19. Uccidere per non uccidersi
"Red blood, somethin' I don't really care for
Let it all run wild like it's meant for
Fake love, somethin' I don't really care for"
Ghostemane - Sacrilege
✟
Dolore.
Il dolore è talmente tanto intenso che Ayar non sente nient'altro.
Ha freddo, un gelo che le pietrifica il corpo. Le palpebre abbassate, il cuore che ricomincia a battere dopo essere annegato nel buio gelido della morte.
Kilian l'ha uccisa.
Ancora.
Quelle tre parole continuano a riecheggiarle in testa, turbini di ferite che si scoprono sulla pelle di cui è di nuovo consapevole.
Alza il busto, la testa sembra essere sul punto di esplodere, il cranio in cocci e materia grigia riversa sul pavimento. Tamburi che non smettono mai di ledere le tempie e pungerle la nuca. Spilli dietro agli occhi.
E il corpo stesso, il corpo in sé e non solo la mente ferita. Le braccia, le gambe, il collo, i muscoli pelvici, la schiena. È come se un carro armato le fosse passato addosso più e più volte, riducendola in una poltiglia d'ossa e sangue, viscere in disordine sul terreno, rosso su un contrasto bianco.
Si sfrega i polsi con la punte delle dita, dove ci sono dei lividi – macchie violacee e capillari rotti. Sale con le mani sulle clavicole, poi raggiunge il collo che le duole al più flebile contatto, ematomi di veleno le deturpano le spalle e tingono il suo pallore. Bolle disegnate sull'epidermide lattea, il viola dei segni di una violenza.
Non ci sono tracce di morsi – non di nuovi, solo quelli che le ha lasciato Edvin con amore –, ma ha lividi ovunque. Le gambe ancora scoperte per l'assenza dei pantaloni sono costellate di cerchi di svariati colori, variano dal verde al rosso e alcuni raggiungono un intenso ametista.
Il cuore le batte troppo in fretta quando alza lo sguardo e le pupille incrociano quelle di Kilian, in piedi nella penombra della stanza. I ricordi cominciano a tornare a galla, rimembra gli ultimi momenti passati con lui, anche se non è in grado di definire quanto tempo sia passato da quando si è spenta. Per quanto il suo corpo è rimasto inanimato?
Che cosa le ha fatto?
Non fa in tempo a chiederselo che Kilian la interrompe con le folli elucubrazioni di un insano matto corroso dall'arsenico della vita. «Quando sei morta sei più carina.»
«Che cosa mi hai fatto?», anche se si rende conto che non ha davvero bisogno di sentirselo dire, che forse farebbe solo più male e terrore, fra le ciglia e le palpebre ha ancora quei marchi sulle retine e può vedersi soffrire dall'alto.
Non è stata in grado di aiutarsi da sola, di svegliarsi. E nessuno è venuta a salvarla.
«Ti ho solo accontentata», replica lui, «tu mi hai provocato, tu sei venuta qui. E mi è piaciuto più di quanto credessi possibile, se questo può farti sentire meglio. Non hai sentito nulla, non preoccuparti. Eri morta.»
Le ombre si scuriscono intorno a lei, dense nubi di fumo e tenebre sembrano trascinarla verso il basso e inghiottirla nei freddi abissi di un luogo lontano dalla memoria. La catturano in un tunnel buio, e non sa più come uscire.
Fa male. La certezza di essere stata usata, di aver cercato della bellezza in lui che è capace solo di procurare dolore agli altri, torturarli fino a ridurli in pezzi.
Ayar si sente diversa, non si è mai sentita così male. Ha paura, trema con tutto il corpo e ha la gola arida, il sale cristallizzato sulle guance.
Qualcuno bussa alla porta e anche Kilian ne sembra sorpreso, tanto che la sua espressione muta solo per un istante.
Ayar torna nel mondo reale, risale dal buio in cui rischiava di precipitare e non tornare mai più.
Kilian va ad aprire, ma fa in modo di tenere l'uscio socchiuso e di controllare prima chi ci sia dietro al legno. Quando vede che è Lance lo lascia entrare senza fargli domande.
Ayar si chiede se avrebbe fatto entrare senza problemi anche Edvin.
Dovrebbe dirgli ciò che è successo?
Edvin le darebbe la colpa di com'è andata, visto che è stata lei a cominciare e insistere? Visto che se l'è cercata?
Le lacrime tracciano percorsi e non riesce a dire né pensare niente, prova solo un vuoto cosmico, un gelo che atrofizza le ossa.
Rimane immobile sul morbido lettino presente nello studio – non lo ha mai usato, di solito prendono posto sulla poltrona – perché le gira la testa e le manca il fiato. La paura le cinge la vita come un serpente che la stritola fino a romperle le costole.
«Tu senti sempre quando ho bisogno di aiuto, ti meriti un aumento», sente pronunciare da Kilian, e quell'ironia la turba e infastidisce.
Non è divertente e non comprende bene quelle parole, è ancora troppo scossa e confusa.
«Avevo una strana sensazione», replica Lance, e ad Ayar sembra quasi di sentirlo scrollare le spalle con la sua tipica noncuranza. «Che succede qui?»
«Ho fatto un errore di cui mi pento, non volevo farle del male, ma è meglio per tutti se ci dimentichiamo ciò che è successo», Kilian lo fa entrare nel suo studio (ora più che mai appare come il laboratorio di uno scienziato pazzo, la vera prigione delle vittime) mentre gli rivela la verità, Ayar è stupita nel sentire il suo piano prendere forma senza mantenere alcun segreto.
Si alza in piedi, ancora instabile e con i piedi scalzi, e si deve reggere al bordo del lettino per non crollare sulle ginocchia. «No, io non dimenticherò niente, voglio sapere con che mostro ho a che fare.»
«Vedi, Ayar? È per questo che devi. Non mi perdoneresti, eppure sei stata tu a chiederlo.»
Ayar annega nei singhiozzi che neppure sente più, le lacrime scorrono sulle guance e la voce trema. Non ha mai vissuto niente di più crudele. Non è stato come morire e basta, non è come quando Edvin le ha spezzato il collo e l'ha seppellita. Quello che ha fatto Kilian è peggio, è umiliante, è sadico, è crudele.
Le fa paura e le farà paura per sempre.
«Non ti ho chiesto di uccidermi e fare quello che volevi con il mio corpo mentre ero incosciente.»
«Morta. Eri morta. Per te è come se non fosse successo nulla», si difende Kilian, freddo come il ghiaccio.
Lance si avvicina a lei, i suoi occhi scuri saettano da un lato all'altro dell'epidermide scoperta, constatano la gravità degli ematomi che le ombreggiano il corpo. Sembra sporca delle macchie provenienti dalla tavolozza di un pittore che per errore ha ricoperto di gocce di tempera la pelle della modella da ricopiare su tela.
«L'hai ridotta male», dice, le dita premono sulle sue clavicole e Ayar sussulta e si ritrae, quelle dita addosso le creano un dolore fastidioso e pungente. «Ferma, o non posso aiutarti», la rimprovera Lance, avanzando ancora verso di lei, che è appoggiata con le fossette di venere al bordo del lettino e non ha più via di scampo.
«Non voglio nessun aiuto da te.»
È in trappola. Non devono cancellarle i ricordi, non possono.
E ha fame. Lance ha davvero un buon odore, il suo sangue sembra insolito e dolce, come se avessero aggiunto dello zucchero dentro di lui per renderlo più vicino al miele e meno al veleno.
«Non farà male, cancellerò il dolore che provi», tenta lui.
Lance non è la persona fredda e distaccata che all'apparenza potrebbe sembrare, è abituato a prendersi cura degli altri, ad aiutare coloro che soffrono, anche se spesso è una perdita di tempo. Però ha imparato che ci si deve aiutare a vicenda, spesso non si può contare solo sulla propria persona ed è piacevole avere qualcuno al proprio fianco, ricevere un sorriso d'incoraggiamento nei momenti di disperazione, avere qualcuno che ti appoggia i cerotti sulle ferite e ci soffia su per affievolire il dolore.
«Ti conviene starmi lontano», lo minaccia Ayar, appoggiando la punta dell'indice all'altezza del suo cuore. «Te lo strappo via se mi tocchi con un solo dito.»
Lance le sorride. «Sei davvero adorabile. Però temo di doverti deludere, non mi uccideresti.»
I canini cominciano a darle fastidio, crollano verso il basso, spingono per uscire. Ayar si solleva sulle punte, il necessario per raggiungere il lobo del suo orecchio e sussurrargli parole che Kilian non deve sentire.
«Se vuoi essermi davvero d'aiuto dammi del cibo», non vuole lasciargli il tempo di realizzare cosa intende fare, perciò affonda i denti nel suo collo con uno scatto veloce, gli lacera la giugulare e prosciuga il suo sangue con tutta la forza e la fame che possiede.
Lance è buono e berlo le regala una sensazione estatica, è come toccare il paradiso e non scottarsi per la troppa luce. Sente il corpo risanarsi, ogni dolore cessare, si convince però che sia solo perché il suo icore è dolce, le ricorda lo zucchero filato. È di un rosso vivo, intenso, torbido, amaranto che sporca la pelle e la sua bocca, linee vermiglie che disegnano nuovi sentieri e sostano nella piccola gabbia scheletrica delle clavicole incavate.
È piena di vita e di energia quando lascia la sua pelle.
Le pupille saettano sulle braccia e sulle gambe pallide, i lividi che le maculavano l'epidermide sono tutti spariti, non vi è più traccia di ciò che Kilian ha fatto al suo cadavere. Sono scomparsi all'improvviso, veloci come si sono formati, non hanno lasciato tracce né sofferenza, non ci sono più ombre a scurire il bianco.
È paralizzata davanti a quella certezza.
«Avevi proprio fame.»
Quel commento di Lance spezza l'atmosfera – almeno all'apparenza. Dentro non sa più che cosa sente, è un miscuglio di troppe sensazioni e situazioni diverse.
«Come hai fatto?», non smette mai di fare domande, la curiosità è un cancro che la divora pezzo dopo pezzo. Non c'è maledizione che possa privarla di quella piccola parte che la rende vittima di un'inestinguibile sete di conoscenza.
«Tutto dipende da com'è mutato il virus dentro di te, non tutti possono farlo. Il mio sangue è prezioso, il tuo no.»
Per Lance sembra tutta una squallida commedia. Un film da rallegrare con le risate in sottofondo, gli applausi e i fischi di una società morta. Prende ogni cosa con leggerezza, niente è in grado di scalfire la sua corazza di pelle tirata fino al limite, dura come cuoio seppur bianca e pallida dove l'inchiostro non ha lasciato marchi.
Per Lance la vita è una pellicola che non finisce mai di riprodursi. Non sa più da quanto tempo vive, ha perso il conto dei cambiamenti che ha visto fare al pianeta e alle persone. Si è abituato al progredire maledetto di una società spolpata e distrutta fino a formare una sottile ragnatela traslucida e nient'altro, lo scheletro di un mostro divorato dallo scorrere del tempo.
E Lance fornisce risposte secche e spesso ironiche, è sicuro di sé e conosce il suo corpo e il modo in cui funziona, tanto da essere a tratti megalomane e senza via di scampo, ma è il suo modo di sopravvivere a un mondo che graffia. Un mondo con i denti e pieno di individui che vogliono mordere. Solo così può farsi rispettare da Kilian.
Ayar si sente strana – più di prima. Sente il sangue scorrere nelle vene, la pelle risanata e più forte, un'energia che non ha mai sentito addosso. È quasi una droga, tanto che si chiede se riuscirà a farne a meno, d'ora in avanti. Quando assaggi la mela del peccato non puoi tornare indietro.
Kilian le si avvicina, oltrepassa Lance e le dà una veloce occhiata per accertarsi che sia tutto a posto. «Hai fatto un ottimo lavoro», si complimenta con Lance, «ora vediamo di sistemare anche il resto», ha l'orologio fra le dita e Ayar non intende sottostare a quella follia.
Non può rubarle ciò che le ha fatto. Vorrebbe dimenticarlo, vorrebbe rimuoverlo e tornare da Edvin felice e inconsapevole, ma non vuole che ciò accada mai più e per evitarlo deve conservare le sue memorie.
Non può dimenticare, non ancora, non di nuovo. La certezza che ciò potrebbe essere già accaduto, la possibilità di averlo dimenticato fra un giro di clessidra e qualche granello in corsa, la terrorizza.
«No», i canini premono contro le gengive e lo guarda con un ghigno animale, una bestia intrappolata in un corpo minuto e all'apparenza debole.
Scatta con le dita sullo sterno di Kilian e si sente invincibile quando riesce a scavargli dentro la pelle. «Non mi devi toccare», ringhia. Le unghie graffiano, strappano la carne, riesce a farsi spazio fra la sua gabbia toracica per raggiungere il centro della sua vita, riesce a far scalpitare le dita fra un osso e l'altro.
Una goccia di sangue percorre il mento di Kilian, lui la guarda con gli occhi spalancati. L'orologio scivola giù dalle sue dita, si infrange contro il pavimento con un tonfo pesante. Le sue mani raggiungono il polso di Ayar, per metà dentro al suo addome.
«A-Ayar», rantola confuso, poi lei sale con uno scatto e stringe fra le dita il suo cuore, lo sente pulsare e chiude gli occhi, assapora la sensazione che le avvolge il corpo, avverte la felicità e la gioia intrinseca al dolore che gli sta causando. Un atroce male fisico che lo costringe immobile con il suo polso pugnalato nello sterno e graffiante, le unghie che scavano per rendere più pressante quel dolore.
Gli strappa via il cuore, trattenendolo contro il palmo della mano, e se lo rigira fra le dita per guardarlo con inquietante attenzione. È un normale cuore umano, non c'è niente di speciale. L'osserva con cieca indifferenza e una certa soddisfazione incanalata durante il sadico gesto di privarlo della vita tagliando via una parte umana fondamentale, recidendo i legami con il corpo e il sangue.
Lascia cadere il cuore di Kilian a terra, guarda Lance con un ghigno sprezzante. «Quando si sveglierà fagli sapere che i miei ricordi sono miei e basta. È l'unico avvertimento che intendo dargli», porta le dita alle labbra, lecca via il sangue che le inzuppa i polpastrelli. «Assurdo, è una persona orribile, però ha un buon sapore.»
✟
Ayar raggiunge la camera da letto di Edvin con le sembianze di uno zombie. Il suo corpo sta bene, la sua mente no.
È instabile, non vede altro che la rabbia cieca, fiumi di sangue che gocciolano davanti agli occhi. Non ne ha abbastanza, non ne ha mai a sufficienza. Ne vuole ancora. Non vuole smettere mai.
Entra in camera senza bussare.
«Dov'eri finita?», le chiede Edvin, e in effetti Ayar non sa cosa rispondere perché non sa quanto tempo è stata via.
«Taci», ordina, tentando di rimandare quella conversazione. Lo raggiunge sul letto, non le causa timore né imbarazzo circondargli il bacino con le cosce e raggiungere le sue labbra per zittire ogni tentativo di dialogo.
Sta male e ha bisogno di distrarsi, allontanare il dolore e sperare che smetta, tentare di estinguerlo in ogni modo. Vorrebbe che fosse semplice, che bastasse versare dell'acqua sul fuoco e zittirlo in nuvole di fumo e cenere.
Raggiunge il collo di Edvin con la bocca, lo morde, traccia sentieri sulla sua pelle con la lingua per sentirlo rabbrividire prima di affondargli i denti nella carne.
«Hai il suo odore addosso», mormora Edvin, il tono della sua voce è freddo, glaciale. Tanto che le fa rizzare i piccoli peli sulle braccia, le fa abbandonare la pelle.
Ritrae i denti, cerca il suo sguardo. «L'odore di chi?»
Lo sa benissimo, in realtà, ma spera che abbia frainteso.
«Kilian», risponde Edvin, la scosta da sopra di sé per alzare il busto e tornare a sedersi sul letto. «Perché hai il suo odore addosso?»
Ayar vorrebbe farsi talmente piccola da non essere più visibile per nessuno, un acaro della polvere. Gli occhi le si inumidiscono di nuove lacrime, le sclere si arrossano e il sale le riga le guance.
«Ayar, che cosa hai fatto?», insiste Edvin, è neve sul caldo bollente della pelle.
«Io non volevo che andasse a finire così», il petto freme, tira su col naso mentre annega fra le lacrime. «Non volevo, Edvin, te lo giuro, non volevo.»
A Edvin si stringe il cuore nel vederla in quelle condizioni, comprende che il suo dolore è reale – come sempre, in fondo.
E intrecciare i fili e comprendere cosa le è successo fa male. Fa male anche se la sua pelle è intatta e nessuno la sta incidendo e tagliando. Fa male anche se non si sta spegnendo addosso una sigaretta.
La stringe a sé, non ha niente da dire. L'odore di Kilian sulla sua pelle lo disturba, la rabbia è un aggrovigliarsi cieco nel suo intestino.
Doveva proteggerla, e invece ha permesso che lui le facesse del male e non se n'è neppure accorto.
Ayar si asciuga le lacrime. «Tu ci sei sempre per me, mi rendi felice», lo guarda negli occhi quando vomita quelle confessioni, certa delle sue parole, sicura che Edvin sia l'unico in quell'abisso a non volerle causare del male.
Il loro bacio sa di sale e lacrime, di dolore e angoscia. Ayar lo cerca con tutta la distruzione e il devasto che contiene dentro di sé, sensazioni che brillano fra le costole e rimangono intrappolate nella gabbia d'ossa. «Penso davvero di amarti», sussurra a un soffio dalle sue labbra con gli occhi lucidi, poi lo spinge giù, fa in modo che torni a stendersi per salirgli sopra e far saltare i bottoni della sua camicia di fretta, senza curarsi dei tagli e le cicatrici nascosti sotto ai vestiti, senza vederli neppure – perché per Ayar, Edvin è bello anche con i suoi difetti, con i segni del dolore in linee scomposte, con il suo masochismo delirante ed estremo. Perché forse può vedere il suo male e capire quanto soffre, è come se ogni taglio urlasse quanto ha bisogno di sentirsi la pelle distrutta per cancellare l'inferno che ha dentro.
Si spoglia da sola, senza timore, certa di non avere lividi e sicura che il suo corpo sia morbido e carino come sempre, roseo e pieno di vita quanto basta. All'esterno è bella, ma dentro ha solo demoni che ringhiano e si azzannano a vicenda. Mostri informi.
«Vorrei vederti gli organi, secondo me sei bello dentro», soffia sulle sue labbra, e lo pensa davvero. Non importa se il suo corpo è sormontato da linee e macchie bianche, Edvin è buono, è dolce, è puro in un mondo che ha tentato di macchiarlo d'inchiostro, ma senza successo, perché dentro non c'è il mostro che vive in Ayar, e ne è certa.
Sospira, quasi frustrata, quasi sofferente, gli sbottona i pantaloni per fare in modo che diventino una cosa sola. E si sente meglio, si sente felice, si sente amata a sua volta. E al tempo stesso quella sensazione è ancora lì, ancora infiltrata nello stomaco, aggrovigliata fra le interiora.
Le sue pupille saettano sul coltello che è appoggiato sul comodino.
Lo raggiunge con le dita, lo trascina sul petto tracciato di disegni, sporcato dalle cicatrici dei tagli ormai risanati. La sua epidermide è sottile, vittima delle innumerevoli ferite che nell'eternità del tempo hanno continuato a deturparlo.
Ayar sorride con pallida dolcezza, il volto distorto in un'amorfa macchia di crudeltà e sofferenza – cerca il dolore degli altri per alleviare quello che sente, per frenare i pensieri che sfrecciano, è diversa da Edvin. Eppure c'è amore nel modo in cui cala la lama sul petto di Edvin e traccia una linea orizzontale all'altezza del cuore, e poi taglia ancora, e ancora. Disegna di rosso ogni frammento epiteliale, tratteggia la cute dipingendola di un amaranto torbido, richiama le fiamme del sole al crepuscolo, l'amalgamarsi del rosa e dell'arancio, dei toni caldi su un mare gelido, lo sente soffrire sotto alle sue dita e non le proibisce di farlo, non le chiede di smettere, non le blocca i polsi.
Ayar lo bacia e lo taglia, strappa la sua pelle, vuole affondare le dita nel suo sterno e scoprire ogni organo, vedere com'è fatto, vorrebbe rigirarsi anche il suo cuore fra le mani, ma non lo odia abbastanza da strapparglielo via.
Edvin è davvero bello quando il sangue macchia il materasso e lo inzuppa tanto che gocciola fino al pavimento, una pozza informe che quasi ribolle. L'immortalità che smette di correre per un attimo – solo qualche minuto – mentre Edvin muore, si spegne fra le sue dita, gli occhi sbarrati – eppure c'è amore nel modo in cui la guarda –, la bocca socchiusa, il volto più pallido del solito.
Il corpo è immobile, il petto non freme più. Niente tumultuosi battiti del cuore, soltanto i suoi. Forse pulsa ancora, ma piano. Lento.
Ayar solleva la sua mano di fronte al viso, guarda il sangue che la macchia fino ai polsi e scende tracciando linee sugli avanbracci fino a raggiungere i gomiti. Insegue una goccia con la lingua, chiude gli occhi e si ripulisce le dita. Nuda sul suo corpo, si rende conto che quello che sta facendo le piace da morire. Bizzarro, insano e sbagliato, ma innegabilmente divertente. Basta a placare i pensieri che sfrecciano, basta a cancellare il dolore dell'essere vittima perché si è trasformata in carnefice, e far soffrire gli altri fa meno male.
Poi, quando comprende che Edvin è morto per causa sua, quando nota che i suoi occhi sono vitrei e sbarrati, le lacrime bagnano le ciglia, cadono con la dolcezza delle bolle di sapone, s'infrangono al contatto con l'aria.
La quantità d'icore sul pavimento è spaventosa. Ayar ha i brividi, non capisce perché si è comportata così. Ha agito cieca – come sempre – e inconsapevole. Non ha visto più nient'altro che quel bisogno sadico, poi è sfociato nell'orgasmo che l'ha travolta mentre Edvin si spegneva fra i rantoli.
Si è lasciato torturare – ammazzare.
Si è lasciato ferire – tagliare.
Solo per lei.
Forse non è meno mostro di Kilian.
Forse è il suo modo per sfuggire al dolore che l'ha distrutta. Forse è colpa di Kilian e di nessun altro, anche se lei ha mosso la lama.
Forse è colpa dell'amore viscerale che Edvin nutre nei confronti del dolore, la sua paradossale medicina contro i mali del mondo. Solo un masochista può comprendere quanto è speciale, e Ayar non lo sa, ma Edvin non le ha impedito di ferirlo, e se le avesse chiesto di fermarsi forse l'avrebbe fatto.
Ayar piange. Piange tutte le sue lacrime e guarda il corpo di Edvin distrutto per punirsi, per marchiare quell'immagine sulle retine e non dimenticarla mai. Come può essere così incoerente e discordante nel pensare di amarlo e fargli comunque tutto questo?
Si riveste in fretta, anche se il tessuto le si appiccica alla pelle macchiata di rosso e le dà fastidio. Anche se si sente sporca.
Sospira e torna dal suo corpo.
Gioca con le sue viscere, cerca il suo cuore per stringerlo fra le dita e sentirlo pulsare ancora vivo, ma lento, troppo lento.
Ritrae la mano, dà le spalle al suo corpo immobile. Non vuole vedere i suoi occhi vitrei.
Edvin deve svegliarsi e Ayar non sa quanto tempo ci vorrà. Ha ancora il petto distrutto dai tagli e le vecchie cicatrici, il sangue che gocciola e la fa sussultare, quasi un rubinetto chiuso male di notte.
E se Edvin non si svegliasse?
Quella possibilità basta a farla impazzire. Comincia a camminare nervosa nella stanza, si guarda intorno in quell'ambiente che non le appartiene e si domanda perché Kilian non sia già lì.
Quanto tempo ci impiegheranno ad accorgersi che lo ha ucciso?
Ha paura di non vedere mai più il suo corpo muoversi.
Ha paura di averlo ucciso per davvero.
Fino a che punto sono uguali?
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