15. Fra tombe, dolore e ricordi
"Ora è nella notte il momento delle streghe, quando i cimiteri sbadigliano e l'inferno stesso alita il contagio su questo mondo."
William Shakespeare
✟
«Kilian si arrabbierà.»
«Kilian può andarsene a fanculo», Ayar non ha nessun timore mentre pronuncia quelle parole.
«Ti ho già spiegato che è pericoloso», le dita della mano sinistra di Edvin, sormontata da tatuaggi e inchiostro nero, è persa nei suoi capelli di sangue e si diverte a giocarci e ad averla così vicina, il capo appoggiato sul suo petto e le gambe incrociate in un amorfo nodo, un intruglio che sa di amore appena sbocciato, idillio pronto a sfumare alla prima occasione.
«Possiamo cavarcela contro una o due guardie, basterebbe dissanguarli. Non sono mai in gruppo. E noi siamo più forti.»
«Questa è una pessima idea.»
«No, Edvin. È geniale. È quello che ci serve per far capire a Kilian che siamo liberi, persone con un cervello e una personalità. Umani con una fottuta morale. Smetterà di fare lo stronzo, ne sono certa. Una volta perso il controllo sarà disposto a contrattare, troveremo un accordo.»
«O farò anche io la tua fine e sarò messo in gabbia di nuovo», Edvin ha le pupille perse oltre il soffitto e il petto infranto dai sospiri.
Ayar si tira su, cerca il suo sguardo. «Lo ha fatto anche con te?»
«Sì. E io ci sono stato molto più di te, lì sotto. Non voglio tornarci.»
«Come puoi essere tanto devoto a lui dopo quello che ti ha fatto?»
Quelle parole riescono a smuovergli qualcosa, a pietrificarlo. Le sue dita si bloccano, abbandonando quel contatto che non ha rifuggito – non più, almeno per quella notte. Perché è unica, perché non tornerà, e perché ha l'impressione che sia già finita.
«Mi ha salvato», mormora Edvin, e forse non è neppure così sicuro delle sue parole. Non più.
Ayar sorride appena, sa di aver cominciato a convincerlo, deve solo insistere un altro po' e far valere le sue opinioni.
«Ti ha salvato per schiavizzarti. Ti ha promesso i tuoi ricordi – ricordi che ti spettano di diritto, per quanto al sistema non piaccia questa idea – e ti ha aiutato a ritrovarli, ma lui non può fare niente se tu non lo lasci entrare, se non parli con lui e gli dici cosa vedi. Lui... lui non ha nient'altro che questo per tenerci qui, i nostri stessi ricordi. Ma nella mente saranno protetti per sempre, se non li facciamo vedere a nessuno, perciò non credo che lui sia essenziale per riottenerli del tutto. E, in ogni caso, non dico che dovremmo andarcene da qui per sempre. Facciamo in modo che non ci trovi al suo ritorno, facciamo in modo che si arrabbi, che pensi che non torneremo mai più indietro, che s'illuda d'aver rovinato tutto con la sua aggressività perenne e quel malumore che non lo lascia mai. Capirà, quando torneremo e detteremo le nostre condizioni. Lui tiene molto a te, ti riaccoglierà a braccia aperte.»
Edvin la guarda e il desiderio di ascoltarla è travolgente. Ha desiderato di scappare a lungo e di non fare mai più ritorno, ma sa che non è possibile senza un posto dove stare – dovrebbero trovare un'altra casa come quella, nascosta nel bel mezzo del nulla, sottoterra, dove non passa mai nessuno e dove nessuno viene mai a curiosare. Non è semplice se non si sa dove cercarla, sebbene Edvin sappia con certezza che devono essercene molte altre. Da quando il mondo è diventato tanto strano e controllato, gli umani hanno tentato di tenersi stretta la loro libertà e di sfuggire al controllo, alle reti intrecciate, alle connessioni. Quelli con del denaro l'hanno sicuramente impiegato per ottenere la libertà – un po' come ha fatto la famiglia di Kilian con quella casa.
I soldi bastano a comprare qualsiasi cosa, anche l'indipendenza, l'autonomia. Muovono tutto, e Edvin sa che è sempre stato così. Col tempo gli esseri umani sono diventati solo più avari, come se in un pianeta tanto piccolo potessero conviverci in eterno così tanti individui.
È davvero assurda la stupidità della loro specie. A quel punto ci sono arrivati con le loro stesse mani, scavandosi i problemi e costruendo crudeltà.
«Io vorrei farlo davvero, Ayar. Non hai idea di quanto vorrei essere libero.»
«Allora facciamo un casino», Ayar si alza, tira l'altro in piedi e gli stampa un bacio veloce sulle labbra. «Fidati di me. Andiamo a divertirci e freghiamocene di Kilian. Non potrà certo arrabbiarsi perché finalmente io e te non litighiamo più.»
Edvin si inumidisce le labbra, sente ancora il suo sapore di zucchero e non riesce più a dirle di no, sebbene sia consapevole delle conseguenze. «Va bene, facciamo questa follia.»
✟
«Dobbiamo stare attenti ora che siamo in superficie», dice Edvin. Respirare aria nuova e pulita è strano e derealizzante. È da un bel po', ormai, che non torna lì – da quando hanno rapito le ragazze. Non c'è più stato un motivo per uscire, e c'è bisogno di una motivazione per abbandonare casa, Kilian non ama quando passa il tempo a vagabondare con il rischio di farsi beccare da qualcuno, mettendoli tutti in pericolo. Quei pensieri lo fanno riflettere e lo spronano e ritornare sui suoi passi, ma scuote il capo e respira. «Bene, dove vuoi andare? Evitiamo il centro città e i luoghi trafficati, sono quelli più controllati.»
«No, certo, non dobbiamo farci vedere da nessuno», annuisce Ayar, sa bene come funziona il mondo. «C'è un posto in cui andavo spesso, non c'è mai nessuno e ricordo la strada.»
Il cancello di ferro sfrigola con uno stridulo suono metallico, raschiando il terriccio cosparso di ghiaia e gelida neve. È decorato da ghirigori morbidi e punte acuminate che s'innalzano verso il cielo, il metallo è rovinato e ingrigito dal tempo. I rami spogli e secchi degli alberi creano ramificazioni che si diradano nell'azzurro dell'alba.
Kilian torna a casa, o almeno è ciò che pensano, e loro escono e s'immergono nel mondo che a quell'ora è silente, ancora addormentato. Le primi luci lo risvegliano e rischiarano vaghe, le nuvole interrompono quella limpida distesa con un grigio nebuloso.
Oltre al cancello, la stradina si stringe e dirada in infinite direzioni. È un cimitero quello in cui sono andati, non esiste posto meno popolato di quello, ancora di più in quel momento del giorno. Fa freddo e Ayar si stringe nel cappotto nero che ha recuperato dentro il suo armadio e che le sta bene, le slancia la figura e scalda quanto basta. I suoi occhi chiari si perdono sulle tombe, vengono di continuo intervallate da vecchie statue decadenti e distrutte, cadute a pezzi. Nemmeno una ne è rimasta intatta, per questo sono rimaste lì e nessuno si è premurato di toglierle. Non è più arte viva, è un'arte grigia e decadente, dimostra che perfino la scultura può morire.
Si siedono su una panchina rovinata, contemplano il silenzio, respirano aria pulita e guardano il cielo tingersi sempre di più di rosa fino a sfumare in un banale azzurro. Edvin fuma una sigaretta per scaldarsi, Ayar segue ogni suo movimento, curiosa di scoprire ogni dettaglio di lui.
Le emozioni che prova sono inspiegabili, non lo conosce poi così bene. Non è da tanto che si trova lì – anche se con i giorni trascorsi in gabbia ha perso il conto – ed è assurdo che ci stia così bene, insieme. Forse Kilian a qualcosa è servito, dopotutto. Le ha fatto scoprire che l'amore può esistere ancora, può vivere anche in una società tanto oscura.
Vorrebbe amarlo davvero, e allora emula l'amore e spera d'innamorarsi così. Lo riproduce per quel che sa, rielabora quelle poche e confuse informazioni disperse nella sua memoria. Non lo ama, non può amare qualcuno che conosce da così poco tempo, non può amare qualcuno che le ha spezzato il collo, che uccide, che è mostro quanto lei.
Non può amare e basta, non è umano. Non è consentito. E forse il sistema e le sue convinzioni le si sono inculcati nel cervello più di quanto creda.
Edvin è fragile sotto all'armatura di scaglie di drago che si è cucita addosso. Ayar vuole strapparla via anche se le ferite sanguinano, vuole infiltrarsi oltre a quelle barriere e al tempo stesso vuole allontanarsi. Non sa più cosa prova, le sembra di aver smarrito se stessa. Non sa più in cosa credere, non è più in grado di stabilire a quale emozione affidarsi, quale sia la migliore a cui aggrapparsi.
«Qui è bello», dice Edvin, e Ayar è felice di vederlo tanto stupito. Si guarda intorno e riesce a meravigliarsi di quella bellezza anche se la casa in cui vive è piena d'arte protetta, non disintegrata dal tempo e le peripezie climatiche.
«Lo so, per questo ci venivo spesso», Ayar lo tira per la mano, stringendo le sue dita come a non volerlo lasciare andare mai più. Non è semplice spiegare e dare un nome alle sue emozioni, ma si sente viva. E innamorata, e perfino meno sola. Quella sensazione di vuoto perenne è svanita nel nulla, ogni volta che lo abbraccia sente il cuore urlarle di rimanere ancora un altro po' lì.
Avanzano fra le tombe e le croci, osservano i volti nelle fotografie di alcune lapidi e si chiedono in che condizioni siano le persone lì all'interno.
I fiori sono tutti secchi, ma ci sono delle viole dall'aspetto decadente e sgretolante su un vecchio epitaffio in un latino incomprensibile, sembrano quelle rinsecchite meglio in mezzo a troppi fiori distrutti, i petali sono ancora tutti al loro posto.
Edvin afferra quel fiore, rubandolo dalla tomba, e lo porge ad Ayar.
Lei sorride, le guance si colorano di rosso – un cremisi che tinge il bianco e il nero di quel posto – e gli occhi brillano di una dolcezza tutta sua, di lacrime appena accennate.
Lei è come una perla. È bella con le sue ferite e i tagli nascosti, è frutto della sofferenza, della malattia. Le ostriche abbracciano i corpi estranei e con fatica e dolore ne ricavano perle splendenti, prodotti del malessere e al tempo stesso opere d'arte che adornano collane e illuminano le pupille umane. Perché c'è bellezza anche nelle lacrime, in fondo.
Cerca le sue labbra per dargli un bacio, famelica ora che ha scoperto quanto le piace – quasi più del sangue. E subito ha di nuovo quella strana sensazione al basso ventre, scosse elettriche che la portano a volere di più, a stringerlo per sentirlo vicino, perché non le basta mai.
«Lo voglio fare di nuovo», abbandona le sue labbra solo per un istante, solo per renderlo partecipe di quel pensiero, la voce trascinata dalla lussuria e dal bisogno costante che ha di lui. Talmente innamorata che i suoi ormoni sono impazziti e vorrebbe attorcigliarsi al suo corpo ogni cinque minuti solo per sentirsi amata, desiderata. Bella.
Non c'è più nulla che possa fermarli, ormai, anche se la notte è finita, ed è una consapevolezza che scalda Edvin, una libertà che lo fa stare bene.
Ayar si alza in piedi. «Vieni con me.»
✟
Lo ha portato nel lato più profondo del cimitero, sono circondati solo da tombe chiuse, occultatrici di corpi decomposti fino alla polvere, divorati da vermi e larve. Lo spinge all'indietro, Edvin si siede su una delle lapidi e Ayar gli circonda il bacino con le gambe e corre con i denti sul suo collo, li affonda nella carne senza neppure chiedergli il permesso.
Edvin la lascia fare, non ne beve molto e risale subito a rapirgli le labbra, a fargli sentire il suo stesso sapore. Lo lascia respirare per scivolare verso il basso, rabbrividisce per il gelo quando le ginocchia toccano terra, per fortuna coperte dai vestiti. Corre con le dita a slacciargli la cintura, un sorriso malizioso le taglia il volto.
Edvin ha le palpebre abbassate scurite dalla linea curva delle ciglia, le labbra appena schiuse per respirare e trattenere il piacere che lo corrode e divora. Sapere che sta così bene grazie a lei lo rende vivo, è come se finalmente avesse un motivo per esistere. Instaurare bizzarri rapporti con gli altri e fare cose impronunciabili, vietate, proibite.
Le sensazioni lo investono come un treno in corsa. Forse ciò che c'è di bello in quello che fanno è proprio la certezza che sia scorretto.
Edvin geme e spinge la testa di Ayar contro il bacino, le dita perse fra le ciocche di sangue che stringono quasi fino a fare male. Poi la scosta, la sensazione addosso di essere osservato – non riesce a liberarsene mai, neppure per un istante.
Non è reale, se davvero lo stessero guardando li avrebbero già fermati, perché non si fa.
Al massimo sono i fantasmi a godersi lo spettacolo, solo anime smarrite e incapaci di proferire parola, modificare il presente.
Ayar risale con la lingua e gli traccia una scia umida sul collo, poi si abbassa in fretta i pantaloni e le mutandine e si spinge sul suo bacino, rubandogli un bacio e il fiato.
Porta le dita alla sua gola, quasi a stringerla appena, in un blasfemo tentativo di ottenere il controllo. Le piace essere lei quella che conduce i giochi, scegliere il ritmo, sentirlo sospirare contro le sue labbra, e il fatto che siano in un cimitero e che chiunque potrebbe sorprenderli lo rende ancora più divertente.
✟
Kilian ha visto Ayar e Edvin al cimitero, ha scoperto che sono fuggiti via. È venuto a conoscenza del tradimento di Edvin.
Si fidava di lui, credeva fosse diligente e responsabile abbastanza da non commettere tale follia rischiando di rovinare ogni cosa.
Eppure lei lo ha convinto a peccare, ha cancellato la sua razionalità e l'ha corrotto.
Kilian vorrebbe interromperli e vedere i loro visi sconvolti, adirati per essere già stati scoperti, ma qualcosa lo blocca. Sono avvinghiati uno all'altro sopra una lapide, Ayar che continua a strusciarsi contro il bacino dell'altro e le loro voci che si mescolano al vento, gemiti di piacere e vita.
Si rende conto all'istante che guardare loro avvinghiati e coinvolti gli piace, gli causa una strana sensazione al bassoventre che è quasi pari a quella che prova quando pensa ai cadaveri, ai corpi morti e unanimi. Forse solo perché è all'esterno, perché non è coinvolto in quella vicinanza tale che lo farebbe inorridire.
Nascosto all'ombra di un albero, la pelle bianca e spettrale e i capelli in disordine che gli ricadono di fronte al viso, non può sottrarsi alla voglia che ha di continuare a guardare fino alla fine. In silenzio religioso, le pupille catturate dalla loro bellezza che sfuma in arte.
Ora comprende perché ha così tanto bisogno di loro. Di entrambi.
Riescono a creare una nuova, strana e sbagliata bellezza, sono arte al punto che gli manca il respiro, ha un peso che gli schiaccia il petto e lo priva dell'aria, ha le vertigini e il capo che gira. Ha paura di quelle sensazioni, ha paura del loro sempiterno incanto.
✟
Ayar si tira su i pantaloni e si siede vicino a Edvin, sulla lapide che hanno appena usato in sostituzione di un letto. «Molto divertente», sottolinea con tono allegro, «ora che facciamo?»
Edvin scrolla le spalle. «Eri tu quella che voleva venire in superficie. Andare in giro insieme è pericoloso.»
«Giusto», annuisce Ayar, «beh, so come potremmo divertirci, in effetti».
Il piano di Ayar è semplice, ma efficace, e se basta un'idea semplice per occupare il tempo e sopravvivere lì fuori è senz'altro la strada giusta da percorrere.
Ayar ha riassunto il suo schema mentale in tre punti.
Il primo è scegliere il luogo. Una casa qualunque, meglio se fuori dalla città, e ne avvistano una a qualche chilometro dal cimitero, la prima sulla loro strada. Sembra isolata, silenziosa e confortevole, anche se minuta. Il tetto è spiovente e pare ci sia un camino al suo interno, del fumo scuro esce dal comignolo in mattoni rossi.
Ayar si morde il braccio, traccia un lungo taglio verticale con i canini e lascia che il sangue le scorra copioso e le imbratti la manica. Poi bussa con le nocche sul legno, in attesa di una risposta dall'altro lato.
Apre una signora anziana. È strano che abiti lì, nel bel mezzo del nulla, ed è strano che il suo volto sia imperlato da così tante rughe. Evidentemente fuori città si sta bene, si vive soli e più a lungo, si invecchia – e chissà, forse si muore perfino. Lo scopriranno presto.
«Salve», dice, gli occhi pieni di lacrime – è così brava a piangere, è talmente semplice per lei, che neppure si rende conto di quanto sia tutto una recita. Forse si sente già in colpa, ancora prima d'averlo fatto, pur essendo consapevole di essere l'artefice di quel piano malato per avere un rifugio e trascorrere qualche ora – qualche giorno? Chissà. «Sono scivolata e mi sono ferita, non ha per caso del disinfettante per medicarmi? Qualcosa per fermare il sangue?»
Gli occhi della donna si fanno preoccupati e vigili, sembra in pena per la sua salute. «Certo, certo, entra pure», le dice senza alcuna formalità, invitandola a oltrepassare la soglia.
Ayar sorride. Non le dà neppure il tempo di voltarsi e andare in cerca di garze sterili, affonda la lama del suo coltello – quello che ha sempre con sé, e che ha recuperato prima di uscire di casa poiché non se ne libera mai, soprattutto se è esposta ai pericoli del mondo in superficie – nella sua schiena.
Cerca di sentire scricchiolare le ossa, con le sue urla nelle orecchie e il rimbombo muto di un cuore che cessa di battere.
La donna è già morta quando la lama esce e riaffonda nello sterno, lacerando con più facilità la carne, oltrepassando le barriere di pelle e frammenti di vertebre, ma Ayar la pugnala ancora e ancora finché la mano non le sparisce nel buco nero del suo sterno distrutto, ormai un amorfo vuoto che sgorga sangue.
«Edvin, ho finito. Puoi entrare», chiama l'altro.
E non è più tranquilla come al principio. Renderlo reale ha un altro sapore.
✟
Ayar piange.
Piange come se non avesse più un motivo per vivere.
Il suo umore è cambiato all'improvviso. È passata da una calma pacata e morbida, dalla freddezza e dal gelo con cui ha annunciato quella morte e programmato quel piano, a un fiume di sale e lacrime che le rende le sclere rosse e gli occhi spenti per il dolore. Singhiozza contro il petto di Edvin e si sente un mostro. Ha ancora ceduto al suo lato animale, sadico, irrefrenabile. Ha assecondato quella fame, che non sta tanto racchiusa nel bere il sangue, quanto più nel farlo scorrere ed essere artefice delle ferite, carnefice di corpi divenuti insignificanti prede.
«Io sono un mostro», mormora in un flebile soffio che viene attutito dal tessuto dei vestiti dell'altro. Può sentire il cuore battere, è una melodia rassicurante, le ricorda che non è tutto morto e non c'è motivo di arrendersi.
Però a volte crolla al suolo. A volte non riesce a rialzarsi. A volte piange e piange soltanto, non c'è l'ombra di un sorriso né lo spettro di un ricordo felice. Non c'è più motivo per esistere, ma ci sono infinite ragioni per spegnersi.
Edvin cerca le sue labbra fra il sale e le macchie di sangue che le hanno rovinato i vestiti. Insegue le lacrime con la lingua per estirpare e raccogliere la sua dolcezza, farla sua, vorrebbe assorbire tutto il suo male per privarla del peso che le comprime le costole e stritola il cuore.
La prende in braccio, la porta nella camera da letto e le toglie il cappotto e la felpa inzuppata di sangue. Le allunga la coperta fino al collo e smarrisce un bacio fra i suoi capelli.
La lascia da sola per un po' con i suoi pensieri e il corpo che trema, i sensi di colpa. Trascorre un tempo indefinito, attimi che Ayar passa guardando il soffitto, ma non vedendolo davvero. C'è spazio solo per le lacrime e il senso di colpa che la corrode.
È sempre così. È sempre la stessa storia.
L'idea di uccidere le piace. La entusiasma, la carica di un'euforia devastante. L'adrenalina le pervade le vene, scorre nel suo corpo, è come un treno che le sfracella le ossa e la riduce in poltiglia.
Poi, però, rimane solo il vuoto. La crudele certezza di aver infranto una vita, di averla distrutta per egoismo, per sopravvivenza.
È un mostro con dei sentimenti, ma li prova sempre quando è troppo tardi per riparare al danno.
E poi scappa. Scappa sempre. Rinnega il suo errore, cerca un modo per dimenticare.
Quando Edvin ritorna in camera, Ayar solleva la schiena e lo cerca con lo sguardo. Ha due bicchieri di vetro in una mano, una bottiglia nell'altra.
«Ci credi? Quella donna si fa il vino da sola», le allunga un bicchiere e lo riempie di un denso liquido rosso, una viscida simulazione del sangue.
Si accende una sigaretta subito dopo essersi seduto al suo fianco. Si guarda intorno, cercando di simulare un'assente curiosità. Quel luogo non gli appartiene, non è casa sua, e sembra saperlo e sentirsi colpevole di essersi infiltrato in quell'ambiente. Non ha molta scelta, ora che ha seguito Ayar. Sa che avrebbe dovuto insistere ed evitarlo, tutte le sue scelte sono state affrettate e non faranno altro che causare problemi.
Cerca di respirare e calmarsi. Ci penserà in seguito, è troppo presto per cominciare a preoccuparsene. Il primo problema da risolvere è Ayar.
Sa quello che prova, anche se reagiscono in maniera diversa. Ayar piange, piange tantissimo ed è impossibile frenare le sue lacrime.
Edvin compensa quell'assenza uccidendo il senso di colpa. Se ne disfa in maniera diversa, lo fa con le sigarette che si spegne sulle braccia, con i vetri che utilizza per tagliarsi i polsi e disegnarci amorfi tratti per contare i peccati. Il dolore lo fa sentire libero, è il giusto peso per scontare le colpe che gli macchiano l'anima e la rendono oscura e torbida.
Lontano da casa, Edvin si sente strano. Carico di un'energia che di solito non ha, gli viene prosciugata dalla vita lì sotto.
Non vede Kilian da molto tempo. Non ne passa mai così tanto, non lo ha più visto da quando ha deciso di uscire – senza dirgli, come al solito, dove stava andando.
Si sente quasi coraggioso, disposto ad aprirsi con lei, anche solo per farla smettere di stare così male. Vuole aiutarla, un bisogno inumano.
Manda giù in fretta il suo calice di vino, poi lo abbandona sul comodino a fianco al letto e il vetro produce un rumore flebile contro il legno. «Ayar», la chiama, attirando i suoi occhi su di sé, «non c'è niente che non va in te. Le lacrime sono una reazione normale. Sono il peso che rende equilibrata la tua maledizione.»
Ayar si passa i palmi sulle guance, scacciandole via quasi con rabbia. «Perché tu non lo fai, allora?»
Edvin prevedeva quella risposta. Si sbottona la camicia un bottone alla volta, con calma e senza proferire parola. Ayar insegue le sue dita con le pupille, confusa dalle sue intenzioni, fino a trovarsi di fronte la sua pelle bianca e costellata di disegni scuri. Prima o poi gli chiederà i loro significati, quando non sarà occupata a strizzare appena le palpebre per vedere meglio le linee argentee che si ramificano sulla sua pelle in amorfe raffigurazioni del dolore. Quando la leva via dalle braccia, poi, comprende davvero la natura di quelle cicatrici: tagli inferti volutamente sulla pelle sana per squarciarla e segnarla per sempre.
I tagli si risanano, ma le cicatrici non spariscono mai.
Ayar appoggia sul comodino il suo calice ormai vuoto e gli si avvicina, prende una delle mani di Edvin fra le sue, le pupille fisse sugli squarci imprecisi, segno che non smette mai, che guarisce per incidersi ancora la pelle, infiltrato in un vortice da cui non è in grado di uscire. Vittima di un'ossessione che funziona da gabbia e lo rende prigioniero del dolore.
«Perché io cancello il senso di colpa in modo diverso», si sente debole e fragile con le ferite scoperte.
«Quando hai cominciato a farlo?», chiede Ayar. Certe cose puoi conoscerle solo se ti vengono svelate, e spera di avere il permesso d'intrufolarsi in quegli attimi vecchi e saperne di più, sentirlo scavare in se stesso fino a vedere riflessa nei suoi occhi una parte di sé.
«Quando sono rimasto da solo, credevo che fosse colpa mia. Pensavo di essere stato abbandonato per sempre, sapevo che non li avrei rivisti mai più.»
«Ma... perché procurarsi del dolore fisico? Non ti restituisce ciò che perdi», Ayar non riesce proprio a comprenderlo e lo guarda con le pupille che tremano.
«Perché è l'unico modo che hai per scappare, per anestetizzare e contenere il dolore. Tu piangi, io mi faccio male. Sono solo modi diversi di reagire. E in ogni caso non è poi così strano.»
Sembra un tentativo inutile di provare a convincersi che in fondo sia normale.
Per gli altri non lo è, Edvin lo sa.
«Posso farti male io quando ne hai bisogno, non serve che tu lo faccia da solo», dice Ayar, convinta che quelle siano le parole giuste.
Sbaglia.
«Ah, certo, se il dolore te lo procurano gli altri va bene, se te lo fai da solo no. Possono frustarti a sangue se lo desideri e sei consenziente, ma se ti tagli le braccia ti fanno la loro squallida paternale e ti dicono che è sbagliato e devi smettere. È difficile comprendere un masochista per chi non ama il dolore. Puoi comprenderlo e sputare sentenze solo quando ne sei vittima e in fondo ti piace. Ho sentito dire di peggio nella mia vita, mi hanno consigliato infiniti modi per smettere. Roba davvero folle, come scriversi con una penna rossa sui polsi per simulare il sangue, come prendere a pugni un cuscino per controllarlo, come trovarsi uno svago. Ciò che nessuno vuole capire è che io non voglio smettere.»
«Ma ora non sei più solo. Io non ti abbandono. Siamo immortali, possiamo essere felici insieme. Non serve che tu lo faccia ancora.»
«Ayar, sarebbe come se io ti proibissi di piangere. Pensavo potessi accettarlo. Credevo che almeno tu mi avresti compreso.»
Le sue parole sono gelide e fanno male. Riescono a ferirla e non è necessario che all'apparenza si veda scorrere il sangue.
«Non posso stare in silenzio mentre ti vedo distruggerti da solo.»
«Ma che importa? Sono solo ferite. Non mi sto distruggendo, mi distruggerei obbligandomi a non farlo. E poi credi davvero che non ci abbia provato? È così che ho conosciuto Kilian. Era il periodo peggiore della mia vita. Ero solo, i miei genitori non c'erano. Mi ha trovato un istante prima che decidessi di troncare la mia esistenza. Mi volevo ammazzare, per farla breve, perché ero certo che tentando il suicidio loro sarebbero tornati. Invece è arrivato lui. Mi ha detto qualcosa, non ricordo neppure come è riuscito a farmi scegliere di non saltare. Volevo annegare. Avevo raggiunto la vetta più alta sull'oceano, volevo sentirmi libero di volare e poi distruggermi. E poi mi ha convinto a non mollare.
Mi sono ritrovato chiuso in un ospedale psichiatrico. Aveva detto che non sarei rimasto da solo, e invece lo ero eccome. Circondato da matti, ma solo. Potevo vederlo una volta alla settimana. Era l'unica persona con cui volevo parlare, era l'unico di cui mi fidavo. Tutt'ora non so se sia stata una buona scelta quella di scappare, quando mi ha proposto di farmi evadere e nascondermi. Avevo paura di essere ferito dagli altri, da infermieri e dottori e pazzi, e invece l'unico di cui dovevo aver timore era paradossalmente l'unico di cui mi fidassi lì dentro. Ho perso tutto quello che avevo, pensi davvero che farmi del male possa essere la vera causa della mia distruzione?»
Quel monologo la disturba e scuote. È una lama che le rovista fra gli organi. Apprende pezzi del suo passato e li rende anche suoi, avverte quel dolore che lo divora e sputa a pezzetti. Scivola nel suo abisso torbido e risalire è difficile, si sente soffocare. Le lacrime le rigano le guance. «D'accordo», mormora, «ti accetto così come sei.»
Edvin le sorride, ma è più un taglio sanguigno sul volto pallido. Ayar lo raggiunge per sigillare quell'accordo con un bacio. Non vuole che finisca, si sente viva e ha un motivo per esistere. «Penso di amarti», non c'è emozione nel suo tono di voce, sembra non esserci realtà nelle sue parole, ma entrambi preferiscono crederci. In fondo ne hanno bisogno, ogni essere umano è in cerca della sua metà. Non esiste sistema che possa annullare questa legge, l'istinto radicato nell'individuo di cercare il pezzo che completa e sana le ferite. La persona che ti accarezza le cicatrici e non le guarda con disprezzo.
E Ayar non lo guarda con orrore quando vede i tagli, i segni sulla pelle, i residui granulosi e coagulati del dolore in gocce scarlatte che ancora gli macchiano le braccia. Ferite non risanate, cicatrici interrotte, cuciture e suture col ferro pungente d'un ago e spago ruvido.
Ayar gli bacia le palpebre umide di lacrime, avverte il sale fra le labbra e il dolore conservato fra le costole, ingabbiato fra ossa e sentimenti. Cerca le sue labbra, spera che la sua dolcezza basti a rendere meno amari i pensieri.
Vorrebbe curarlo da quel male esistenziale, ma non è capace nemmeno di far rialzare se stessa.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro