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Capitolo 11- Per favore, versa altro sangue

Davanti a lui una chiesa sommersa di rampicanti.
Una schiera di lisci ciottoli portava all'entrata.
Vince si avvicinò, osservando quell'edificio dall'aurea maestosa nella sua decadenza, rasserenante nonostante lo strano e diroccato aspetto. Dei led arancioni andavano a illuminare i contorni della chiesa, e un'insegna al neon brillava al centro della facciata.

"Club della Triade"

Dal nome può benissimo essere un incrocio tra una setta pagana e un club della trapunta, pensò.

Percorse il viale mentre sentiva i sassolini di granito balzargli sotto i piedi.
Si avvicinò all'entrata incerto, riluttante, come se una parte di lui esitasse ad entrare e l'altra lo volesse ardentemente.

La curiosità ebbe la meglio quando si accostò alla grande porta d'entrata e sentì una musica ritmata e una voce maschile parlare a voce alta, concitata.
Spinse una delle ante ed entrò, come facendo un salto nel buio, ignaro di cosa potesse esserci oltre le mura di quella chiesa sconsacrata.

«Perché il tre è il numero perfetto? La scuola pitagorica afferma che lo sia in quanto sintesi di un numero pari come il due e di un dispari come l'uno.
I cristiani controbattono credendo che sia la trinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Ma per noi di Fostemoon rappresenta qualcosa di molto più potente e incomprensibile, che va oltre la matematica, va oltre la religione. Perchè la nostra triade è figlia di un'arte raffinata, che non può essere chiamata scienza e nemmeno fede, che oltrepassa queste barriere imposte dall'uomo. Ed è per questo che è perfetta. Veramente perfetta.»
Era un uomo a parlare, vestito di bianco, seduto sulla poltrona posta al centro di quella chiesa che non aveva nulla di sacro.

Il pavimento coperto di moquette bordeux, le lampade soffuse, le chaise lougue di velluto e l'atmosfera patinata la facevano sembrare più simile a un salotto elegante.

C'era molta gente.
Donne, uomini, tutti vestiti con abiti pregiati, in un turbinio di gioielli scintillanti e completi perfettamente stirati.

«Acqua, aria, terra. Primus, Creatrix e Hostia. Il Sindaco, la Creatrice, la Vittima. La triade alchemica di Fostemoon resiste e si rafforza di generazione in generazione, di ventennio in ventennio. E quest'anno, grazie al nuovo sacrificio, la nostra città potrà risplendere ancora di più, consolidandosi ancora una volta.»

Vince li vide seduti su una delle chaise lougue. Emeline e Theodore stavano vicini, uno contro la spalla dell'altro.
Sembravano annoiati, o forse fingevano solo di esserlo.
Vestivano abiti candidi ed entrambi portavano davanti al viso un velo sottile e latteo.

«E dobbiamo ringraziare,» continuò l'oratore, in cui Vince riconobbe il presentatore delle estrazioni, «di poter fare parte di un pezzo di mondo così immacolato e sapiente come lo è Fostemoon. Dobbiamo ringraziare di non essere dall'altra parte, e di poter sfruttare la vita nella maniera migliore, senza arrendersi inermi alla morte, ma riuscendo a trovare la vera via per vivere la vita che spetta agli uomini come noi.»
Sorrise, guardando il pubblico annuire tra un sorso di champagne e l'altro, «quindi abbracciamo la determinazione, abbracciamo la società in cui viviamo prendendone il meglio e soprattutto abbracciamo il passato, per un quieto futuro.»
Concluse lasciando che tutti ripetessero le sue ultime parole, e Vince vide Theodore ed Emeline muovere le labbra in impercettibili movimenti, ripetendo anch'essi quell'assurdo mantra.

Finito il discorso del presentatore, tutti si comportarono come se fossero a una festa piuttosto che in una chiesa, mentre riempivano bicchieri per l'ennesima volta e la musica si alzava di diversi toni. Alcuni uscivano.
Altri ballavano, come se fosse la cosa più naturale.
Come se fosse l'unica cosa giusta da fare.

«Vince!» si sentì chiamare da Theodore, che aveva tolto dal viso quel bizzarro velo e lo aveva riconosciuto tra la folla, «vieni, siediti»Lo invitò, cordiale.

«Allora, come ti sono sembrate le parole di Crosby?» chiese poi, mentre un dito scorreva con delicatezza sotto il suo occhio sinistro per bloccare il rivolo di sangue cha stava andando a crearsi.

«Di chi?» Vince si guardò intorno, disorientato dalla musica confusionaria e dal mormorio incessante di tutta quella gente.

«Del presentatore, Vince.»
Theodore lo osservò.
Ogni volta che lo guardava, i suoi occhi incolori sembravano accendersi di una fiamma ardente e curiosa.

«Ah, sì. Molto interessanti. Vorrei sapere di più sulla triade.» Voleva sopravvivere.
Era tutto ciò che chiedeva.
E aveva capito che per farlo avrebbe dovuto avere delle carte in tasca anche lui.

«Ah, bene!» disse Evander, entusiasta, per poi scoccare una strana occhiata ad Emeline, che era rimasta in silenzio, «la triade comprende le tre figure più importanti di Fostemoon. La creatrice, ovvero la nostra adorata Emeline»sorrise nel parlare, guardandola con affetto. Sentimento che fu ricambiato da lei solo in parte, come se in pubblico fosse una Emeline diversa.

«La vittima, ovvero la fortuna Adversa, e il sindaco... ovvero io» spalancò le braccia in un movimento euforico, per poi scoppiare in una melodiosa risata.

«La triade è solo uno degli infiniti e complessi meccanismi della nostra Fostemoon» aggiunse Emeline, raddrizzandosi lungo lo schienale imbottito e guardandosi intorno con insofferenza.

«Mi sto annoiando» disse poi, all'improvviso, mentre il suo volto s'incupiva, «mi sto annoiando e non posso farci nulla.»

Theodore sembrò ghiacciarsi, rimanendole accanto pietrificato.
La guardò con compassione, carezzandole la guancia, «ma no, non è vero. Vuoi andartene?»domandò, dolce, e Vince sentì chiaramente una nota di spavento nel suo tono.

Ancora una volta si trovò ad osservare quei due folli individui, ascoltando le loro folli conversazioni.
La triade, pensò. Poi collegò le parole di Emeline.

Gli stranieri sono sempre la fortuna adversa.

E se fosse sempre stato così, per loro?
Se le estrazioni fossero state solo un pretesto per uccidere sempre gli stranieri?

«Dobbiamo andare, ho molte cose da fare.»
La voce limpida e scocciata di Emeline lo fece tornare alla realtà.

Come un ordine Evander annuì, in silenzio, poi porse il braccio all'altra e si alzarono.

«Temo che dovremmo proprio andare. Mi dispiace, Vince. Sono certo che avremo un'altra occasione per parlare della nostra città.»Evander si congedò così, con uno dei suoi splendidi sorrisi e una mezza promessa.

Vince rimase immobile, seduto su quella poltrona soffice e pregiata, osservando la parete, dove i grandi simboli alchemici al neon sostituivano la croce.

Aspettò un'ora, forse due in mezzo a quella confusione, pensando come un folle a tutte le informazioni che aveva accumulato in quei giorni.

Sapeva che le tre figure erano ricoperte da Emeline, Evander e la fortuna adversa, e si era domandato molte volte se non avrebbe finito per avere il posto della Vittima.
Pensò a svariate opzioni, come fuggire, ma la parte meno scettica di lui si rese conto che nella foresta che contornava la città sarebbe potuto accadere di tutto.

Pensò alle parole di Emeline e dell'oratore.
Pensò a come avessero entrambi nominato la morte e l'alchimia, ma la sua mente non riusciva a formulare un'ipotesi così assurda.

Non possono aver creato un cazzo di elisir di lunga vita. Non sono in un un libro di Lovecraft.
Eppure una parte di lui lo insultava, ricordandogli tutte le cose che aveva visto in quel posto surreale.
L'elisir sarebbe stato addirittura normale, vista la situazione.

E intanto il tempo scorreva, i secondi si sovrapponevano come se si accavallassero uno sopra l'altro, spintonandosi, e i pensieri vorticavano nella sua mente, incapaci di fermarsi.

Arrivarono le cinque di pomeriggio, ma sembrò che fosse passata una manciata di minuti.
Vince si guardò intorno ancora una volta, osservando l'atmosfera ormai scarica, la gente seduta, immobile come se fossero parte di un quadro.

Camminava lungo quel viale alberato, dove le sottili foglie dei faggi oscillavano sotto la spinta del vento, coprendo di poco a poco le facciate delle case candide e a schiera che contornavano la via.
Tutte erano identiche, immacolate, tranne quella villa che Vince aveva imparato a conoscere.
Lì tutto era diverso, era più personale e raffinato.
Su avvicinò al cancello d'entrata, semi aperto e si domandò perché nessuno lo avesse chiuso.
Poi si diede dello stupido, pensando a chi mai avrebbe avuto il coraggio di entrare.

Osservò le luci calde provenire dalle finestre, alcune filtrate dalle tende, altre che invece illuminavano i più disparati spazi interni. Vince vide le luci soffuse di una biblioteca, vuota e immobile, e quelle accese del salone.

Poi alzò lo sguardo, colpito dai bagliori freddi che provenivano da una finestra, e rimase a fissarla, incapace di distogliere lo sguardo.
Era la sala da bagno, dove in quel momento Emeline giaceva in una vasca d'ottone colma d'acqua, mentre i capelli bagnati le ricoprivano la schiena coma tanti e sottili capillari.
Theodore le stava vicino, appoggiato al bordo della vasca, parlandole. Guardandola sognante.

Vince osservò quello spettacolo come ipnotizzato, spostando lo sguardo su uno e sull'altro, mentre li vedeva sorridere, chiacchierare e muoversi con quella tremenda eleganza che sembrava sempre avvolgerli come una stola.
Era talmente incantato che forse nemmeno si rese conto, in primo luogo, che Theodore stesse portando una teiera colma di qualcosa di scuro, qualcosa di simile al sangue, e la stesse versando lentamente nella vasca.

Quando se ne accorse Vince indietreggiò, come se l'incantesimo che lo teneva ancorato a quella finestra fosse improvvisamente svanito.

Si nascose dietro alla siepe, boccheggiante dalla paura, mentre le tempie gli pulsavano e il cuore batteva come se volesse uscire dalla cassa toracica.

Non mi hanno visto pensò, è impossibile.
Sbirciò oltre la siepe, guardandoli di nascosto, e vide che stavano parlando esattamente come prima.
Non mi hanno visto, si convinse.

«È qui davanti, vero?» chiese Theodore, mentre muoveva una mano sul bordo dell'acqua.

Emeline guardò dalla finestra.
Non c'era nessuno, ma annuì.
«Certo. Continuiamo a parlare, e, per favore, versa altro sangue.»

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