astri della nostra galassia.
Accompagnando mio padre in città, non ero mai passato da quel quartiere, che si trovava a ovest della città: ero sempre rimasto quasi esclusivamente nella parte nord-orientale di Fyreris, dove si svolgevano le attività commerciali. Il più delle volte proseguivamo la nostra visita in città raggiungendo le grandi forge che si trovavano in cima alla Montagna Rossa: mio padre era un fabbro e, poiché da Larae si controllava la maggior parte di produzione di armi e armature, bisognava controllare anche le forge cittadine.
La mia famiglia era stata una delle più rinomate del Regno di Elyria, parlando in termini produttivi: le armi e le armature dei Soler erano da sempre le più forti e resistenti e tutti, perfino i grandi re, accorrevano dai miei antenati per farsi forgiare il proprio arsenale d'armi.
Peccato che, con la Grande Guerra, la maggior parte dei membri della mia famiglia fosse caduta in schiavitù dei Domini dell'Ombra, che avevano bisogno di armi per combattere contro il Regno di Elyria. Eravamo rimasti in pochi: uno o due rami famigliari che non erano riusciti a ridonare la stima e la fama che aveva la nostra famiglia. Ora ci eravamo sempre accompagnati da pregiudizi, che ci facevano guadagnare una reputazione tutt'altro che bella: noi avevamo creato le armi dei Domini dell'Ombra, le armi che avevano ucciso milioni di persone.
E così, anche se alcune armi create dalla mia famiglia erano ancora considerate leggendarie e praticamente infallibili, non eravamo più visti di buon occhio dalla gente, non davvero. Ma io avevo imparato a fregarmene, come aveva fatto il resto della mia famiglia: eravamo Soler, passati oscuri o meno, ed eravamo orgogliosi di esserlo.
Naturalmente non mancavano le eccezioni: mio padre era comunque un fabbro relativamente rispettato a Laere, che aveva trovato un lavoro stabile presso una delle forge più grandi della cittadina e mia sorella si era sposata con un ricco figlio di mercanti libero da ogni pregiudizio.
Non potevo nemmeno dimenticarmi quella ragazza che era con il principe, a Kratos, che al sentire il mio nome aveva solamente cominciato a fare domande curiose e affascinate, prive di pregiudizi e di paura. La ragazza, che mi pareva si chiamasse Gwenyth, era una nobile evidentemente menefreghista dell'opinione della gente e per questo mi era piaciuta.
«Mi scusi.» replicai velocemente, prima di zigzagare fra i numerosi venditori abusivi che avevano organizzato un piccolo mercato in quella via.
Quello era decisamente un quartiere sovraffollato, che ti lasciava quasi senza respiro: le case di marmo sporco erano tutte addossate, come se fossero state costruite una sull'altra, e la mole di persone che faceva via e vai per la strada già angusta era decisamente troppa per i miei gusti. C'erano bambini che giocavano con la palla, alcuni che si lanciavano addosso piccole sfere di fuoco - rischiai anche che me ne arrivasse una in un occhio - e alcuni con la testa china mentre venivano rimproverati dalle madri furiose e severe.
Lì erano pochi gli stranieri e da quello che avevo sentito, i poveri che abitavano in questo genere di quartieri erano portati a vedere di cattivo occhi ogni Dominus che non fosse dell'elemento del fuoco.
Per me fu come ritornare a respirare quando sbucai da quella via, arrivando nell'immensa strada che affiancava il fiume Lavaeris, già più a cielo aperto.
Il lungofiume era di gran lunga la parte della città che preferivo in assoluto: era bellissimo vedere il fiume di lava scorrere e dividere la città in due ed erano altrettanto belle le case e i palazzi di marmo che si affacciavano sulle due strade ai lati. La strada nella quale ero sbucato io, era percorsa da moltissimi Domini, anche da nobili, distinguibili grazie ai loro vestiti preziosi e ricamati e dai gioielli che indossavano.
La mia meta, purtroppo, si trovava in un'altro viottolo, dall'altra parte del fiume, dove si trovava il quartiere più malfamato e con brutta reputazione della città: il Quartiere di Plutone. Mio padre me ne aveva sempre parlato: «Non ti avvicinare mai al Quartiere di Plutone, Cesar. Non farlo se non vuoi ritrovarti con un occhio o un orecchio di meno.» mi diceva sempre quando ci passavamo vicini, dall'altra parte del quartiere. Anche adesso, mentre sorpassavo il fiume percorrendo uno degli innumerevoli ponti di basalto, sentivo la voce di mio padre rimbombarmi nelle orecchie.
Entrai nel vicolo che Joanne mi aveva indicato cercando di mantenere il battito del cuore regolare: non dovevo preoccuparmi, ero addestrato e potevo affrontare chiunque. Fu come entrare in un'altra città: era un po' come il vicolo che avevo percorso nel Quartiere di Marte, pieno di persone e sovraffollato, ma era tutto più cupo, quasi oscuro.
«Troverai un mercato, vedi di non portare roba preziosa con te. Ci sono ladri talmente bravi che non te ne accorgeresti nemmeno. Supera quattro traverse e alla quinta entra in quella a destra. Dopo un po' vedrai un muro con una linea di vernice verde bottiglia: lui si trova dentro la porta lì affianco.» mi aveva detto.
Percorsi quel viottolo affollato, cercando di non guardare di traverso i venditori che si proponevano di vendere radici di valeriana facendole passare per erbe dai poteri magici provenienti dalle Terre Dimenticate o cenere con presunti poteri di ringiovanimento.
«Lord, comprerebbe un po' di foglie di giglio rosso della Valle Oscura di Ubrys? Al prezzo assolutamente ragionevole di novanta corone d'oro.» una signora sdentata e calva mi si avvicinò brandendo con la mano un gruppo di foglie dal colore giallastro.
La ignorai, non senza guadagnarmi delle urla di maledizione dalla signora. Continuai a camminare dritto verso la mia meta, accorgendomi sempre di più che in mezzo a loro ero l'unico ad avere dei vestiti decenti: rischiavo di essere attaccato anche solo per il fatto d'indossarli, visto che si trattavano di abiti da benestante. Accelerai il passo, cercando di evitare di guardare i bambini magri e sciupati seduti contro i muri, che si tenevano le ginocchia fra le braccia quasi come se avessero freddo.
Con la crisi che si era abbattuta su tutto il regno, non mi sarei stupito se pure la mia famiglia avesse fatto la loro stessa fine, nel caso fossimo rimasti ad Elyria. Rabbrividii solo al pensiero di non avere da mangiare: quel mese all'insegna di bacche e frutti di bosco era già stato abbastanza per me.
Finalmente contai la quinta traversa, nella quale entrai senza tentennare: ero più che contento di allontanarmi da quella sorta di mercato nero. Quella strada secondaria si rivelò essere decisamente più vuota della precedente: c'erano solo quattro o cinque persone, per di più in fondo alla via. Sembrava stessero fumando qualcosa.
Procedetti in avanti, fermandomi solo quando vidi l'alta e larga striscia di vernice verde. Lì di fianco c'era la porta di un piccolo negozio, con l'insegna che penzolava da un asta orizzontale di legno. C'era scritto Bottega dell'Ultima Luce a caratteri rossi. Senza bussare, afferrai la maniglia ed entrai in quel negozio, facendo suonare un piccolo campanello.
Era una stanza buia, priva di finestre e illuminata solo da due lampade fioche da pavimento. C'era un lungo e lucido bancone proprio davanti a me, dietro il quale c'erano solo tanti scaffali, niente commesso.
Richiusi cautamente la porta alle mie spalle, cominciando ad avanzare piano piano verso il banco per suonare quel campanello di ferro che avrebbe, forse, attirato l'attenzione di qualcuno. Non feci però in tempo a fare due passi in avanti che un uomo alto di mezza età uscì da una porta affianco al bancone.
«Allora questa volta Joanne ha deciso di usare un ambasciatore...» la voce dell'uomo era lenta e grave.
Senza mostrare segni di sorpresa o di inquietudine, parlai a mia volta: «Lei è Nathan Ray?». L'uomo si limitò a fare un lieve sorriso. Era un Dominus ben piazzato, con barba e capelli neri che cominciavano a diventare bianchi. A differenza di tutti i Domini che avevo visto in quel quartiere, lui indossava vestiti puliti e decisamente costosi, quasi da nobile.
«Sì, sono io.» annuì l'uomo, avvicinandosi al bancone. «Qual è questa volta la richiesta di Joanne?»
Arrivò subito al punto, senza giri di parole. Io, senza farmi cogliere impreparato, feci un passo avanti verso di lui, rispondendo come Joanne mi aveva detto: «Abbiamo bisogno di raggiungere Bryant Blain, stasera. Abbiamo un incontro con lui, ma Joanne pensa non sia il caso di farsi notare entrando dalla porta principale. È bene mantenere la nostra identità nascosta.»
«Forse si sta spingendo un po' troppo in là questa volta.» commentò l'uomo, quasi fra sé. «Sarà un pagamento davvero salato questa volta, ne è consapevole?»
«Come forse già saprà i pagamenti non sono un problema per lei.» ribattei liquidando l'argomento. «Avremo bisogno del vostro passaggio sottorraneo, stasera.»
«Di che cosa mai dovrà discutere Joanne Allen con Bryant Blaine?» chiese fra sé parlando in tono strascicato e sussurrato.
Rimasi zitto, avendo ricevuto da Joanne il preciso ordine di non rivelare nulla a quell'uomo che non fosse strettamente necessario per la nostra missione. Nathan Ray era uno degli uomini più influenti di tutta Fyreris: era a capo di una delle organizzazioni più malfamate e segrete di tutto il regno. Nessuno conosceva il vero nome dell'organizzazione, tutti la chiamavano Mano del Diavolo. Forse, erano peggio della Confraternita Oscura.
«Allora accordato.» concluse infine, dopo aver parlato fra sé per un paio di minuti. «Potrete usare il nostro passaggio.»
***
«Spiegami ancora perché Blain sarebbe implicato in questa vicenda.»
Verso le sei di quella sera, io e Joanne avevamo lasciato la sua casa e avevano raggiunto di nuovo la Bottega dell'Ultima Luce, lasciando da solo tutto il resto del gruppo.
Non erano mancate di certo domande su domande, la maggior parte poste da Evelyn ovviamente. Joanne mi aveva detto di non rispondere a nessuno, per il momento: non serviva nulla illudere prima di essere sicuri che la missione stesse procedendo per il verso giusto.
«Dopo ti racconto, te lo prometto.» era stata la mia risposta alle continue domande di Evelyn, che mi aveva trattenuto per il braccio come per impedirmi di uscire da quella porta.
Per fortuna Colton Wilson era intervenuto, prendendo Evelyn per la vita è trascinandola indietro, per lasciarci uscire in pace e senza il rischio che qualcuno scorgesse il suo viso mentre aprivamo la porta.
«Lord Blain ha un ruolo fondamentale nella nostra missione, ragazzo.» ripeté per quella che mi sembrò la milionesima volta. «È l'unico con il potere di proteggerci mentre raggiungiamo Eylien ed è l'unico che sa davvero i misteri di questa profezia. Non farmi altre domande, ti risponderà lui non appena... Ah eccoci arrivati...»
Joanne alzò il braccio, contrasse le dita in un pugno e bussò quattro volte come le era stato detto di fare. Lasciò ricadere il braccio solo quando sentimmo dall'altra parte della porta un gran trambusto, segno che avevano sentito il nostro "codice" per entrare.
Dopo un po', la porta si spalancò, rivelando due guardie reali illuminate da due fiaccole. La prima allungò una mano, invitandoci a non fare un passo avanti, dicendo con voce ferma e autoritaria: «Rivelate le vostre identità.».
Fu Joanne a prendere parola per entrambi, armeggiando con la sua veste per estrarre il foglio di pergamena scritto da Ray per assicurare a quelle guardie di non essere degli impostori: «Joanne Allen e Cesar Soler. Abbiamo chiesto e ottenuto il permesso da Lord Ray per poter usare questo passaggio stasera.». Mentre parlava allungò la mano con il foglio verso le guardie, che lo afferrarono senza spostare lo sguardo da quello di Joanne. La guardia che lo prese lo porse alla seconda, che lo lesse in fretta.
«Ci sono la firma e il timbro di Ray.» annuì. «Non stanno mentendo, devono vedere Lord Blain.»
«Bene.» disse la prima guardia, facendo un passo indietro. «Allora accomodatevi.»
Io e Joanne cominciammo a muoverci in avanti, salendo un gradino ed entrando in quella che scoprii essere una specie di prigione vuota. Avanzammo nel centro della caverna scura e ci girammo a vedere le guardie ricoprire la porta con un armadio.
«Lord Blain sta aspettando due persone nella sala del trono. Ha dato gli ordini di non poter presenziare al ricevimento e di rimanere silenzio. Le parole di questo incontro non devono uscire da queste mura. A questo punto suppongo siate voi, gli ospiti.»
«Esattamente.» replicò Joanne, prima che una delle guardie cominciasse a muoversi.
Cominciò a camminare verso il cuore del palazzo, lasciando indietro l'altra guardia. Noi la seguimmo, camminandoci dietro immersi nel più completo silenzio.
Presto, i muri neri si sostituirono alle pareti di roccia e il pavimento cominciò a diventare più levigato e meno polveroso. Solo dopo aver percorso tantissime scalinate arrivammo nel piano giusto. Non appena uscimmo dalla porta, già aperta, l'incredibile maestosità dei muri nero ed oro mi colpì in pieno.
Avevo visto quella particolarità del palazzo solo dall'esterno e sempre da lontano: il Quartiere di Venere, nel quale ci trovavamo in quel momento, era sempre stato molto lontano da dove mi aveva portato mio padre. Per me era sempre stato una specie di luogo irraggiungibile: un luogo che non avrei mai avuto il permesso di visitare. Eppure, ironia della sorte, ero lì ad osservare quei ricami dorati percorrere in lungo e in largo il muro color pece.
Non potei fare a meno di avvicinarmici, mentre continuavo a camminare. Allungai involontariamente il braccio e cominciai a sfiorare quel ricamo d'oro. Sicuramente, se qualcuno avesse estratto dal muro tutto quell'oro, sarebbe diventato ricco quasi quanto la famiglia reggente di Pyros, non ne avevo dubbi.
Il Dominus cominciò a camminare in corridoi controllati da altre guardie, ferme immobili e con il mento alzato. Decisamente, da ribelle qual'ero, mi trovavo a disagio circondato da tutte quei soldati reali, che per fortuna non portavano il mantello azzurro dell'Esercito Azzurro, ma rosso, tipico della regione di Pyros. Questo mi concedeva un leggero sospiro di sollievo, ma comunque mi sentivo in continuazione i loro sguardi addosso.
«Eccoci qua.» disse ad un certo punto la guardia, interrompendo tutti i miei pensieri. «Qui dentro Lord Blain vi sta aspettando.»
Si era fermato davanti ad un grande portone di legno, che dominava tutto lo spazio circolare in cui eravamo sbucati. Girandomi dall'altra parte potevo vedere due scalinate curve gemelle che scendevano fino al piano terra, dove sicuramente si trovava l'atrio del palazzo. Guardando il pavimento potevo quasi immaginare il disegno dorato di una fiamma che avrei visto se avessi guardato a terra da un'altezza diversa.
Joanne si congedò dalla guardia e, dandomi un colpetto sul braccio per invitarmi a seguirla, cominciò ad avanzare verso la sala del trono. Camminai a mia volta, chiedendomi che aspetto avesse quella stanza. Non appena varcammo il grande portone d'ebano, trattenni a stento un sospiro di meraviglia: era davvero tutto troppo maestoso.
Dal soffitto pendeva un grandissimo candelabro di diamanti neri e di gemme dorate, che illuminava la stanza di una forte luce. Nonostante la luce del candelabro, tutta la stanza sarebbe sembrata buia se non ci fossero state le grandi e alte finestre ai lati della stanza, decorate da tende dorate che richiamavano il colore del filo che percorreva i muri. Era una stanza che, nonostante fosse dovuta esserlo, non sembrava affatto vuota: il lungo tappeto che percorreva tutta la lunga stanza, i quattro troni d'oro massiccio che si trovavano su una piattaforma rialzata e le armature che si trovavano fra una finestra e l'altra riempivano a sufficienza lo spazio presente.
«Sono felice che siate arrivati, anche se non siete passati dal portone d'ingresso.» la voce di Lord Blain rimbombò per tutta la sala del trono vuota.
Sentii al mio fianco Joanne fare un inchino ed io la imitai subito, non essendo abituato a questo tipo di convenevoli. Mi sentivo abbastanza fuori luogo lì dentro, circondato da così tanta ricchezza e prostrato dinanzi al governatore della regione del fuoco.
Quando Joanne mi aveva detto che Bryant Blain, il reggente di Pyros, ci voleva aiutare, mi erano quasi cadute le braccia. Non avevo capito subito quello che aveva detto: mi sembrava così impossibile che una persona così vicina alla corona stesse in realtà cospirando contro di essa. Con le nuove leggi, se il re avesse ricevuto una voce riguardo alla dubbia fedeltà della famiglia reggente, tutti i Blain sarebbero potuti finire a ceppo tutti, uno dopo l'altro. Ma evidentemente avevano molta fiducia in quello che stavano facendo, tanto da rischiare così tanto.
«La felicità è tutta nostra, Lord.» replicò Joanne, raddrizzandosi e cominciando ad avanzare verso il trono, con me naturalmente alle sue calcagna.
«Ha portato con sé un ragazzo, come posso ben vedere. Sarebbe uno dei Domini che viaggiano con l'ultimo sole?»
Mi guardò eloquentemente, invitandomi a parlare. E così fece Joanne. Schiarendomi la voce e cercando nel mi repertorio la maniera migliore per rivolgermi a un nobile di quel rango, parlai: «Sì mio Lord.» deglutii, guardando con la coda dell'occhio Joanne. «Il mio nome è Cesar Soler, sono nato nella cittadina di Laere. Sto viaggiando da più di dieci giorni con Evelyn Lewis, e da più di un mese con il suo migliore amico, Matthew Davis.»
«Bene, più informazioni abbiamo, meglio è.» replicò lui prendendosi il mento fra le lunghe dita.
Lord Blain era sulla sessantina, un po' più vecchio di Joanne. Come lei, aveva i capelli biondi, ma di un biondo più chiaro. Aveva la barba lunga e gli occhi scuri, circondati da un po' di rughe. Era un uomo dalla figura slanciata e possente.
Lasciandomi un po' interdetto, si alzò dal trono, facendo svolazzare il mantello bordeaux. Rimasi un po' spiazzato quando ci invitò a seguirlo in una stanza dietro la sala del trono. Passammo per una porta a due ante dello stesso colore del portone d'ingresso di quella sala e ci ritrovammo in quella che supposi essere una specie di stanza del consiglio, caratterizzata da un lungo tavolo di legno scuro attorno al quale erano appoggiate non meno di venti sedie.
La sala sarebbe stata vuota se non fosse stato per un vecchio seduto su una poltrona, girata verso il fuoco che sfrigolava nel camino della parete opposta a quella che ospitava la porta. Ci dava le spalle, ma potei notare quanto vecchio fosse dalla testa piena di lunghi capelli tutti bianchi che spuntava dallo schienale della poltrona.
«È finalmente arrivato questo momento.» quando parlò, mi ritrovai a rabbrividire: aveva una voce forte, estremamente grave e con un che di strano, che mi faceva quasi congelare il sangue nelle ossa. «Da qui prenderà via tutto. Le visioni non mi hanno mentito: l'ultimo sole è in città e in questo modo potrà salvarci tutti.»
Rimasi senza parole quando la poltrona si girò, rivelando il vecchio Dominus in tutta la sua figura. Mi ritrovai disorientato quando lo vidi: non sembrava così decrepito come avevo pensato. Sì, ok, aveva il volto solcato da molte rughe e i capelli e la barba bianchissimi, ma mi ero immaginato un vecchio con la pelle raggrinzita e attaccata alle ossa da far paura. Ma c'era una cosa che potesse suggerire la sua vera età: anche da quella distanza non si potevano non notare i suoi occhi bianchi, totalmente bianchi.
Quell'uomo era cieco.
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