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Capitolo II (R)

La settimana passò in fretta, eppure non tanto quanto avessi sperato. Mi ero lasciata inevitabilmente coinvolgere dalle numerose attività orchestrate dai miei genitori, tanto che, senza accorgermene, mi ritrovai nella mia stanza già alle prese con gli ultimi preparativi. La valigia era piena solo a metà e non avevo la più pallida idea di cosa potesse servirmi una volta trasferita alla Base Alpha. Quei pochi vestiti che avevo erano sparsi disordinatamente per tutta la stanza, trovare qualcosa nel mezzo di quel caos era impossibile. Nonostante mia madre si fosse resa disponibile, le avevo proibito di continuare ad aiutarmi poco dopo la sua seconda crisi di pianto. Preferivo non assistere più a scene di quel genere: ero già abbastanza impegnata a tenere a bada le mie di emozioni, non potevo preoccuparmi anche di lei. Non riuscivo ancora credere di essere nella lista dei candidati per l'Elezione, né che di lì a poche ore sarei stata prelevata e portata dall'altra parte dell'isola. E, cosa ben peggiore, non sapevo se gioire per l'opportunità oppure gridare e scalciare per evitare di essere coinvolta.

In entrambi i casi, volente o nolente, avrei seguito il protocollo.

Quando arrivò il momento, salutai i miei familiari con un grosso sorriso, finto e incerto, ricambiato da lacrime e sguardi di autentico orgoglio. Provai pena per loro: vedere la propria figlia scortata dai militari di servizio come fosse una carcerata, di certo non doveva essere un bello spettacolo per un genitore. Eppure, se proprio dovevo angosciarmi per qualcuno, avrei fatto meglio a riservare un posto d'onore a me stessa, ormai invischiata in qualcosa decisamente più grande di me.

Ebbi una morsa al cuore quando vidi arrivare la vettura, salirci fu peggio. Vedere quelle poche persone che mi erano state accanto per diciannove anni farsi minuscole attraverso il finestrino del pulmino, mi fece realizzare quanto quello fosse un addio in piena regola.
Quando scomparvero dalla mia vista sentii una parte di me spezzarsi, e fu solo allora che mi voltai, accorgendomi di non essere sola. C'erano altri candidati, misti tra ragazze e ragazzi di età differenti. Nessuno del mio corso era presente, eccetto un ragazzo di nome Carlos Mullas, a cui non avevo mai rivolto la parola. Probabilmente gli altri erano stati smistati in pulmini diversi. Nel corso del tragitto ne vidi altri identici al nostro, pronti a prelevare poveri sventurati come noi dalle loro case.

Il viaggio sarebbe durato in media un paio di giorni, forse tre, ma dipendeva dalla velocità del guidatore. Davvero un percorso lunghissimo se si prendeva in considerazione il fatto di dover condividere una scatoletta di ferraglia con una trentina di individui sconosciuti.

Facemmo diverse fermate nelle varie zone della capitale per raccogliere altri candidati. Il vero viaggio iniziò solo dopo che tutti i trenta posti vennero occupati e, con mio enorme rammarico, mi ritrovai a pochi posti di distanza proprio dal ragazzo che il giorno della visita mi aveva fissato con sdegno e diffidenza. Quando finii col fissarlo a mia volta e lui si girò per sostenere nuovamente il mio sguardo, vidi che il suo atteggiamento non era mutato dall'ultimo incontro. Mi sentii nuovamente a disagio e soprattutto irritata. Perché mi riservava tali occhiate? Non mi conosceva e io di certo non conoscevo lui.

Come se i modi del ragazzo non bastassero a rendere ancora più spiacevole una giornata iniziata nel verso sbagliato, gli altri candidati contribuirono a peggiorarla. Mi ritrovai presto coinvolta in una silenziosa guerra di spiacevoli occhiate, e non mi restò che mostrarmi impassibile per evitare che si creassero inutili malintesi. Molti dei presenti avevano un'aria bellicosa, gli si leggeva sul volto quanta voglia avessero di attaccare briga per accaparrarsi il titolo di Rappresentanti. Passavo il mio sguardo in continua rassegna dei volti, finendo col riporlo costantemente su quello del ragazzo dai capelli rossi. Mi fermai solo dopo che il responsabile del mezzo passò tra i sedili gridando: «Prima sosta! Scendete ordinatamente, rifocillatevi e usufruite dei punti di ristoro nell'area di servizio se necessitate. Avete a disposizione un quarto d'ora. Siate puntuali!»

Non gli lasciammo aggiungere altro. In men che non si dica ci accalcammo per scendere da quell'ammasso di ferraglia, che di speciale aveva solo lo stemma nazionale dello Stato di Phērœs: un cerchio dorato che incorniciava la scritta "Phērœs Island" e il numero ventisette, che indicava l'attuale Anno Elettorale.

Man mano che le Elezioni succedevano, i Rappresentanti aggiungevano un Anno Elettorale e, una volta saliti alla carica, sceglievano il rispettivo stemma. Fino ad allora erano stati creati ventisei differenti stemmi, incluso quello degli attuali Rappresentanti: un'aquila con quattro ali. Solo ed esclusivamente per il periodo delle Elezione veniva utilizzato lo stemma ufficiale dello Stato, principalmente per ricordare al popolo che la carica volgeva al termine.

Scesi inspirando profondamente e assaporando ogni singola boccata d'aria fresca. Cercai di scrollarmi di dosso la sensazione di quella cappa creatasi all'interno della scatoletta di ferraglia, un misto di sudore, profumi e dopobarba, mescolato al consueto odore di chiuso che faceva assopire i sensi durante il viaggio.

Tutti si riversarono nel ristoro dall'imponente insegna colorata "Crouty Douty, Free Service of Phērœs", uno dei numerosi servizi per automobilisti e camionisti, totalmente gratuiti, istituiti dai nostri attuali Rappresentanti. Ci si serviva da soli e si pesava il cibo prelevato sulle bilance all'entrata, facendo attenzione a non superare il peso giornaliero previsto dalla legge. Per registrare il tutto bisognava passare la propria tessera di riconoscimento nello scomparto apposito, dopodiché si poteva consumare liberamente il cibo.

I Rappresentanti avevano contribuito a migliorare lo Stato di Phērœs con normative così impeccabili che in nessun angolo dell'isola il popolo aveva mai osato parlare di rivolte. Come potevano mandare noi, inesperti ragazzini, a sostituirli? Per me era pura follia.

Mi accostai al lato della vetrata che mostrava l'interno del ristoro, dove gran parte dei miei compagni di viaggio si stava ingozzando di cibo. Vederli attenuò la mia fame, ma prima di rientrare nel pulmino avrei sicuramente preso qualche scorta per il resto del viaggio. Rimasi fuori, a contemplare ancora un po' il cielo limpido. La quiete era perfetta, anche se in sottofondo percepivo le risate sguaiate di un consistente gruppo di ragazzi che iniziavano a legare attorno ad un tavolo. Dovevano aver già iniziato la loro divisione in gruppi, e tutto ancor prima dell'inizio dell'Elezione. Era risaputo che tra i ragazzi della competizione si creassero alleanze di convenienza che facilitavano le chance di avanzamento nella competizione — come si dice: "la forza risiede nel numero" — ma avevo sempre creduto che tutto iniziasse una volta all'interno della struttura.

Mi sbagliavo di grosso.

Data la mia indifferenza verso il comune obiettivo di ottenere il titolo di futuro Portavoce della Nazione, decisi che un gruppo di sostegno non mi serviva, così come non necessitavo di alleanze temporanee. Tutto ciò che potevo tollerare era la compagnia occasionale di qualche partecipante, che mi avrebbe sicuramente aiutato ad ammazzare il tempo in quel lungo periodo, anche se stare da sola, in fin dei conti, era forse la scelta più saggia: nessun dovere o atteggiamenti di riguardo imposti verso qualcun altro... Solo io e me stessa. Niente di meglio.

Alla fine, mi feci forza ed entrai all'interno. Individuai con difficoltà gli scaffali contenti cibi salutari, visto che il cibo spazzatura comprendeva la quasi totalità del cibo presente.

Data la mia passione per la cucina, la qualità degli ingredienti che componevano i cibi era per me un'ossessione. Su quelli non potevo transigere. Non avrei mai riempito il mio organismo di coloranti e sostanze chimiche cancerogene. Scartai subito snack dolci e salati, verdura confezionata, bibite gassate e concentrati di frutta della marca PANKO LON, la più nociva, che ovviamente vendeva per la maggiore. Mi buttai sul pane appena sfornato, frutta al chilo, una tavoletta di cioccolato fondente e del formaggio che incartai al banco frigo. Riposi tutto in un paio di buste e mi avviai verso le bilance. Passai, purtroppo, accanto al tavolo da cui provenivano una serie di raccapriccianti schiamazzi, emessi dai più altezzosi candidati del mio gruppo. Probabilmente ne avrei incontrati di peggiori, ma per il momento loro si erano guadagnati il primo posto nella classifica dei ragazzi da evitare. Ovviamente tra simili ci si intende, ma loro erano tutti talmente uguali da far spavento. Sembravano fatti su stampo: capelli biondi oppure bruni, magri e slanciati, occhi chiari o nocciola, vestiti che costavano quanto tutti i mobili della modesta casetta che i miei potevano permettersi. Conversavano a voce talmente alta che persino i sorveglianti del ristoro arricciavano il naso per il fastidio.

Aspettai qualche secondo che lo sportello mi riconsegnasse la tessera, e finii col fissarli accigliata. Sfortuna volle che la bionda laccata del gruppo mi cogliesse in flagrante, tentando subito di attaccar briga.

«Tu, ragazzina, cos'hai da fissare?» disse in tono di sfida.
Presi la tessera, soffermandomi sulla sua espressione accigliata solo per qualche istante.

«Niente, osservo solo dei ragazzi benestanti che ingurgitano cibo spazzatura.» Sospirai esasperata, poco prima che la porta automatica si spalancasse con un metallico click.

La ragazza andò su tutte le furie, sembrava volermi incenerire con lo sguardo. Forse rispose a tono — con tutta probabilità lo fece — in ogni caso non aspettai di sentire nuovamente la sua voce. Mi avviai spedita verso il parcheggio che ospitava il nostro imponente pulmino, lasciando che sbollisse la sua ira lontano dalla mia vista.

Una volta accomodata all'interno — ormai abbastanza affamata — iniziai a prepararmi un delizioso panino al formaggio, riflettendo su quei ragazzi. "La brama di potere è la rovina dell'animo umano e, inevitabilmente, anche quella del nostro Stato", questa era la prima cosa che ci veniva insegnata a scuola. Non era azzardato ipotizzare che candidati di quel genere — avendo sempre vissuto uno stile di vita permissivo, spesso privo di misura e poco altruista — una volta saliti al trono, sarebbero diventati quello che un tempo definivano un despota.

Dopo la creazione dello Stato di Phērœs simili atteggiamenti non erano più tollerati sull'isola, per questo il trono non veniva assegnato per ricchezza, ma i candidati venivano sottoposti a dure prove. Solo coloro che le superavano tutte ed erano ritenuti degni accedevano alla vera Elezione. E solo dopo la Votazione Popolare avveniva l'Ascensione, l'evento con la quale i Rappresentanti passavano il loro titolo ai nuovi eletti.

Guadagnarsi il potere sottomettendosi alla legge aveva un effetto benefico sui partecipanti, e di conseguenza sul modo di governare dei vincitori. Almeno questo era quello che i libri di testo affermavano ormai da intere generazioni.

Mancavano ancora parecchi minuti alla partenza e nessuno a parte me sembrava essere risalito a bordo. Decisi di cogliere l'occasione per iniziare subito il pasto, comodamente adagiata sul sedile. Addentai con un primo famelico morso il panino e, quasi all'istante, spuntò da alcuni sedili più avanti un ciuffo rossastro. Riconobbi la posizione del sedile: era il ragazzo che continuava a fissarmi. Sperai che gli fosse passata la voglia di puntarmi inutilmente.

Non si girò, benché sembrasse essersi accorto di me. Decisi di ignorarlo e continuai a ruminare il meno rumorosamente possibile per non istigarlo. Nonostante le mie premure, dopo una mattinata di occhiate maligne lanciate senza un motivo apparente, decise di parlarmi mettendo assieme poche parole. Naturalmente furono tutt'altro che amichevoli.

«Possibile che dopo tutte quelle ore passate a fissarmi tu non abbia la minima idea di chi io sia?» asserì con una nota di disappunto. Alla sua affermazione, presa del tutto alla sprovvista, il boccone mi andò di traverso e iniziai a tossire.

«Di cosa stai parlando?» gracchiai con voce rauca. Avevo gli occhi ancora arrossati per lo sforzo.

«Ehvena Johns, tu sei davvero—» non capii il resto, perché una sottospecie di mandria umana iniziò a salire sul pulmino, facendo talmente tanto baccano che persino il veicolo iniziò a tremare. Rimasi però interdetta da ciò che disse. Come conosceva il mio nome?

Il ragazzo si girò per qualche secondo, mostrando un piccolo e poco rassicurante sorriso che mi lasciò ancora più perplessa. Sicuramente stava ridendo della mia espressione inebetita.

Iniziarono a passarmi accanto un mucchio di persone, tra cui la biondina con cui avevo vagamente conversato. Cercai di ripescare nuovamente il sedile del ragazzo attraverso l'orda di individui, ma senza successo.

«Ehm... Scusa, posso?» disse una voce, mentre un picchiettare frenetico sulla mia spalla sinistra mi distoglieva dall'accurata ricerca.

«Cosa?» Alzai lo sguardo spazientita.

«Quello è il mio posto, posso?»

Era un ragazzo, alto e dal fisico asciutto. Aveva la pelle olivastra, che risaltava i capelli biondastri. Mise in mostra uno splendido sorriso che illuminò ancor di più gli occhi azzurri, maculati da scaglie simili agli zaffiri.
Cercai di non farmi incantare.

«Ehm, ricordo perfettamente che qui c'era una ragazza minuta dai capelli neri. A meno che tu non ti sia trasformato nel bagno delle donne, non credo che questo sia il tuo posto» rimarcai senza pensarci due volte, serrando ancor di più con le gambe il poco spazio che permetteva l'accesso al sedile accanto al mio. Certo, a volte ero stordita, ma scambiare una ragazza per un ragazzo era troppo persino per me.

Lui rise, poggiando un braccio sul porta bagagli al di sopra del sedile, scostandosi per far passare i ragazzi che erano bloccati dietro di lui.

«No, infatti prima non c'ero seduto io. La ragazza in questione, come puoi vedere, ha trovato una nuova compagna di posto, lasciando me a vagare senza una meta.» Indicò una testolina nera, che si distingueva appena dai sedili in pelle, seduta sul fondo del pulmino.

«Oh. Allora se proprio devi, siediti»
Ritirai svogliatamente le gambe.

«Ma che magnanima» aggiunse schernendomi, poco prima di accomodarsi. Fortuna che i bagagli erano tutti nell'apposito scompartimento, altrimenti lo spazio a disposizione sarebbe diminuito in maniera preoccupante.

«E così, Signorina caritatevole che ringrazio profondamente per non avermi lasciato in piedi come un lampione, con il rischio di schiantarmi numerose volte sul pavimento di questo trabiccolo, qual è il tuo nome?» chiese tutto d'un fiato, allungando una mano che teoricamente avrei dovuto stringere.

«Ehvena Johns, e lei Signor Parlo-Troppo-E-Disturbo-Il-Pranzo-Altrui-Con-Inutili-Chiacchiere, come si chiama?» risposi imitando la sua voce, lasciando a mezz'aria la mano che mi offrì. Il mio atteggiamento scostante non sembrava averlo scoraggiato, anzi, ebbe l'effetto opposto. Misi da parte il panino, ormai incapace di terminarlo.

«William Born. Devo ammettere che lei ci sa fare quanto me con le chiacchiere, Signorina Johns». Il suo tono era ridicolo, enfatizzato appositamente per sdrammatizzare. Lo apprezzai molto, essendo quello il primo tentativo della giornata di fraternizzare in maniera amichevole da parte di qualche sconosciuto. Perciò gli concessi un piccolo sorriso.

Scoprii ben presto che quel ragazzo, William Born, era un tipo eccezionalmente loquace. Parlava a ruota libera senza mai curarsi dell'interlocutore. La maggior parte delle cose che diceva erano insensate, scherzava su tutto e tutti, sorrideva ininterrottamente e cercava in tutti i modi di coinvolgermi. Ma forse erano proprio quei suoi modi di fare a renderlo quasi simpatico ai miei occhi. Nonostante il fastidio e il mio disinteresse verso le sue chiacchiere, decisi di assecondarlo. In sua compagnia il tempo scorreva più velocemente.

«Ehvena, lo conosci?» chiese improvvisamente, interrompendo il suo bizzarro monologo. Indicò il sedile su cui sedeva il misterioso ragazzo che, ancora una volta, mi fissava con sguardo cupo.

«No. Almeno credo. In realtà non ne sono più così certa...» dissi suscitando la curiosità di William, a cui però non feci molto caso.

Il biondino riprese a parlare ininterrottamente, ma la sua voce divenne solo un ronzio di sottofondo: la mia attenzione era ancora una volta riposta su quel ragazzo che, per quanto continuassi a sforzarmi, sembravo proprio non riconoscere.

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