11. Perdere il controllo
"Ho paura talvolta anche del mio sangue che pulsa nelle arterie come, nel silenzio della notte, un tonfo cupo di passi in stanze lontane."
Pirandello
✟
Ayar segue i corridoi che la conducono alle gabbie con il cuore che batte a un ritmo forsennato. Ha dimenticato, in quei giorni, che è inquietante da morire stare lì sotto, camminare fra i tunnel asettici e sentire i lamenti, il graffiare lugubre contro ai muri, come se sotto la terra ci fosse qualcuno che urla e stride per farsi ascoltare. Sfuma nel suono dolce del vento, e Ayar ingoia il groppo che le chiude la gola e si ripete che è tutto frutto della paranoia, sono allucinazioni uditive – in fondo ha avuto un'allucinazione poco prima, con quella rosa e con le ferite delle spine, perciò ha compreso che non può affidarsi alla sua mente. Non è più attendibile, e non sa perché. Spera che non siano effetti collaterali dell'ipnosi, ma una cosa è certa: chiederà delucidazioni a Kilian appena avrà finito con il suo lavoro di quel giorno.
Raggiunge Edvin, nota che ci sono due sedie di fronte alle gabbie ancora chiuse e sigillate con i lucchetti. Sul tavolino in corridoio, inoltre, sono presenti degli oggetti in disordine e Ayar non riesce subito a capire di che cosa si tratta.
«Eccomi», si annuncia, «che dobbiamo fare? Spero niente di faticoso, non mi dispiacerebbe tornare a quello che stavamo facendo poco fa», aggiunge senza freni, anche se le guance le si tingono di rosso – è inevitabile. Però non può zittirsi e fargli credere che pensa sia stato tutto un errore, perché mentirebbe a entrambi.
Le è piaciuto, anche se è durato poco e sono stati interrotti sul più bello.
Edvin sembra irrigidire le spalle a quelle parole, i nervi tesi. «Dobbiamo rasare i capelli a tutte e cinque.»
Non risponde al resto, si preoccupa solo di darle quell'ordine, poi raggiunge gli oggetti sul tavolo, afferrando un paio di forbici. «Se ne rasiamo due a testa finiamo in fretta», dice, e raggiunge la prima gabbia.
Mette le manette alla prima ragazza, immobilizzandole le mani sul ventre. Ha lunghi capelli mossi e scuri, tagliarli è un peccato, ma non possono farsi sopraffare dalle emozioni e dall'inumanità di quel gesto. È solo per l'esperimento.
È solo perché sono costretti.
Ayar è rimasta immobile al suo posto.
«Vuoi rimanere lì a fissarmi ancora per molto o pensi di darti da fare?», le chiede Edvin, spostando gli occhi su di lei.
Si accorge che ha un'aria strana e spaventata sul volto, il suo sguardo raggiunge i piccoli fori sul collo della vittima.
Quelli che lui le ha lasciato poche ore prima.
E allora Edvin comprende il perché di quella reazione e sposta i capelli dall'altro lato per coprirli, anche se sa che non potrà nasconderli in eterno.
Non si preoccupa neppure un attimo del numero sul cartellino e dell'identità di chi ha di fronte, ma comincia a tagliarle i capelli per accorciarli e rasarli in seguito con un rasoio elettrico. Non si cura già più delle lacrime, della paura di chi subisce e supplica. Sono preghiere che non lo raggiungono, vengono cancellate nel momento esatto in cui le ascolta.
Non può provare compassione, né pietà.
Non è più permesso.
E in fondo sono soltanto capelli. C'è di peggio, Edvin sa come andrà a finire. Sono solo all'inizio, ed è sempre un ciclo ben scandito nella sua testa. I risultati non cambiano, non sono mai cambiati.
Kilian ha voluto modificare lo schema iniziale, aggiungere una seconda guardia, ma è una guardia che non riesce neppure a fare il suo ruolo.
Ha sempre saputo che Ayar non sarebbe stata in grado di fare niente.
Pensa che alla fine dovrà fare tutto il lavoro da solo, poi lei si riprende dal suo stato abulico e si arma di forbici.
Il suono del metallo che trancia i capelli, poi il ronzio elettrico del marchingegno che li rade fino alla cute e lascia i crani spogli e pallidi. Lacrime che sgorgano come se stessero amputando loro degli arti, quando sono solo capelli.
Ricrescono.
Le ragazze si susseguono una dopo l'altra, piangono e li supplicano di lasciarle andare, ma nessuna preghiera può essere ascoltata.
Ayar rinchiude l'ultima donna nella gabbia e non rimane in corridoio un solo secondo di più.
Vuole andarsene da lì, ritornare alla sua vita, assumersi solo le responsabilità delle sue azioni.
Grazie al rifugio è riuscita a ottenere il marchio, un lasciapassare che le consente di avere il sangue. Non può rimanere lì e fingere di essere un mostro, di non provare niente.
Kilian l'ha ingannata. Non le ha detto qual era il suo compito finché non ci si è trovata gettata dentro e senza possibilità di replica.
Non le importa più nemmeno di ricordare. Vorrebbe solo tornarsene nel suo minuscolo appartamento minimalista, con solo due cambi nell'armadio e vestiti neutrali e senza carattere. Vuole piangere ed essere sicura che nessuno la sente, che non c'è Edvin con l'orecchio raffinato che capta ogni movimento in casa.
Ha quasi raggiunto le scale per salire al piano di sopra quando viene bloccata per un braccio.
Non può controllare la calma, si volta verso Edvin con sguardo avvelenato. «Lasciami», protesta, strattonando il polso, ma non è in grado di staccargli le dita dalla sua pelle.
«Vuoi farmi credere che tu non lo hai mai fatto?», risponde Edvin, e riesce a scalfire la sua armatura di flebili convinzioni. «Tu non hai mai preso il sangue di nessuno? Davvero?»
Lo dice con tono di scherno, derisorio e crudele.
La mette di fronte ai suoi timori, alle paure seppellite a stento.
Non può rimanere in silenzio, e sa come rispondere. «Quelle ragazze non hanno fatto niente di male, le stiamo tenendo lì e ci stiamo comportando con loro peggio di come farebbe il sistema. Tutto questo va contro la mia morale. Io non posso farlo.»
«La tua morale? E dov'era prima che cominciassero a donarti il sangue? Tu hai ucciso delle persone perché non sai controllare la fame. Io non l'ho mai fatto, mi sono sempre fermato prima.»
Ayar rimane di sasso. La rabbia sale e scende, la investe e priva di ogni forza al tempo stesso. Le ciglia umide di lacrime, la voce si abbassa e trema. «Non dovresti sapere queste cose su di me.»
«Però ammetti di averlo fatto», Edvin non può lasciarle l'ultima parola.
«Io privavo le mie vittime di una vita orrenda. Tu le lasci soffrire in gabbia e le tieni vive per avere sangue più spesso.»
«Ah, adesso lo facevi per pietà e compassione. Ma che carina, ucciderli perché non credevi potessero vivere felici. Ti rendi conto che è una stronzata, vero?»
Ayar trema. Le lacrime tracciano ramificazioni sulle guance, superano le lentiggini. «Avresti fatto meglio a ucciderla.»
«Preferisci questa opzione? Va bene, allora», replica Edvin, il tono della sua voce si è fatto più acido, infastidito. «Poi spiegalo tu a Kilian che hai preferito far morire una delle vittime», dice, e le lascia il polso per ritornare in corridoio, sparire dietro l'angolo.
Ayar spalanca gli occhi. «No, Edvin!», tenta di fermarlo, ma è già troppo tardi quando il suo corpo si attiva e si dirige nella sua direzione.
Edvin ha aperto la prima gabbia a sinistra e, in uno scatto talmente veloce che Ayar l'ha perso di vista, si è spostato dietro la donna di prima e ha affondato i canini nella gola con una forza che di rado gli ha visto usare. C'è talmente tanta violenza nel modo in cui le succhia via il sangue e le strappa la carne che la vittima si affloscia subito in avanti, le sue gambe cedono, Edvin la sorregge a stento con un braccio intorno al bacino. Gli occhi sono iniettati di follia e sadismo mentre la testa penzola scomposta a destra del collo, Ayar può vedere le ossa della spina dorsale frantumate, gocce vermiglie che spruzzano dalla gola e dipingono le sbarre, il pavimento, arrivando perfino a macchiarle il volto e i vestiti.
Ayar ha l'espressione sconvolta. Pensava di aver già visto il lato peggiore di Edvin, ma non è così e se ne rende conto solo adesso.
Le altre donne urlano – lo fanno da un pezzo, ormai. È una melodia stridula, riempie le orecchie, rimbomba nella scatola cranica.
Edvin abbandona il corpo prosciugato da ogni goccia di sangue, cade in avanti con un tonfo secco e inumano.
Un sorriso carminio gli taglia il volto, lo sguardo vuoto eppure colmo di un'oscurità che ha già avuto modo di vedere nei propri occhi dopo i crimini più crudeli. E ancora una volta Ayar si rende conto che sono troppo simili, quasi uguali.
E lei odia se stessa.
Gli istanti sembrano intrappolati in una vacua clessidra.
«Sei felice, adesso? Non soffre più», dice Edvin, e per rimarcare quel concetto sferra un calcio al cadavere della donna, altro rosso le abbandona le labbra; ora quelle pupille vitree e sgranate la stanno guardando ed è raccapricciante. Può leggere la morte sul suo volto e comprendere che lei non la proverà mai.
Per gli infetti la morte è una pena troppo dolce.
Ayar crolla sulle ginocchia. Vorrebbe distogliere lo sguardo, invece striscia sul pavimento fino ad arrivare in mezzo alle sbarre. Può vedere la sua espressione indecifrabile, l'attimo in cui il terrore l'ha consumata fino alla cenere. Ha la pelle d'avorio, le occhiaie livide e le ossa degli zigomi sporgenti e spigolose, ma ciò che più la blocca di fronte a quell'immagine è la serenità vacua delle pupille. È morte, è la fine di tutto, perfino della sofferenza. Per questo è uno sguardo indecifrabile e vuoto, spoglio, perso in un attimo distante. Perché non è rimasto più niente, ed è meglio cancellare ogni dolore che continuare a sentirlo.
«Hai ragione, lei non soffre più», si sforza di rispondere, anche se il tempo trascorso a perdersi in quell'opera d'arte sembra infinito. Lacrime e sale bagnano ancora le gote, disegnano nuovi sentieri sulle guance rosee. Piange perché è commossa, stravolta dai sentimenti. Hanno liberato un'anima dalla sofferenza, l'hanno spogliata del dolore privandola della vita. Non c'è niente di più puro e bello di quell'immagine che ha impressa sulle retine, la testa immersa in una pozza di sangue, l'amorfo ritratto della morte stessa, la gola distrutta e polvere d'ossa.
Due cuori che smettono di battere nello stesso momento.
Alza lo sguardo verso Edvin. «Dovremmo andare via da qui, non è un posto che fa per noi.»
«Non esiste un luogo adatto a quelli come noi, Ayar.»
«Non è vero», contesta Ayar, «possiamo trovarlo, o almeno provarci. Usciamo da qui, anche solo per un paio d'ore.»
«Kilian si arrabbierà, è pericoloso.»
Ayar scrolla le spalle. «Voglio vedere il mare, respirare aria in superficie, sentirmi viva. Tu sai come uscire.»
«Sì, ma ti faccio notare che qui c'è un cadavere ed è pieno di sangue, dobbiamo ripulire tutto», risponde secco l'altro, infrangendo i suoi sogni.
✟
Kilian ha una strana sensazione addosso, la solita calma interiore si è incrinata, quasi spezzata. Non trova un senso a quei presentimenti e si sforza di respirare, finché l'immagine sullo schermo al centro dello studio cambia, l'opera precedente viene soppressa da un nuovo insieme di pixel e colori, pennellate amorfe che creano linee e tracciano nuovi sentieri, raffigurando soggetti pregni di antico significato.
Il dipinto di un autore di cui non è certo di conoscere la provenienza e il nome, le informazioni che ha ritrovato non sono sufficienti a ricostruire la verità annegata nel tempo passato. Sa che quell'opera si intitola "Giaele e Sisara", può comprenderne senza sforzo il significato solo guardandola. Un atto cruento, seppure il sangue sia solo accennato in poche goccioline che si ramificano dalle guance e s'interrompono in un momento sempiterno, l'istante in cui Sisara trafigge il capo di Giaele utilizzando il picchetto della tenda e un martello. La donna ha l'espressione tranquilla, rilassata.
A Kilian è sempre piaciuta quella calma composta, quell'espressione per nulla turbata e increspata dalle emozioni. Se non fosse per le braccia e per le loro posizioni tutto sembrerebbe quasi un gioco, una carezza tenera e non una tortura che scava nella carne umana.
I suoi pensieri corrono subito ad Ayar.
NdA: L'opera di cui parla Kilian alla fine è Giaele e Sisara di Giuseppe Vermiglio
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