Capitolo 10- Voglio fidarmi, Emeline
«La noia... è la mia peggior nemica.
Quando mi alzo la mattina e penso che la giornata che mi aspetta sarà identica a tutte le altre mi viene la nausea.
Non si può vivere così. Non si può vivere facendo finta che questa sia tranquillità.
Non si può vivere ripetendo le stesse costanti azioni per sempre, si rischia di impazzire.
A cicli regolari qualcosa deve cambiare, o tutto finirà per marcire lentamente, invece che conservarsi come dovrebbe.» Emeline giocava con una candela, divertendosi a spegnere la fiamma con un soffio, e ricominciando il gioco riaccendendo subito dopo il fuoco.
Alzò il suo sguardo cilestrino su Vince e lui si sentì come trafiggere da mille spilli.
«Sono contenta che tu abbia accettato il mio invito, comunque» lo ringraziò con un caldo sorriso, mentre abbandonava i fiammiferi sul tavolino di metallo del gazebo e affondava nello scomodo schienale della sedia in ferro battuto.
Tutto in quel giardino sembrava irreale.
Dalla villa retrostante, totalmente silenziosa, allo stagno nel cui centro giaceva una statua di donna coperta in parte dai rampicanti, fino a passare al cinguettare dei canarini gialli che Emeline teneva chiusi in una gabbia intagliata mostrando loro, con crudeltà, un mondo a cui non potevano avere accesso.
«Avevo scelta?» Vince la guardò, infastidito e intimorito.
Quella mattina, come se la cena non fosse bastata, Emeline aveva insistito per invitarlo a prendere un tè.
Lei scoppiò a ridere e con un gesto della mano si accarezzò i capelli vermigli, «assolutamente no. Però sei stato gentile a non opporre resistenza, ti ringrazio.»
«Perché tutto questo?» Improvvisamente sentiva di non avere più nulla da perdere. Aveva paura, certo che ne aveva.
Era terrorizzato da lei, da Evander, da tutto, ma all'improvviso, senza forse nemmeno accorgersene davvero, aveva compreso che se era lì era per un motivo.
E pregare che quell'incubo finisse presto non era possibile, se ancora non aveva capito il perché di tutto quel groviglio.
Emeline sorrise, «Non mi stupisco che tu voglia sapere. Mi chiedevo quando avresti smesso di lasciarti trascinare dagli eventi come una barca arenata tra gli scogli. Anche se devo ammettere che preferivo il Vince silenzioso.
Le domande mi mettono in soggezione.»
Allora aveva ragione.
La sua visita lì era per un motivo ben preciso, forse addirittura pianificato da tempo.
Emeline si sporse verso di lui, non smettendo nemmeno per un attimo di mantenere un contatto visivo, «prima versati del tè. È delizioso.»
Vince prese la teiera, esitante, poi lasciò che quell'infuso ambrato scorresse fino a riempirgli la tazza.
«Siamo sempre stati gli stessi. Ma gli stranieri cambiano.» Iniziò lei, sfiorando la scatola dei fiammiferi, mentre una lieve brezza le faceva ondeggiare il bavero della camicetta.
«È iniziato nel 1926. L'anno in cui è morto Rodolfo Valentino.»
Davanti a quell'affermazione Vince si fece estremamente serio, ed Emeline si lasciò andare a un mezzo sorriso, come se sapesse già qualcosa di nascosto.
«Ero in cerca di qualcosa che andasse oltre. La chimica è interessante, ma non può essere paragonata all'alchimia» rise, nostalgica, «e se devo ammettere di essere curiosa di sapere cosa viene dopo la morte, non sono ancora sicura di volerlo scoprire.» Rimasero in silenzio per qualche secondo, mentre Emeline lasciava che Vince elaborasse ciò che lei aveva appena detto.
«Che cosa significa?» chiese Vince, incerto di aver compreso bene. Sembrava tutto troppo assurdo per essere la realtà.
Emeline alzò le sopracciglia in un'espressione che nascondeva un velo di superbia, «significa, Vince, che io ora avrei più di ottant'anni.»
Lui deglutì, rimanendo in silenzio.
Ottant'anni.
Credette di impazzire. Si stava solo prendendo gioco di lui? Oppure gli aveva detto la verità, ma non era pronto ad accettarla?
«All'inizio c'erano i cittadini di Fostemoon e gli stranieri» continuò lei, abbassando per un secondo lo sguardo in modo da sistemarsi le pieghe della gonna, «gli stranieri sono nostri ospiti per vent'anni. E sono sempre loro, le fortune adverse. Ma, grazie alle mie attente osservazioni, solo uno-»
«Vince, Emeline, state per caso confabulando contro di me?» Theodore si avvicinò, raggiante, sembrando apparso dal nulla.
«Stavamo prendendo un tè. Vince voleva sapere di più sull'estrazione.» Emeline sorrise a sua volta, contagiata dalla radiosità di Evander, bellissimo nei suoi abiti da golf.
«Ah, bene! Mi dispiace avervi interrotti. Emeline, volevo solo avvisarti che domani potrà esserci il prelievo.» Le appoggiò una mano sulla spalla, carezzandole la stoffa della camicetta.
«Perfetto» Emeline sorrise ancora, mentre gli occhi le scintillavano di una strana luce.
Evander si congedò con un breve cenno della testa prima di dirigersi verso la villa, lasciando la sacca da golf di pelle all'entrata.
«Avete anche un campo da golf?» domandò Vince, ironico, mentre in testa le rimbombavano le parole di Emeline:
Gli stranieri sono sempre le fortune adverse.
«Certo» lei rise, divertita, «qui a Fostemoon abbiamo tutto!»
«Manca meno di una settimana, Emeline. Come abbiamo intenzione di agire?» Theodore si arricciò le maniche della camicia, per poi incrociare le braccia, pensieroso.
«Come abbiamo sempre fatto, Theo» rispose lei, tranquilla, mentre sfogliava una rivista seduta su una delle due poltrone di cuoio dello studio di Evander.
«Non vuol dire nulla, come abbiamo sempre fatto» la rimbeccò lui, infastidito, guardandola di sottecchi.
«Come è sempre successo negli ultimi vent'anni va meglio?» domandò lei, sarcastica, lasciandosi coprire il petto dai fogli del giornale.
«Lo sai che quest'anno è diverso.»
«Certo che lo so, altrimenti non sarei qui a concederti il mio tempo» gli rinfacciò lei, forse ironica, forse seria, mentre sedeva in maniera più composta.
«Tu non mi concedi mai tempo, Birdie» rispose Evander tra lo sfacciato e il mellifluo.
«Ah, davvero?» Emeline sorrise audace, guardandolo con quella sua classica occhiata che riservava solo a lui, colma di significati nascosti.
«La triade non può essere spezzata, lo hai detto tu stessa» continuò il sindaco, ignorando le provocazioni dell'altra, mentre girava per quella stanza cupa senza destinazione.
«Infatti non verrà spezzata, se faremo come dico io. Ci sarà sempre un'Hostia, sempre un Primus, sempre una Creatrix.» Emeline si alzò stirandosi con grazia, prima di appoggiarsi alla libreria polverosa.
«E non interferirà con il siero iniziale?»
Evander sembrava scettico.
Inarcò le sopracciglia quando Emeline sorrise, scuotendo la testa e avvicinandosi.
«No. L'importante è mantenere la triade attiva, ognuno al proprio posto. Se tutti gli elementi vengono occupati da una figura, niente verrà mutato. E tu...» non finì la frase.
«Allora perché con gli altri non lo hai fatto? Perché gli altri sindaci-»
Emeline lo interruppe, «perché non erano te» disse con freddezza.
Evander annuì, rabbuiato.
Sul suo volto era steso uno spesso manto di preoccupazione che Emeline non aveva tardato a cogliere.
«Hai paura.» Non era una domanda.
Affondò il suo sguardo nel viso di lui, come se volesse guardare attraverso per leggere i suoi pensieri come lettere.
Theodore non rispose.
Rimase immobile, mentre con una mano faceva roteare il bicchiere di cristallo.
«Non devi avere paura» continuò Emeline, avvicinandosi al sindaco e racchiudendo le mani tra le sue.
«È ovvio che io sia spaventato. Puoi fare molte cose meravigliose, ma non sei ancora capace di controllare le emozioni umane» constatò Evander, sorridendole amaro.
Le labbra di Emeline si incurvarono appena, «hai ragione. Ma posso provare a dirti qualcosa che ti farà stare meglio.» Gli scostò una ciocca dal viso con dolcezza, e lui la lasciò fare chiudendo gli occhi, tranquillizzato da quel gesto semplice e delicato.
«Fidati di me» sibilò Emeline, mentre sentiva le braccia di Theodore abbracciarle la schiena.
«Devi fidarti. E tutto sarà come è sempre stato.» Poi gli prese il mento tra una mano, osservando affascinata quel volto e quei lineamenti nobili e simmetrici, compiacendosi della sua bellezza come se stesse ammirando un gioiello.
«Devo andare. Sono in ritardo per il prelievo» disse lei, non prima di aver deposto un bacio tiepido sulle labbra sorridenti di Evander.
«Voglio fidarmi, Emeline.»
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