31. Filo spinato di rovi e rose
Non v'è rosa senza spine. Ma vi sono parecchie spine senza rose.
Arthur Schopenhauer
✟
L'arte è andata distrutta per sempre e Kilian non ha le forze di reagire.
Quella certezza l'ha ucciso, l'ha ferito così in profondità che neppure la lama più affilata di un abile chirurgo potrebbe causargli lo stesso dolore. Se solo avesse la certezza di non spargere sangue ovunque si ficcherebbe un trapano nel cervello per far gocciolare fuori tutto il marcio che ha in testa.
«Dobbiamo trovare un posto in cui nasconderci», sta dicendo Edvin, Lance si preoccupa di continuare a far camminare Kilian, le mani legate dietro la schiena – non ha protestato, li ha lasciati fare, era troppo distrutto dalla fuliggine causata dalle tele in fiamme, o forse perché la certezza di rimanere solo lo terrorizzava più dell'idea di perdere il comando.
«Ci vorrà troppo tempo a piedi. Prendete il camion», dice Kilian, ma è assente, c'è e al tempo stesso non c'è più.
Edvin la trova una buona idea, in effetti, e raggiungono la superficie a passo svelto. Hanno quel mezzo di trasporto da quando l'hanno rubato, appena Ayar è arrivata, per rapire le ragazze dell'esperimento. È capiente a sufficienza da ospitare Edvin come guidatore e Lance, Ayar e Kilian sul retro.
Lance ha liberato Krampus. Nessuno sa perché non vuole portarlo con loro, c'è spazio per tutti, ma preferisce accarezzargli la testa, sussurrargli qualcosa all'orecchio e lasciarlo andare.
Edvin ha una pistola sul sedile del passeggero, pronta a ogni evenienza, e sfreccia per la città senza preoccuparsi dei limiti consentiti. Devono allontanarsi, imporre chilometri fra loro e il sistema e far perdere ogni traccia della fuga. Non sa cosa potrebbe succedere se li catturassero, non con precisione, ma l'idea è terrificante. Non vuole sottostare a una fame eterna, non vuole essere messo in gabbia.
Non sa di esserlo sempre stato, si rifiuta di comprenderlo e accettarlo. La mente è un enigma, un cubo di Rubik pronto a proteggersi e rendersi indecifrabile per annientare il dolore.
Sottili anelli di fumo salgono dalla sigaretta che stringe fra le dita, i polpastrelli inchiodati al volante e le nocche bianche per la rabbia scalciante dentro di lui. Tutto è andato a rotoli, tutto. Niente è come avevano previsto e devono rimanere con Kilian, senza di lui sono persi.
Kilian l'ha sempre sostenuto, ma Edvin non ha mai voluto dargli ascolto. Non più, da quando c'è Ayar, che di certo non è contenta di averlo ancora con loro.
Sono trascorse ormai diverse ore quando Lance comincia a chiamare Edvin dal retro del camion. Lo fa prima con la sola voce, poi, non vedendo risposte, batte un paio di pugni contro il metallo e crea un rumore fastidioso, e allora l'altro arresta l'auto e scende a liberarli.
«Che succede?», chiede.
«Fra due ore non potremo più allontanarci, dobbiamo trovare un posto per trascorrere la notte», lo avverte Lance.
«Perché no? Possiamo viaggiare anche di notte.»
«C'è il coprifuoco, Edvin, l'hai dimenticato? Perché nessuno di voi lo ricorda mai?», chiede Lance, che guarda anche Ayar, a cui ha dovuto spiegare tutto durante il loro viaggio. Sembra trascorsa un'eternità da allora e non riesce a credere che invece il tempo si sia solo dilatato.
Edvin fa una smorfia che è un miscuglio strano e indefinito, sembra essere colpito per averlo dimenticato e al tempo stesso è troppo orgoglioso per ammetterlo. «Non so dove potremmo fermarci.»
«Dissanguiamo qualcuno e rubiamo la sua casa. L'abbiamo già fatto, no? Avremo anche la cena», propone Ayar, che è rimasta in silenzio, a malincuore, fino a quel momento. Viaggiare nel camion è scomodo, è molto diverso dalla sua vacanza con Lance – ormai quella che avevano sembra solo un momento di rilassamento per tutti e due, lontani dai drammi di quella casa antica, scivolati via dalle viscide mani del crudele ipnotista sul fondo del camion.
«Non è una soluzione che approverei, ma in qualche modo dovremo pur sopravvivere, perciò sono d'accordo», commenta Lance.
Edvin annuisce. «Va bene. Ci fermeremo alla prima casa isolata sulla strada.»
I loro piani, tuttavia, vanno meglio del previsto, e quando si fermano di fronte a una piccola villa al limitare di una strada sterrata e disabitata comprendono di aver trovato il luogo giusto per trascorrere la notte.
L'abitazione ha il tetto spiovente, un triangolo che punta verso il cielo nebuloso di quella gelida notte invernale, ed è così infiltrata in una vegetazione fitta e abbandonata da essere quasi scomparsa fra le sterpaglie e i cespugli d'ortica. L'edera si abbarbica sulla facciata laterale e raggiunge le finestre. Ha solo un piano e un tetto che ha perso il suo antico colore, alcune tegole si sono scrostate. È chiaro, ormai, che lì dentro non possa viverci alcun essere umano – non uno sano, almeno. Un infetto potrebbe anche viverci, ma una qualunque altra persona svilupperebbe in fretta un raffreddore per il gelo.
Edvin parcheggia il loro camion fra gli alberi sul retro della casa e poi lascia scendere gli altri. «Non penso ci sia qualcuno dentro, ma è sempre meglio fare attenzione e assicurarcene. Io, comunque, non sento rumori.»
Lance annuisce, Ayar è la prima a balzare giù dal camion e a stiracchiarsi, il viaggio l'ha tediata, stancata, annoiata.
Le mura sono fatte di legno scuro e non sembra molto accogliente, non ha niente a che vedere con la casa a cui hanno appena dato fuoco. Ayar si è pentita del suo gesto e della sua fissazione, ha bruciato l'arte e distrutto Kilian, ma quell'abitazione non le piace per niente e l'idea di trascorrere la notte fra polvere, ragni e ragnatele non la rende per niente felice.
Sospira e decide di non lamentarsi, non hanno molte scelte e viaggiare, considerando il coprifuoco che arriverà da lì a poche ore, potrebbe non essere una buona idea.
Sul lato destro della casa c'è un piccolo terreno quadrato, recintato da legni fissati in orizzontale per ricreare una gabbia, una recinzione. All'interno giacciono i corpi di quelle che forse un tempo erano oche, ma è rimasto ben poco di loro poiché sono state sbranate fino alle ossa, sono rimaste solo piume e una pozza di sangue che tinge la terra e la maledice. Non può farsi un'idea, però, di quanto tempo siano rimaste lì a putrefarsi, e nemmeno vuole saperlo, ma quella visione le provoca una lieve nausea.
«Okay, bene, il motel in cui siamo andati io e Lance era più accogliente di questo orrore, ma immagino che dovremo accontentarci.»
«Pensa un po', la mia casa era molto meglio, ma hai deciso di incendiarla e rovinare tutto. Di nuovo.»
Ayar aggrotta le sopracciglia. «Di nuovo?»
Lance interviene, si mette in mezzo ai due – per difendere Kilian da Ayar, che lo guarda con acredine e sembra pronta ad azzannargli il collo e dissanguarlo. «Sì, Ayar, di nuovo, tutto questo è già successo. Più o meno.»
Ayar lo guarda con evidente confusione. «Non capisco. Quando? Io non me lo ricordo...»
«Entriamo dentro, ne parleremo dopo, vi ricordo che potrebbe esserci qualcuno», li interrompe Edvin.
L'ispezione della casa li porta a scoprire che no, non c'è anima viva lì dentro. L'abitazione è sporca e malandata, sembra molto vecchia, forse appartiene perfino a qualche secolo prima. Non sanno da quanto tempo non ci vive più nessuno ed è strano che nessuno la stia usando, in fondo è una casetta in mezzo ai boschi, lontana dalla società, dalla città, dal traffico, lo smog, i rumori, i segnali del Sistema che controlla tutto, ma non i posti disabitati, poiché è certo che lì non ci sia nulla degno d'interesse.
Sarebbe un po' inutile proiettare sullo schermo una foresta silenziosa, no?
Non è lo spettacolo che le persone vogliono. Se ci tengono a vedere degli alberi possono sempre farlo dal vivo. La tortura, l'agonia, la sofferenza, il sesso, le emozioni... quelle sono tutte cose che gli umani, però, non possono assaporare. Non è consentito a coloro che stanno con il sistema fare tutto ciò che invece loro che sono dall'altro lato dello schermo possono fare eccome.
Edvin lo ricorda e lo dimentica di continuo. Non vuole pensarci, il sistema lo terrorizza e ciò che fanno è crudele. Le certezze si dissolvono in una nebbiolina di veleno viola, però il peso insostenibile della sua anima non sfuma.
Non può continuare a mentire ad Ayar.
Kilian diceva che se avesse saputo ciò di cui erano a conoscenza tutto avrebbe preso un'orrenda piega. La loro situazione, tuttavia, non è favorevole, ed è stramba, e forse Edvin spera che lei abbia un modo di sistemare tutto. Una speranza vaga, perché è certo di non poter trovare la soluzione. Dovrebbe rivelarle ciò che sa, ma qualcosa ancora lo trattiene. Avrebbe dovuto farlo molto prima. Scoprire di vivere in un'illusione le farà male.
E porterà tutto a smettere di esistere. Li troveranno, quando sapranno che ora ricordano di nuovo, e cancelleranno tutto ancora, e ancora, e ancora.
A Edvin fa male e spesso lo dimentica. Non sa perché, forse non lo saprà mai, ma cerca di vivere gli attimi e apprezza in silenzio quelli gradevoli perché teme che gli verranno proibiti. E in fondo per tutti gli altri sono vietati.
Gli esseri umani sono quasi macchine, robot dalle pupille orbe, ipnotizzati di fronte a schermi rettangolari e piatti, impegnati a vedere riprese in diretta di come vivono gli altri.
C'era un tempo in cui le persone non erano così tanto ossessionate dalle esistenze altrui, poi, con l'arrivo dei social network, il mondo è diventato un posto strano. Individui di ogni età trascorrevano la maggior parte del loro tempo libero occupati a spiare gli altri, si infiltravano nelle giornate altrui, ma erano frustrati per non poter vedere tutto, proprio tutto. Coloro che mettevano la loro vita personale online erano comunque abbastanza restii da mantenere alcuni segreti, menzogne, e in ogni caso non tutti i frammenti della loro vita potevano essere ripresi.
E quando il virus ha iniziato a girare e le persone hanno iniziato ad aver paura di infettarsi, si sono chiuse in casa, temendo di prendere quella brutta malattia ed essere annientati dal sistema, che si era premurato di cacciare coloro che avevano il virus e rinchiuderli in eterno in una torre troppo alta, controllata da una sorveglianza estrema.
Per convincere le persone a rimanere a casa, l'unico modo funzionante, oltre alla paura della malattia, è stato quello di impiantare in ogni abitazione dei televisori sintonizzati su centinaia di canali, gestiti dal sistema stesso, dove venivano proiettate per intero, senza censure né tagli, le vite degli infetti, costretti a vivere a stretto contatto e a fare i conti con le emozioni proibite e i divieti imposti.
Le loro esistenze sono sempre state registrate e trasmesse in onda, perfino nei momenti più privati, intimi, perversi. Perfino quando si spargevano i litri di sangue e si inondava tutto di amaranto.
Eppure quella che sembra quasi una liberazione è in realtà una lunga e triste condanna. Una punizione da scontare per l'eternità.
Dopo aver spolverato in fretta il tavolo di legno all'interno della piccola cucina e le sedie, tutti e quattro sono seduti lì, Kilian ha ancora le mani legate dietro la schiena e l'aria indecifrabile, sebbene in profondità, dietro alle sue iridi di cristallo, si legga il dolore dell'arte in fiamme.
«Non potete raccontarlo e basta, sarebbe meglio farglielo rivivere», mormora Kilian, ma non è certo che lo ascolteranno.
Rimane sorpreso dalla risposta di Edvin. «Credo sia la cosa migliore da fare.»
«Dovrebbe essere lei a decidere», interviene Lance. «Ayar, preferisci ricordarlo da sola o vuoi che ti raccontiamo cos'è successo?»
Ayar è piuttosto confusa da quella domanda, scegliere non è semplice. La prima opzione sarà dolorosa, ne è certa, ma le consentirà di aver chiari tutti i dettagli. Se scegliesse di farselo raccontare, invece, finirebbe per apprendere solo le nozioni riassuntive e di non riavere indietro i ricordi che dovrebbe avere, sebbene ciò le consentirebbe di soffrire di meno.
Fa un respiro profondo. «Preferisco ricordare.»
«Dovrete slegarmi le mani», dice Kilian.
«Avrai una pistola puntata sulla nuca per tutto il tempo, se le fai del male di nuovo ti faccio saltare il cervello», sorride Edvin, che tiene l'arma stretta fra le dita e la fa oscillare di fronte agli occhi di vetro dell'altro.
«Va bene», dice solo Kilian, e allora decidono di fidarsi e di provarci. È giusto che Ayar sappia.
In casa c'è una sola camera da letto e hanno a disposizione, oltre a un materasso vecchio abbastanza capiente, soltanto un divano. Fanno stendere Ayar su quest'ultimo, realizzando una copertura di vestiti puliti per non farla sdraiare sulla polvere e la moltitudine di acari che infestano i tessuti, poi liberano le mani di Kilian, che si rovista nelle tasche dei pantaloni e tira fuori il suo orologio d'argento.
Lo fa oscillare davanti agli occhi di Ayar, invitandola a seguirlo, e lei si sente catapultata a tanto tempo prima, quando quelle sedute erano all'ordine del giorno e le piacevano perfino, a tratti, quando non doveva infiltrarsi in memorie proibite e oscure, crudeli, lastricate di ossidiana e cristalli d'ametista. Le palpebre si appesantiscono e le ciglia sembrano tirare verso il basso, forzarla a chiudere gli occhi e perdersi in un limbo vuoto e silenzioso. In lontananza, la voce di Kilian la chiama e le ricorda che può tornare indietro quando vuole, basta chiederlo.
«I ricordi non possono ferirti né farti male, non fisicamente, quindi non spaventarti», sottolinea per l'ennesima volta, e Ayar emette un flebile "sì", quasi inudibile, in risposta.
Il corpo è rilassato, tutti gli arti sembrano leggeri, come se non avesse più una reale consistenza. È solo un'anima vagante per un universo onirico, una galassia lontana e sperduta fra gli incubi e la realtà.
«Dove sei, Ayar? Che cosa provi?»
Kilian avverte il freddo della canna della pistola puntata sulla nuca.
«Sono a casa, di nuovo. Sono in giardino, c'è profumo di biscotti. E ho le mani ferite dalle rose, ancora. Ora arriverà mio padre e avrà gli anfibi sporchi di terra. Ho già visto questa scena, Kilian, perché devo sempre riviverla?»
Lo dice con frustrazione, stanca di trovarsi sempre di fronte alle stesse immagini frammentarie e confuse. Non vuole vedere niente, non vuole pensare alla sua famiglia.
Non le piace stare lì.
«Scava di più in quel ricordo, non è come sembra. Alzati in piedi e raggiungi il roseto. Voglio che tu colga una rosa.»
Lance e Edvin si guardano confusi, non capiscono cosa stia succedendo nella sua mente, e non sanno come possa essere collegato a ciò che Kilian dovrebbe rivelarle.
Le guance di Ayar si riempiono all'improvviso di lacrime, grosse gocce che si sciolgono sulle gote bianche. «Non sono le spine a graffiarmi, è il filo spinato.»
«Che cos'è, Ayar?», la voce di Kilian è un soffio dolce e freddo.
«Sto cercando di scavalcare la recinzione. Non è un roseto. Mio padre non ha piantato per me nessun fiore.»
«Lo so, Ayar», mormora Kilian, il tono pacato proveniente dalle corde vocali le scalda la pelle e annulla la paura. «Torna indietro, vai dov'eri prima, sul prato.»
Le certezze di Ayar crollano come un castello di carta turbato dal vento gelido. Il suo sogno si riduce in pezzi, pixel che crollano, maschere e incantesimi che svelano la realtà dietro alla finzione creata dalla psiche.
«Ha davvero gli anfibi, ma non sono sporchi di terra. È sangue.»
«Chi è, Ayar? Lo conosci?»
Ayar alza lo sguardo, costruisce quel nuovo ricordo che però sa di vero, non è un trucco. Non è una menzogna.
Kilian.
«Sei tu, e mi fai paura.»
«Sì, Ayar, sono io.»
Le parole le escono dalla gola veloci, quasi incespica fra le immagini e le informazioni. «Mi hai presa per mano e mi hai portata dentro, ma quella non è la mia casa. È bianca, troppo bianca, e fa freddo. Ci sono dei lettini in fila, ma sono vuoti. Sembra un ospedale, o qualcosa del genere.»
«Sai che cos'è, Ayar. È lì che finiscono tutti i bambini soli.»
«Un orfanotrofio?»
«Sì.»
«Perché non c'è nessuno, oltre a me?»
«Perché sei l'unica rimasta. Li hai uccisi tutti.»
Il Kilian dell'illusione sembra essere quello reale, non è cambiato per niente negli anni. Stringe la piccola mano di Ayar nella sua e la conduce di fronte a uno specchio ellissoide e verticale, riesce a vedere la sua figura per intero. È sporca di sangue dalla testa ai piedi.
All'improvviso si tinge di rosso anche lo sfondo. Le coperte e i cuscini sono tutti intrisi di morte, decine di corpi sono distrutti, hanno gli occhi spalancati e vitrei e rimangono immobili dietro di lei, la fissano con orrore e desiderio di vendetta, ma non possono far altro che guardarla e triturarle le ossa con i sensi di colpa. Sente il suo corpo tremare incontrollato – dentro, nella sua mente, e fuori, dove anche Lance e Edvin possono guardare.
Kilian le tira appena la mano, distoglie la sua attenzione e la conduce altrove, fra corridoi che appaiono infiniti mentre l'ansia vortica ossessiva fra gli organi, sibila e striscia crudele. Ha addosso i lividi del dolore, macchie informi e violacee che compaiono sull'epidermide come fuochi d'artificio che sbocciano quando muore il sole.
Fuori il dilucolo è lontano e la notte è appena iniziata, la barriera li abbraccia e protegge come una madre premurosa, si assicura che rimangano liberi per un po' mentre il resto del mondo dorme, gli umani spengono le loro proiezioni su schermo e vanno a riposare, e anche gli attori – pur incoscienti di esserlo – si sentono stanchi.
Lavorano tutto il giorno, ma non lo sanno.
Kilian è il loro negoziatore: gli suggeriscono pieghe da far prendere alle situazioni, e lui fa in modo di accontentare gli spettatori, finge di non sapere eppure vive in una recita costante, trova accordi per far durare il più a lungo possibile quelle storie, perché quando gli strappano via tutto fa male.
Perfino in quel momento Kilian sa come andrà a finire, e non gli piace. Spera di non perdere il ruolo, il controllo, spera che non cambi troppo nella prossima fase. La vita iniziava a divertirlo, finalmente era diventata particolare e nuova, aveva preso inaspettate pieghe in grado di stravolgere lui, gli altri dentro casa, e infine le pupille cieche e ossessive dietro le telecamere, oltre gli schermi di vetro, con le luci proiettate sul volto e il lampadario spento.
Ayar sente un ronzio inquietante e fastidioso, le turba un orecchio, le punzecchia il timpano. «Perché l'ho fatto, Kilian? Non volevo far soffrire nessuno.»
Cerca risposte dall'individuo che odia, l'aguzzino che l'ha rinchiusa nella sua bolla di menzogne e ora le fa rivivere tutto, e subito, e Ayar sente già di non poterne più mentre affoga fra le lacrime e i sensi di colpa.
«Mi dispiace tanto», Ayar continua a piangere e mormorare frasi che non possono mutare il presente, e Kilian sospira.
«Per questo ti ho sempre trovata interessante. Non so perché lo hai fatto. Forse eri solo predisposta al genocidio, a lungo ho pensato che tu fossi solo... crudele. Cattiva come Edvin e Lance non erano neppure dopo il virus. Tu, invece, eri una piccola belva. Eri solo una bambina, ma avevi gli occhi di un demone. Eri perfetta per il mio esperimento, volevo vedere cosa ne sarebbe venuto fuori, e allora ti ho lasciata crescere da sola per un po', sei rimasta a lungo nell'orfanotrofio, ma non ti consentivano di vedere nessuno. Nessuno, certo, tranne me.»
Mentre Kilian parla, le immagini scorrono di fronte agli occhi di Ayar e le sembra di fluttuare fra sogni e ricordi, antiche memorie che risalgono a così tanto tempo prima che neppure pensandoci a lungo sarebbe in grado di stabilire una data precisa.
Si trova in una stanza bianca. Le pareti sono rivestite, sembrano coperte da grossi cuscini lattei. Sono morbide, e anche se Ayar continua a dondolare avanti e indietro e la testa si scontra con la parete, nessun dolore le percuote il corpo. Le gambe sono stanche e turbate dalla posizione. Da quanto tempo è lì, occupata a fissare il vuoto e oscillare senza raziocinio? Sembra matta e vuota come le vittime dell'esperimento al loro ultimo stadio.
Kilian è entrato nella stanza e si è abbassato sulle ginocchia, le ha messo le mani sotto le ascelle e l'ha tirata su, aiutandola a reggersi in piedi sulle gambe che traballano.
Ayar si guarda intorno e nella stanza non c'è niente, niente di niente. Solo la porta senza la maniglia e una coperta sdrucita sul pavimento, di un tenue azzurro che risulta comunque una macchia grottesca in un ambiente tanto asettico e impersonale.
«Ora puoi venire con me, Ayar. Non dovrai più stare da sola. Sarai circondata da persone come te, individui che comprendono la tua follia. Prima, però, hai bisogno di una medicina. Ti renderà bella per sempre, vivrai in eterno circondata da amore e pace, vicina a persone che ti vorranno bene. Non dovrai più stare qui.»
Le mani del vecchio Kilian le accarezzano le guance, le sfiorano i capelli, seguono il contorno morbido delle labbra e le solcano con una delicatezza che sopprime ogni forma di paura, come se stesse assorbendo l'inquietudine e il malessere, il terrore di tornare al mondo.
La sua voce, questa volta fuori dal sogno – è come se provenisse da una realtà diversa, parallela a quella che stanno vivendo nell'abisso onirico –, interrompe tutto e le ricorda che non resterà lì per sempre.
Lo scenario attorno a lei cambia ancora, apre gli occhi e si ritrova stesa su un lettino. Ricorda anche di aver visto quel momento, tempo prima, sempre grazie alle strane magie dell'ipnotista.
Il suono di passi nella stanza, e di nuovo lo vede.
Ayar ha paura e non può muoversi. Indossa i guanti e stringe fra le dita una grossa siringa, ha un ago lungo e terrificante. «Non farà male, sarà solo un lieve bruciore», sottolinea, ma non ci crede nemmeno per un istante e sente il corpo andare a fuoco quando le inietta il veleno nelle vene e il suo esatto antidoto. L'elisir sbagliato e insano dell'immortalità.
Ayar urla, un rimbombo tellurico che non le consente di sentire più nient'altro che il dolore lacerante delle corde vocali, l'arsenico che scorre nelle arterie e la costringe a un'eternità di dolore e finzione continua a bruciare, ma si è affievolito.
«Devo tenerti legata perché potresti scappare anche tu, e non posso permettermi altri imprevisti.»
Ayar può voltare solo la testa e guardarsi a destra e sinistra, non ha alcun modo per liberarsi.
«Andiamo via da qui», suona un po' come un ordine, un po' come una supplica.
Kilian l'accontenta, però, e il tempo va avanti.
Può vedere un grosso orologio davanti a sé, i numeri scritti in romano, linee d'argento inseguite da rapsodiche lancette che sopperiscono a un ticchettare ossessivo. Il tempo corre e lo spettro di Ayar lo insegue nelle memorie interrotte e smarrite, fumosa nebbia che vortica in spirali. Fumo nei polmoni, la sensazione di un soffocamento sempiterno, e poi nuova aria, nuovi momenti, nuove immagini. Altre illusioni che sopprimono le vecchie.
Sono di nuovo a casa – perché per Ayar, adesso, quella era casa e ora è fumo e cenere –, ma non ci sono i quadri sulle pareti, non c'è arte, niente tele e colori, solo mura grigie e urla disperse fra le pareti, rimbombanti fra l'intonaco scrostato e l'umidità.
Ritorna a quando era vittima anche lei e si vede in gabbia, ancora.
Ha vissuto l'eternità fra pareti claustrofobiche. Ha trascorso giorni al freddo, soppressa dalla fame, fino a veder cadere ogni zanna, finché Kilian non credeva che avesse sopportato abbastanza fame e che fosse ora di darle del sangue.
Ci ha provato a lungo anche con lei, non solo con Edvin, non solo con Lance.
Dà vita alle sue creazioni immortali e poi le rinnega. Le ama e le aberra, un po' come il dottor Frankenstein, sono speciali e sono mostri. Sono bellezza pura e orrore. Kilian ha sempre odiato i loro difetti. Voleva esseri unici, all'apparenza perfetti, ma anche dentro, e invece ha creato solo bestie sadiche e crudeli, assetate della vita altrui per continuare a esistere.
Tutto ha un prezzo, e per ogni giorno che vivono a discapito di altri, qualcun altro, non infetto, muore cedendo il suo sangue.
Kilian, nel ricordo corrotto, si mantiene dietro le sbarre e la provoca, tenta di far scattare il suo desiderio di sangue e poi non lo soddisfa. Dietro al metallo, una lama gli scivola sulla pelle e si procura un piccolo taglio sul polso, talmente piccolo che è solo un leggero bruciore. Lo mostra ad Ayar, vuole che ne senta l'odore e che la fame le morda lo stomaco, vuole che senta quanto è rancida quell'ossessione e quanto può essere letale, fino ad annullarla. Kilian ha sempre sperato che esistesse una cura a quel difetto del virus, ma nessuno l'ha mai trovata e nemmeno la tortura ha fruttato risultati.
Ayar non ha mai smesso di desiderare il sangue.
Edvin sì – in realtà no, neppure lui, ma Kilian è cieco e vuole credere di aver fatto un buon lavoro, con lui. Invece Edvin mente, è diventato un abile ingannatore pur di non dover subire ancora quell'agonia lunga e interminabile.
Ayar lo vede nella stanza a fianco alla sua, sono divisi dalla parete, dalle sbarre, non possono vedersi, né toccarsi. Sa che al tempo non conosceva il suo viso, ma talvolta lo ascoltava parlare. Abbandonati a loro stessi, rintanati nel buio e nel silenzio, non c'era altro a cui aggrapparsi oltre alla certezza flebile di non essere soli. Unica speranza in un sottosuolo arido e silente.
«Manca solo una piccola parte, Ayar», le anticipa Kilian, tirandola via dall'ennesimo sogno per catapultarsi in altre immagini, altre spiegazioni, altri ricordi cancellati da una gomma sadica.
Ayar annuisce e il mondo circostante sfuma, scoppia come una bolla di sapone che ha fluttuato nell'aria troppo a lungo.
L'ultima tappa è un'altra stanza asettica, le pareti sono bianche, sembra tutto pulito, disinfettato, e molto minimalista. Può intuire che è trascorso altro tempo, anche se il suo corpo efebico non è mutato ed è rimasta intrappolata in un'apparenza da sedicenne, identica alla Ayar che giace sul divano con le palpebre abbassate e le ombre proiettate lugubri sulle gote, sfilettate come zampe di ragno che vomitano fuori dalle caruncole e appannano la sclera.
C'è un tavolo al centro della stanza. Dall'altro lato, la figura di un uomo in giacca e cravatta, il volto segnato da pesanti rughe.
Kilian è seduto vicino ad Ayar e stringe una delle sue mani, tenta di darle conforto, gioca con le sue dita in un intreccio confortante.
«Lei è davvero bellissima», commenta l'uomo, ma è un apprezzamento che non fa sorridere Ayar, rimane un burattino vuoto, abbandonato su una sedia scomoda, infilato in un camice bianco e impersonale, e sente troppo freddo. Le parole del vecchio sono una lama che gioca a scuoiarla viva di nascosto. Si sente merce, solo un oggetto, qualcosa da guardare all'apparenza, e non importa a nessuno ciò che ha dentro, il suo dolore è come inesistente per gli altri. La guardano, sanno che fa male, ma continuano a scavarle dentro con le pupille.
E sanguina.
Sanguinerà sempre, ma solo dove nessuno potrà vedere l'icore che squarcia l'epidermide bianca e disegna sentieri e ragnature sulla tela imperfetta, ricercando un antico splendore.
«Lo so», risponde Kilian, «per questo voglio che rimanga con me. Sono certo che piacerà.»
Le dita dell'ipnotista corrono a carezzarle dolci il capo, le scompiglia appena i tentacoli di sangue. «I suoi capelli sono così rari...», accenna un sorriso, «sono sicuro che saranno tutti sintonizzati sul nostro canale, faremo fallire tutti gli altri, con lei.»
Ayar rimane in silenzio e non comprende.
Poi tutto muta ancora, ritorna nella casa piena di quadri e di arte. Vive lì, a contatto con Edvin e Kilian, fa strane missioni e sviluppa una strana dipendenza per Edvin. Aveva già vissuto tutta quella storia. Si era già innamorata di lui, tanto tempo prima, in un periodo lontano dalla memoria. Si sono ritrovati e hanno riscoperto i sentimenti passati. È un ciclo continuo, nessuno li priverà mai dei sentimenti che li legano col filo spinato, anche se rimuoveranno le loro memorie sepolte e li costringeranno a costruire nuovi attimi.
E allora tutto diviene chiaro. Il ciclo è sempre lo stesso, ogni volta che tutti e quattro scoprono la verità la memoria viene resettata, perché ciò renderebbe tutto finto e irrealistico, recitato, ma il pubblico vuole la verità, e per ottenerla devono dimenticarsi di essere osservati, sempre. Sguardi ciechi di voyeuristi ossessivi che si godono ogni loro momento e li spogliano di ogni traccia di privacy. Solo di notte, quando tutti dormono, possono essere se stessi, e Lance lo sa. Lui rimane sveglio e sente il tempo scorrere, pesare, ma almeno in quei momenti è certo di essere solo, solo per davvero.
Tutto diventa buio, intorno ad Ayar. Il mondo è un posto spaventoso, tanto che l'oscurità di cui si circonda non è poi così inquietante.
«Ora puoi tornare indietro. Prenditi tutto il tempo che ti serve, puoi aprire gli occhi quando vuoi.»
Ayar rimane immersa nel confortante buio ancora per un po', poi si costringe a sollevare le pesanti palpebre e mettere a fuoco il mondo circostante. Aveva dimenticato di non essere più a casa, e la vista le fa avvertire un lieve accenno di claustrofobia, è circondata da Edvin, Kilian e Lance e non c'è abbastanza spazio.
Tira su la schiena, si stringe le ginocchia al petto. Le guance vengono tracciate dalle ferite di sale che gocciolano oltre le ciglia.
Un momento di sconforto che dura solo qualche minuto, poi alza il capo, ha ancora le efelidi umide e traslucide per il pianto, i polsi tremano frenetici e il cuore batte un po' troppo forte. «Voi lo sapevate e non mi avete mai detto niente», li accusa, fissando soprattutto Edvin e Lance. Non si fidava di Kilian, ma credeva che loro sarebbero stati onesti, credeva di sentire solo la verità, invece hanno tralasciato dettagli fondamentali.
«Non potevamo dirtelo. Ora che anche tu sai dovremo ritornare indietro e rifare tutto da capo. Cancelleranno ogni cosa, di nuovo.»
Le parole di Lance sono gelide come il tono che utilizza, c'è vero sconforto nella sua voce.
«Lo abbiamo fatto per proteggerti e per proteggerci. Se rimane un segreto e nessuno sa niente, tutto va avanti e non perdiamo i nuovi ricordi.»
Ayar rimane muta per qualche istante, vittima di un silenzio terribile. «Cosa succederà adesso?»
«Ci troveranno, ci faranno il lavaggio del cervello e poi cercheranno un modo di farci incontrare ancora. Ma potrebbero anche dividerci per creare nuove storie e nuovi intrecci. Non è sicuro che resteremo insieme, ma è probabile.»
«Il pubblico è affezionato a voi, non penso che vi divideranno», interviene Kilian.
Lui, in effetti, è quello che ne sa più di tutti e che si rigira il sistema a suo favore pur di fare quello che vuole. Ormai è l'unico modo che ha per creare arte.
E ama l'idea di essere sempre osservato, anche se talvolta è una certezza destabilizzante.
Lo turba non essere mai solo, neppure quando consuma le sue perversioni rancide, ma non ha a sua volta spiato gli altri? A ogni azione corrisponde una reazione e forse non dovrebbe stupirsi di aver fatto quella fine, perché è la fine che fanno tutti i peccatori.
E lì dentro nessuno è pulito. Nessuno è innocente. Non c'è alcuna traccia di bianco.
«Quindi l'unica cosa che possiamo fare è rimanere qui e aspettare la fine?», chiede Ayar, la voce le trema per la paura.
«Sarebbe inutile ribellarsi. Non c'è un modo in cui possiamo fuggire. Loro sanno che siamo qui, ci guardano anche adesso. Ci osservano sempre, tranne quando c'è il coprifuoco.»
«E se oltrepassassimo la barriera? Potremmo essere liberi», propone Ayar, ancora in cerca di una speranza.
«Non funzionerà. È la stessa cosa di aspettare qui il sistema, ci verranno resettati i ricordi e torneremo allo stadio originale. Va avanti da troppo tempo. Spero solo che riusciremo a farci gli affari nostri e non scoprire tutto per venire soppressi di nuovo.»
«Voi non comprendete che questo è un dono», dice Kilian, «nessuno fuori dagli schermi è libero di fare ciò che fate voi. Potete vivere con i vostri demoni, senza sopprimerli, senza tentare di domarli. Potete amarvi, stare insieme, vivere in eterno... e ogni volta fate le stesse stronzate e mandate tutto all'aria e dobbiamo ricominciare.»
Sembra piuttosto infastidito dal loro comportamento, d'altronde sono anni – decenni? Secoli? – che quella storia va avanti.
«Gli umani ci invidiano», mormora Edvin.
«Sì, perché voi, pur essendo rinchiusi in uno schermo, siete più liberi di molti altri individui.»
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro