Novella IV
Don Fefè Caruso, "pluridecorato" boss di Cosa Nostra, scopre che la figlia Carmelina se la spassa con un carabiniere e, fuori di sé, decide che la vendetta va servita su un piatto freddo. Sì, ma di buon sushi.
***
«Se la compagine non ha nulla in contrario introdurremo un ospite speciale in taverna per la prossima novella» disse Thesmo, poeta maledetto da Dio e dagli uomini. «Ha vissuto la storia che ci narrerà in prima persona, per cui nessuno meglio di lui può renderne conto» dichiarò con ghigno infido.
«E chi sarebbe questo special guest?» inquisì il Baffo sollevando il sopracciglio destro.
«Trattasi del signor Carmine Lauricella, detto Luogo» ribattè Stefano, che fortunatamente godeva di molta più credibilità in Taverna.
«Luogo? E perché questo strano pseudonimo?» chiese Delia.
«Semplice: era il luogotenente di don Fefè Caruso, uno dei più influenti boss di Cosa Nostra, ma la parola era troppo lunga, come pure il cognome. Di Carmine, poi, ce n'erano sei in tutta la cricca. Quindi divenne Luogo per tutti...» .
«E sia, che entri pure», fece Sally, «La mia taverna è aperta a tutti. Mettetevi comodi e bevete qualcosa, intanto che il nostro novellante d'eccezione fa il suo ingresso».
Fra i tavoli serpeggiò all'istante un trepido silenzio d'attesa. Entrò un uomo di media statura, capelli grigi, poteva essere sulla sessantina. Portava al collo un catenone d'oro che si intravedeva dal colletto slacciato della camicia. Prese posto al tavolo che era stato approntato per lui. Aveva occhiali scuri, li levò e iniziò il suo racconto...
Buonasera a tutti. Non faccio le presentazioni, perché mi pare di essere già stato introdotto. Quindi, se a lor signori non è troppo disturbo, racconterò direttamente la storia dello stimato boss don Fernando Caruso, detto Fefè, e di sua figlia Carmelina.
Dovete sapere, innanzitutto, che don Fefè portò la sua "picciridda" nel cuore come pochi padri fanno con una figlia. Non gli fece mai mancare niente e cercò sempre di tenerla fuori dai suoi affari. Il clan Caruso aveva base a Palermo e afferiva al mandamento di San Lorenzo, perciò il campo d'azione di don Fernando era principalmente la Sicilia, ma aveva il suo da fare anche a Roma, Napoli e perfino al nord, a Milano. Dopo aver fatto tutta la gavetta, da semplice picciotto a boss, si credeva ormai arrivato. Aveva il rispetto di tutti, amici e nemici. Rispetto che, inutile dirlo, era assolutamente meritato. Il suo unico punto debole era proprio Carmelina, specialmente dopo che un brutto male si era portato via la moglie Rosa in pochi mesi.
Carmelina era sempre stata brava a scuola, la prima della classe, e dopo aver preso la maturità con il massimo dei voti chiese al padre di iscriversi a Legge.
A Don Fefè l'idea non dispiaceva, ché un legale in famiglia poteva sempre fare comodo, anche se non gli mancavano certo avvocaticchi e azzeccagarbugli vari per stare dietro alle sue cose. Per sua tranquillità ordinò alla figlia di spostarsi a Roma, dove possedeva un bell'appartamento in un palazzo storico ai Parioli. Così Melina si stabilì nella capitale, ma usando una falsa identità per evitare problemi; casa sua, oltretutto, era vicinissima all'università e il suo vero nome, Carmelina Caruso, era solo sul libretto universitario. Per i condomini e il portiere del palazzo dove abitava era "Elettra Ferrari".
Bisogna dire, e lo diciamo subito, che la ragazza era anche bella come poche. Capelli lunghi e scuri, occhi verdi, un seno che sembrava marmo di Carrara e un fondoschiena che gli mancava solo la parola. In molti le avevano già ronzato attorno, pochi avevano osato avvicinarsi troppo però. Il timore di don Fefè scoraggiava tutti.
Padre e figlia si sentivano una volta alla settimana su cellulari sicuri. Carmelina sapeva bene degli affari del papà, perciò gli aveva chiesto di rimanerne fuori almeno fino alla laurea. Eppure, signori miei, come si dice? " Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi " . Non so come successe, ma sta di fatto che un bel giorno il sostituto procuratore del Tribunale di Roma trovò sulla sua scrivania un fascicolo con sopra scritto: " FERRARI ELETTRA alias CARUSO CARMELINA ".
Il magistrato ordinò immediatamente che la ragazza fosse sorvegliata, voleva scoprire i movimenti del padre o di qualcuno dei suoi soci naturalmente.
Dopo parecchi mesi in cui a pedinarla fu una coppia di carabinieri, qualche volta uomini altre volte donne, per non dare nell'occhio, la scarsità di fondi del Ministero obbligò il magistrato a lasciare un solo addetto per turno alla sorveglianza e, sempre per lo stesso motivo, alla fine furono solo due i carabinieri che si alternarono.
Il più anziano era un appuntato quarantenne, con moglie e tre figli, che passava senza alcun problema i turni di sorveglianza più lunghi e pesanti al giovane collega; tale Esposito Ciro di Torre Annunziata, celibe.
Ciro aveva 25 anni, tre in più di Melina, sorvegliava una donna che era fiore di rarissimo splendore e, come forse potrete immaginare, a un certo punto pensò che fosse meglio sorvegliarla un po' più da vicino. Ve la faccio breve; la serpe trovò il modo di farsi presentare a lei da qualcuno, iniziò a frequentarla e tanto fece che alla fine la ragazza cadde nella rete e, non si capisce come, se ne innamorò. Da parte sua la detta serpe fu perlomeno sincera, bisogna ammetterlo, infatti Melina seppe quasi subito con chi aveva a che fare, venendo presto a conoscenza anche del fatto che la stavano sorvegliando. Eppure ignobilmente quella storia continuò.
I due seguitarono a vedersi, i primi tempi frequentavano spesso e volentieri la Cantera, il più famoso ristorante giapponese dei Parioli, poi, quando lei seppe la verità su di lui, cominciarono a incontrarsi di nascosto e a un certo punto progettarono perfino di scappare via insieme il più lontano possibile. La ragazza sapeva bene che suo padre non avrebbe mai approvato quella relazione e che se poco poco avesse annusato qualcosa sarebbero stati guai MOLTO grossi. Ma quando Melina iniziò a fare questi pensieri, in realtà, era già troppo tardi e se avrete la pazienza di ascoltarmi ancora qualche minuto, capirete perché.
Ci andavano a cena almeno due volte la settimana alla Cantera, Ciro e Carmelina. Lei amava follemente il sushi e insegnò ad apprezzarlo anche quel bamboccio di uno sbirro, che prima di allora non aveva neanche idea di cosa fosse. Gli insegnò ad apprezzare molte altre cose a dire il vero, visto che oltre al sushi i piccioncini se la spassavano alla grande, il più delle volte a casa di lei. Quando dico che "se la spassavano" avrete certo capito di cosa parlo: lei era tanto bella quanto focosa, una vera leonessa a letto. D'altronde, come detto, il nome di suo padre scoraggiava i più, indi per cui la ragazza aveva avuto raramente modo di "sfogarsi", diciamo così. Lui, invece, era come imbambolato, quasi non si capacitava della fortuna che gli era capitata. E lo credo bene! Un'altra occasione del genere non sarebbe ricapitata neanche in mille anni a un insulso fusto di liquame come quello! Forse vi chiederete come faccia io a conoscere certi particolari, dal momento che avvenivano al chiuso di un appartamento, giusto? Ebbene, non credo vi sorprenderà sapere che don Fernando là dentro aveva fatto installare precauzionalmente un sistema di videocamere nascoste da far invidia al caveau della Banca d'Italia. Il boss aveva occhi ovunque. Non ebbe modo di sapere all'istante cosa accadeva, né chi era l'uomo che sua figlia si portava a letto con così tanto gusto, solo perché gli addetti alla video sorveglianza vollero godersi lo spettacolo per qualche tempo prima di allertarlo, ma appena ne venne al corrente, da persona relativamente calma come si mostrava di solito, divenne una bestia. Inizialmente disse che avrebbe ammazzato con le sue mani entrambi, poi ci penso meglio, «No. Melina deve vivere per ricordare», disse. Salì seduta stante sul suo jet privato e, giunto a Roma, ordinò immediatamente ai suoi due uomini migliori di cercare quel topo di fogna e sbarazzarsene nel modo che fosse più doloroso possibile. Uno dei due a cui fu dato quell'ordine era con grande soddisfazione il sottoscritto.
Io e Sasà, il mio collega più fidato, ci mettemmo subito all'opera e la sera stessa beccammo quel Casanova da quattro soldi.
Se ne stava nei pressi di di San Basilio, beatamente appoggiato al tettuccio della volante, il minchione, a guardare le papere. Evidentemente non si era ancora ripreso dalle notti di fuoco con Melina. Il suo collega era andato a dare due scoppole a uno che spacciava hashish un centinaio di metri più in là, ma al ritorno il suo compare non lo avrebbe più trovato. Sasà si approfittò del buio per prenderlo alle spalle, gli dette una botta in testa e lo trascinò mezzo morto nella macchina. Dietro era seduto don Fefè, voleva vederlo morto ammazzato con i suoi occhi quel bastardo infame. Lo portammo fuori città, in una vecchia rimessa, ma non gli sparammo subito in faccia, no; prima doveva sputare sangue.
«Figghiu e bottana, quanto ti sei divertito a fotterti mia figlia, eh? Ora è il turno mio!» fece don Fernando stampandogli il calcio della pistola nella tempia.
Le sue disposizioni erano molto chiare, bisognava privarlo di ciò che aveva usato per disonorare Carmelina e, credetemi su Dio, furono queste stesse mani a strapparglielo. Quella merda non lo meritava il fiore delicato che si era preso. Sasà non fece neanche in tempo a sparargli che era già morto dissanguato.
Quello che successe dopo, però, non me lo sarei mai aspettato neanche io e forse i qui presenti non ci crederanno. Don Fefè fece in modo (e di quanto sto per dire vi chiedo perdono) che l'uccello appena amputato di quella nullità venisse recapitato alla figlia sul suo piatto preferito. Lo fece adagiare su un bel vassoio di sushi, tra un trancio di salmone e uno di tonno pregiatissimo. Era furioso, cosa comprensibile, ma lì si lasciò prendere davvero la mano. "Questo il dispiacere che hai dato a me per il tuo piacere" fu il messaggio che portarono a Melina insieme al pasto. Io non la vidi quel giorno e magari avessi potuto. Quello che accadde ebbi modo di apprenderlo solo più tardi, dalle registrazioni delle videocamere nascoste. Carmelina non versò neanche una lacrima, il suo bellissimo viso sembrava più fermo della pietra. Si avvicinò furtivamente a Caliddru, che poco prima gli aveva recapitato cena e messaggio ed era rimasto lì a tenerla (si fa per dire) sottocchio, gli sfilò la pistola e gliela puntò dritta in testa, minacciando che se non gli avesse detto in che modo suo padre aveva saputo tutto gli avrebbe sparato all'istante. Cal confessò tutto quello che sapeva, oltre a pisciarsi nei pantaloni.
«Dove sono? Dove sono nascoste?! Dimmelo o ti rifaccio il buco delle orecchie, così poi ci senti meglio» urlò Melina fuori di sé.
Caliddru non sapeva di preciso dove fossero, si ricordava solo di aver sentito dire a qualcuno che il boss ne aveva fatto mettere una perfino in bagno, dietro allo specchio. Ma quell'informazione non bastò a salvargli la pelle, Melina gli sparò a bruciapelo comunque. Dopodiché prese la pietanza fatta preparare dal padre, si diresse in bagno e rivolta verso lo specchio sopra il lavabo, pronunciò queste parole, che non ho più scordato e che non scorderò mai nella mia vita:
«Se fu il mio piacere ad offenderti, forse non mi hai mai voluto così bene come facevi credere. Non ti avrei mai creduto capace di fare una cosa simile a tua figlia. Dicesti sempre che al mondo ci sono tre tipi di persone: uomini, ominicchi e quaquaraquà. Questo dimostra senza dubbio che la tua è l'ultima categoria. Nonostante questo ti ringrazio, perché di 'stu pisci non sarebbe degna neanche una regina. E ancora meno chi si è preso il disturbo di farmelo preparare». Dopodiché mangiò per intero il sushi, prese ciò che rimaneva del suo amante, lo strinse al petto, lo baciò, e si sparò in bocca con la pistola di Caliddru.
Don Fernando assistette in diretta a quella scena straziante, urlò e pianse come un bambino. In breve cadde in una disperazione profonda e in poco tempo il castello che aveva tirato su con le sue mani, mattone per mattone, crollò.
Finì prima in galera, poi in un ospedale psichiatrico e non si riprese mai più dalla morte della figlia. Proprio come me, che ho segretamente amato quella ragazza dal primo giorno che la vidi e presi la decisione di stare dietro al padre per esser più vicino a lei.
Nel pronunciare quelle ultime parole qualcuno notò una lacrima bagnare il volto austero di quell'uomo. Inforcò nuovamente gli occhiali e nel farlo per un attimo l'oro del vistoso anello che portava sul mignolo della mano sinistra scintillò. Poi si alzò e, così com'era entrato, si diresse con estrema calma verso l'uscita, nel silenzio generale.
(Novella scritta da StefanoRuzzini e Thesmo )
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro