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Capitolo 8-Acqua, Aria, Terra

La stazione di polizia giaceva immobile sotto la luce della luna, riflettendo i Led della veranda sull'asfalto rovinato e bagnato.
Vince vi si avvicinò con foga, annaspando tra i dislivelli che aveva creato sul terreno il sottile manto di terriccio ed erba.
Camminava deciso e al contempo confuso, sentendo addosso un'energia malata che sapeva lo avrebbe presto abbandonato per far spazio alla stanchezza che aveva respinto fino ad allora.
Arrivò davanti alla porta e sbatté contro il vetro senza forse rendersene nemmeno conto, tastando la superficie in cerca della maniglia.
Un agente che stava leggendo il giornale, seduto con i talloni poggiati sul bordo della scrivania.
Lo notò da dentro l'edificio, alzandosi con disinteresse e dirigendosi verso di lui.

«In cosa posso aiutarla?» chiese, sistemandosi le bretelle dei pantaloni.

«Una donna, la donna... lei lo ha ammazzato. Gli ha tagliato la gola davanti a me, deve arrestarla, deve arrestarla insieme a quell'altro, al... al sindaco!» Vince gesticolava, in totale panico, avanzando lungo il suo insensato monologo con rabbia e terrore.
Parlò a ruota libera per diversi secondi, poi si fermò, accorgendosi che il poliziotto lo guardava tranquillo, forse nemmeno ascoltandolo veramente.
«Mi... mi sta seguendo, vero? Erano alla festa, loro-»

«Ah!» esclamò l'agente, e i suoi occhi si illuminarono come se di scatto avesse capito tutto, «ma lei sta parlando della fortuna adversa! Mi dispiace non esserci potuto essere per la caccia» scosse il capo, dispiaciuto, «ma dimmi, come lo ha ucciso, eh? Sono certo che abbia fatto un lavoro immacolato, è sempre così» aggiunse, sognante, parlando di Emeline con un'intensa ammirazione.

Vince rimase immobile, la bocca dischiusa in un'espressione indecifrabile.
Nei suoi occhi volteggiavano la sorpresa, la paura e forse anche la delusione più cocenti.
«Lei gli ha... tagliato la gola.» Riuscì solo a dire, per rispondere alla domanda dell'uomo.

A quel punto lui sorrise sornione, «lo sapevo» sussurrò, poi aprì la porta gridando:
«Ehi, Mark! Gli ha tagliato la gola, come cinque anni fa! Mi devi venti dollari» poi prese a sghignazzare, mentre l'altro agente lasciava andare le braccia in un movimento di stizza.

«Quindi, tornando a noi, qual era il tuo problema?» domandò poi l'uomo, guardando Vince con un cipiglio quasi paterno.

Lui iniziò a indietreggiare inconsciamente, scuotendo la testa in impercettibili movimenti, «niente... niente. Buona serata.»

Rimasero a fissarsi per qualche attimo, nel silenzio di quella sera troppo mite per essere Novembre, con solo il gracchio dei corvi a far vibrare i rami degli alberi vicini.

«Va bene. Allora buona serata anche a te.»
Il poliziotto lo guardò ancora una frazione di secondo, mantenendo quel sorriso contorno stampato in viso.

E una domanda prese a vorticare nella mente di Vince, appena l'uomo varcò la porta della centrale.
Di chi poteva veramente fidarsi?

Osservava il filo di quel vecchio telefono, osservava come fosse stato reciso con precisione.
Se n'era accorto quando, appena entrato nella sua stanza d'hotel, aveva tentato invano di chiamare il 911.
Rimase a guardare la cornetta, mentre una rabbia sempre più potente si stava insinuando dentro di lui, man mano che realizzava quanto fosse spessa la gabbia in cui era rinchiuso al momento.
Il bussare discreto proveniente dalla porta lo distrasse da quello scrosciante flusso di pensieri.
Davanti all'uscio, immobile e dritta, c'era una cameriera dai capelli scuri e raccolti.

«Un biglietto per lei, signor Eggers.» Gli porse, appoggiato su un piccolo vassoio d'argento luccicante, un piccolo biglietto candido.
Vince, davanti a quella scena assurda, pensò che sarebbe scoppiato a ridere.
Risa isteriche e disperate.
Ma non rise, non fece nulla se non prendere quel foglio di carta e iniziare a leggere.

"Caro Vince, saremmo lieti di invitarti per una cena informale, stasera"
Lesse le prime righe e iniziò subito a preoccuparsi.
Emeline lo invitava per una cena informale.

«La signora ci tiene a dirle che dovrà farsi trovare nella hall dell'hotel alle otto in punto.» La cameriera nascose il vassoio sotto il braccio, prima di congedarsi con un cenno della testa, scomparendo nella cupa oscurità del corridoio.

«Lei è il signor Eggers?» Un uomo dal completo elegante gli si avvicinò, quella sera, alle otto in punto.
E all'annuire di Vince sorrise e gli disse di seguirlo verso la vettura.
Gli mostrò il modello di Ford T Touring parcheggiata davanti all'hotel, poi aprì la portiera per lui, e Vince realizzò che quello fosse l'autista che Emeline aveva mandato per lui.
Ancora una volta credette di cedere a un attacco di risa inconsapevoli.

«Vince! Sono felice che tu abbia accettato l'invito!» Emeline scese gli scalini di marmo con eleganza.
La seta fluida e bianca del suo abito da sera le danzava addosso insieme al vento, mentre una miriade di piccoli fiori di gelsomino, rampicanti per tutta la facciata di quell'immensa villa, facevano da sognante sfondo alla sua figura.

Camminò per tutto il vialetto di granito, sorridente, mentre indossava sulle spalle, con noncuranza, una stola decorata.
«Vieni, entra, ti stiamo aspettando per iniziare a cenare.» Gli sfiorò la giacca prima di voltarsi di scatto e dirigersi verso l'immensa vetrata dell'uscio.

Vince osservò in silenzio l'ambiente che aveva attorno.
Vide come fosse maniacalmente curato il prato, come la villa sembrasse illuminata dalle sfumature più belle e delicate di giallo, come i fiori fossero ugualmente sbocciati.
Come tutto fosse quieto, troppo quieto.
Troppo perfetto.

«Prego, vieni da questa parte» annunciò Emeline, muovendosi nello spazio ampio e cupo di quel salone immenso con disinvoltura, come se conoscesse ogni piccolo angolo dell'edificio.
Vince alzò il volto al cielo, incontrando il soffitto vertiginoso e affrescato, talmente alto da mettere addosso uno strano senso di vuoto.
Guardò con più attenzione l'affresco che giaceva al centro, quello dai colori più accesi e meglio conservati.
Tre erano i simboli rappresentati, tutti e tre con una vividezza e un realismo tali che mettevano quasi soggezione.

«La triade alchemica. Mercurio, zolfo, sale. O se preferisci acqua, aria e terra.» Emeline gli si avvicinò, le braccia incrociate, un sorriso sghembo e affascinato ad incurvarle le labbra esangui.

«Alchimia» concluse Vince.
Aveva sempre odiato la chimica e la scienza in generale.
Ma osservando quei simboli dipinti così perfettamente sentì uno strano brivido scorrergli lungo la spina dorsale.
Era come se qualcosa dentro di lui sentisse di appartenere a quelle figure stilizzate da molto tempo.
Emeline gli scoccò un'occhiata di sottecchi e il sorriso che aveva dipinto in volto sembrò accendersi ancora di più.

«Allora, andiamo,» esclamò all'improvviso, avvicinandosi e lasciando una sottile scia di profumo al gelsomino dietro di lei, «Theodore ci sta aspettando.»

«Vince, è un piacere averti con noi» Evander si alzò sistemandosi lo smoking, per poi stringere la mano all'altro, sorridendo smagliante e guardandolo con quei suoi occhi gelidi e incolori.
«Vieni, siediti pure,» disse, ma quando Vince fece per sedersi a capotavola Theodore lo fermò, cortesemente, «oh, no, non a capotavola.» Aggiunse, per poi lasciare che vi ci sedesse Emeline, che aveva osservato la scena in religioso silenzio.

Si sedettero tutti, nella quiete più totale.
Davanti a loro i piatti già colmi di cibo e lungo il tavolo, come una scia, vassoi su vassoi di contorni che Vince fece fatica a riconoscere tanto erano elaborati.
Non c'era nessuno insieme a loro, nemmeno un cameriere.
Vince si chiese chi avesse cucinato quella quantità esagerata di cibo, poi, complice quell'irreale silenzio, la sua mente si mise a viaggiare, iniziando a pensare a ciò che aveva come dimenticato per tutto quel tempo.
Era a cena con due assassini, in una casa immensa in cui avrebbero benissimo potuto ucciderlo.
E la cosa più bella era che c'era andato di sua spontanea volontà.
A volte gli sembrava di non agire come avrebbe voluto.
O dovuto.
Quando aveva ricevuto quel biglietto, l'idea di rifiutare non gli era nemmeno passata per la testa, come se andare fosse stata la cosa più naturale.
L'unica scelta.

Quando tornò alla realtà sfuggendo a quella miriade di pensieri, si accorse con angoscia di un nuovo, assurdo particolare.
Nessuno aveva detto una parola da quando avevano iniziato a cenare.

Né una domanda, né una frase di cortesia.

Solo il più puro e inquietante silenzio.
E sembrava che andasse benissimo così.

Ogni tanto Emeline ed Evander si lanciavano qualche strana occhiata, ma nulla di più.

Mi ammazzano, pensò Vince in un momento di lucidità, ora mi ammazzano.

L'unico suono percepibile era il tintinnare delle posate e l'acqua che veniva continuamente versata nel bicchiere da Evander, suoni che rimbombavano in eterno in quella stanza elegante e vuota.

«Emeline, ti andrebbe di mettere un disco?»
Quell'incantesimo silenzioso venne infranto dalla voce di Evander, che sembrava sempre avere un tono mellifluo.
Vince alzò il volto, allarmato, mentre Emeline sorrideva, alzandosi e dirigendosi verso il grammofono.

I'll never smile again
Until I smile at you.

«I'll never simile again» esclamò Theodore, «ventitré aprile 1940» continuò, alludendo alla data di uscita del brano, «la mia data di nascita. Che cosa meravigliosa condividere il compleanno con una canzone così bella, vero?»
Vince lo osservò parlare con così tanta nostalgia.

I'll never laugh again
What good would it do

Sentiva che qualcosa non andava nel suo discorso.

«È una delle mie preferite» Assentì Emeline.

For tears would fill my eyes
My heart would realize
That our romance is true

Ecco cosa non andava.
Evander era troppo, troppo giovane per essere nato nel quaranta.
Non poteva avere più di venti, venticinque anni.
Era impossibile.

«Vince invece credo apprezzi generi più... moderni?» domandò Theodore, sporgendosi verso Vince, seduto di fronte a lui.
Si portò appresso la stessa sottile e persistente fragranza di gelsomino.

«Sì, a lui piacciono i Queen.» Emeline scoppiò in una breve risata, che venne seguita dal disappunto di Evander.
«Mai sentiti.»

«È perché sei a Fostemoon da troppo tempo, Theo.» Gli spiegò Emeline e sembrò quasi amorevole nel parlargli, mentre lo osservava divertita e nel suo sguardo danzavano infinite sensazioni.

«Giusto. In questa città si ha sempre l'impressione di star perdendo la cognizione del tempo» assentì lui, racchiudendo la mano dell'altra nella sua.

Rimasero in silenzio per altri immutabili secondi, mentre Emeline guardava i quadri che tappezzavano la parete di fronte a lei ed Evander teneva lo sguardo fisso sul suo calice colmo d'acqua.

«Non sentite freddo?» chiese all'improvviso Emeline, alzandosi e andando a ispezionare ognuna delle grandi finestre dai vetri colorati che decoravano la sala.
Appoggiò una mano sulla superficie di una in particolare, annuendo, «sono gli spifferi. È il vento di fuori.»

«Io sto bene» mormorò Vince, incerto, millimetrando ogni parola come se dovesse camminare su gusci di uova senza romperli. Poi diede un'occhiata fugace al comodino vicino alla finestra.
Le tende pallide danzavano appena, ondeggiando come onde spettrali, coprendo il mobile.
Da dietro quel manto sottile Vince riconobbe delle cornice e delle foto scure di persone.
«Chi sono?» chiese, quasi inconsciamente.

Emeline e Theodore si guardarono per qualche attimo, sorpresi, forse increduli, mentre le loro sopracciglia si incurvavano in un'espressione estremamente divertita.
Scoppiarono a ridere nello stesso momento, sciogliendosi in risa irrefrenabili, agghiaccianti e al contempo accattivanti.
Se la follia avesse avuto un suono, Vince lo avrebbe di certo associato a quella risata.

«Vince, è incredibile come tu non cambi mai» esclamò Emeline, scostandosi con un dito la lacrima che aveva preso a crearsi all'angolo del suo occhio limpido e chiaro.

«Davvero, davvero incredibile!» gli fece eco Evander, sorridendo e osservando il soffitto con incredulità.

«Oh, guarda,» Emeline cercò di riprendersi da quell'ondata di risa, «è arrivato il secondo.» indicò i piatti, il cui contenuto era drasticamente cambiato in qualche attimo, come una magia che ha di certo qualche trucco segreto. Ma quella volta non sembra è esserci nessuna spiegazione razionale.

«L'ho fatto fare apposta per te, questo omelette.»

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