1. Quid pro quo
«È vero quello che dicono?»
«Eh?»
«Che è una specie di vampiro?»
«Non c'è un nome per quello che è.»
Il silenzio degli innocenti
♱
Ayar è entrata a far parte di quel mondo da un po'. Abbastanza da provare coraggio quando si ritrova di fronte all'imponente porta di ferro e si lascia inquadrare dalle telecamere di sorveglianza senza lamentarsi, senza sbuffare o alzare gli occhi chiari sul cielo buio.
Ingoia il groppo che le impedisce di esprimersi e pronuncia il suo nome, incitandoli a sbrigarsi ad aprire e farla entrare. Sta congelando lì fuori e continua a far oscillare il peso del corpo da un piede all'altro per annullare l'attesa e l'ansia. Non devono trovarla lì, o scoprirebbero che fa parte di quella cerchia di individui imprudenti e sbagliati, perversi e malati. Quelli che non si inginocchiano davanti al sistema e fanno solo finta di aver chinato il capo.
Nel futuro le macchine non volano e la tecnologia non ha fatto troppi progressi. L'umanità, però, si è divisa in due grandi gruppi: quelli con il sistema e quelli contro di esso.
I secondi fanno perlopiù parte del ceto sociale basso. Vengono dipinti come tossici, psicopatici, persone dalla mentalità deviata da annientare prima che diffondano il loro cancro marcio altrove.
La porta metallica si apre con uno scatto. Non c'è nessuno che l'accoglie dall'altro lato, perciò Ayar s'infila oltre la soglia e viene investita dalle luci stroboscopiche che colorano le pareti di blu e rosa, si muovono veloci e rapsodiche.
Ormai conosce quel luogo e sa che è l'unico posto in cui i suoi desideri possono diventare realtà.
Si fa largo fra le persone che danzano senza coordinazione, brille e piene di vita, fanno rumore e agitano le braccia come tentacoli flaccidi. Ayar non ama ballare, le fa scaricare le energie, perciò avanza verso la fine del salone in fretta.
Ci sono due guardie ai lati della porta, sono immobili e inespressive, all'inizio le infondevano parecchio timore.
Dà loro le spalle, si abbassa il cappuccio e sposta i capelli che le coprono la nuca per mostrare il suo marchio. Una sfera lunare sormontata da informi crateri e pelle che si ricostruisce: la conferma che non è una spia, né una qualunque.
Ha acquisito il diritto di far parte del gruppo. È un ruolo importante, le consente di ottenere ciò per cui vive, il motivo per cui ancora si ostina ad andare avanti in un mondo che la schiaccia e reprime, la ingabbia fra convinzioni ipocrite e la rende sbagliata e difettosa rispetto agli altri.
La guardia a destra, stretta nel suo completo elegante e inadatto al luogo, infila una chiave nella serratura e la lascia passare senza proferire parola.
Ayar sale le scale, ormai ha imparato la strada. Al piano superiore ci sono diverse entrate, poi un'altra rampa; si dirige verso di essa, percorre un gradino alla volta fino a sbucare in un corridoio identico al precedente. Quando raggiunge il posto esatto, si ferma e bussa con le nocche.
L'ennesima porta in ferro si apre con un boato metallico, stridente. Ayar guarda di fronte a sé e nota che nella stanza non c'è quasi nessuno, non è come tutte le altre volte. Di solito, infatti, quelle mura pullulano di persone in attesa per lo stesso motivo.
In genere, sulle pareti sono appese innumerevoli sacche di sangue piene.
Quel giorno, però, Ayar non ne vede neppure una sulle mura, e tale visione basta ad attorcigliarle le viscere, le mette a soqquadro i pensieri.
Avanza nella stanza, percorrendo il pavimento con passi leggeri e inudibili. «Forse ho sbagliato.»
La situazione non è normale, non è la solita routine.
L'unica persona lì presente è un ragazzo, e le dà le spalle.
Piume di corvo infilate nel cranio e poste in disordine, braccia pallide e spettrali lasciate scoperte dalla felpa che ha le maniche sollevate fino ai gomiti; un polso è bianco, l'altro è ricoperto di disegni che da lontano non hanno forma e significato, sono solo macchie amorfe, e ne divorano perfino il dorso della mano, le dita.
Volta il capo verso Ayar, e lei può vedere i suoi occhi chiari e costellati di riflessi edenici, può sentire il cuore perdere un battito mentre si perde a osservare il modo in cui le luci e le ombre gli accarezzano i lineamenti taglienti del volto. Ha il naso inclinato appena all'insù, è molto più alto di lei e quando si tira su dal davanzale della finestra per venirle incontro sembra acquistare qualche altro macabro centimetro.
La fa sentire piccola, e a Ayar non piace sentirsi così. Lei è una tosta, non una ragazzina massacrata dalle insicurezze.
Lei è una di quelle che strappa i cuori di chi la ferisce e si diverte a morderli e masticarli.
Letteralmente.
«Sei qui per il sangue?», chiede Edvin. Il tono della sua voce è basso, troppo per essere normale. Roco, forse per il fumo, forse perché è solo il suo timbro. È distorta, quasi irreale.
Ayar sbatte le palpebre un paio di volte, ferma sul posto e indecisa sul da farsi. «Sì, sono qui per quello», si gira e gli mostra il marchio sull'epidermide – è ancora in via di guarigione, in realtà, perciò pizzica appena quando sposta i capelli e lo sfiora. Non c'è bisogno che lo faccia perché nessuno può entrare lì senza possederlo, però è ancora incerta e insicura sui meccanismi del gruppo e non vuole commettere errori.
«Non ne hanno neanche una goccia. È tutto finito, arriverà domani sera.»
Ayar sente il pavimento vibrare sotto i suoi piedi, l'ansia che sguscia fuori dal suo stomaco e si attorciglia lungo le viscere. «Che vuol dire che è finito?»
«Vuol dire che sono aumentati gli infetti e serve più sangue, quindi oggi è finito. Sei arrivata tardi.»
Ayar stringe i pugni. Vorrebbe essere in grado di mantenere la calma, rimanere una persona riflessiva e non una che sfodera gli artigli alla prima occasione, al primo "no". «Non posso aspettare fino a domani, non mi sento bene.»
È la verità. L'assenza di sangue, soprattutto la certezza di non poterne avere, rende il corpo debole, inefficace. È difficile perfino stare in piedi. Non può tornare a casa, soffrire tutta la notte per l'astinenza e poi tornare lì a prenderlo come se niente fosse, accontentandosi di una squallida e piccola dose.
No. Rischia di impazzire.
Edvin sospira. «Sì, ho il tuo stesso problema, sono l'unico rimasto qui dentro per questo. Ne ho bisogno.»
«E allora che facciamo? Non c'è un altro modo per ottenerlo? Nemmeno una piccola dose? Potremmo dividerlo.»
Edvin le si avvicina, accorcia la distanza fra loro per osservarla meglio – forse è quello l'istante in cui la guarda davvero. Iridi brillanti che navigano fra le onde morbide e sanguigne delle ciocche intorno al viso efebico. Ha i tratti morbidi, quasi zuccherosi. Gli occhi tinti di svariati e insoliti colori in un arcobaleno che gli cattura le pupille e le imprigiona nelle sue, quasi un invito a smarrire la sanità mentale, a lasciarsi scoprire e analizzare. Le guance tinte di ciliegia hanno lo stesso colore delle labbra a forma di cuore. Può vedere la giugulare pulsare sotto all'epidermide candida del collo, una sottile linea viola carica di sangue.
Veleno e antidoto che desidera più di qualunque altra cosa.
La gola di Edvin si secca all'improvviso, la bocca arida. Ha fame, una fame che urla disperata dentro di lui, fiamme che gli incendiano l'anima e gli irrigidiscono la mascella e i polsi. Le dita scattano sulla spalla di Ayar e la stringono, fanno male, o almeno ci provano.
«Non c'è sangue da nessuna parte, ma c'è un modo in cui possiamo averlo entrambi.»
Ayar non è spaventata. È abituata alla violenza, a un mondo in cui prevalgono gli istinti e i desideri da realizzare. Sostiene il suo sguardo, ascolta le sue parole. «Come?»
«Quid pro quo», recita a bassa voce; Ayar non sa cosa significa e rimane in silenzio per invitarlo a proseguire, «tu dai qualcosa a me, io do qualcosa a te. Tu mi dai il tuo sangue, io ti do il mio.»
Ayar sussulta appena, come se le avessero chiesto qualcosa di proibito e di perverso – e in fondo lo è, soprattutto per la società in cui vivono, in cui è bandito amare il sangue, amare il prossimo, amare e basta.
Edvin abbassa un po' il capo, ora sono così vicini che può sentire il suo odore, e non è in grado di descriverlo. Sa di umano, di donna, e in fondo sa di sangue. «Zero negativo», dice, può riconoscerlo solo sentendo il profumo della sua pelle. «Devi darmene un po'.»
Ayar non ha mai ricevuto una proposta del genere, e la parità che trasuda le piace. È un aiutarsi a vicenda, un dare e ricevere.
È sbagliato, peccaminoso.
Lei è abituata a prendersi la vita con la forza. A uccidere, ferire, tagliare. A masticare cuori umani, perché non esiste frutto più succoso. Non è un mostro, è solo abituata a sopravvivere da sola come ha fatto negli ultimi cinque anni. Non ricorda molto prima di quel momento, la loro memoria viene spesso resettata, rimangono confusi per giorni e brancolano nel buio in cerca di se stessi, ricostruiscono i puzzle con indizi e memorie narrate da altri. Lei ha perso il filo della sua vita da troppo tempo, ormai, e ci tiene a tenersi stretto ciò che ha ricostruito. Non vuole dimenticare, non deve permettere che il sistema la scopra. Ha riempito casa di foglietti dove si è appuntata ogni ricordo per non perderlo.
Devono fare attenzione, ciò che fanno è rischioso, ma ha bisogno di sangue e le va bene fare uno scambio.
Bere il proprio non funziona, non è la stessa cosa. Se non ci sono sacche disponibili fino al mattino deve averne un po' subito, una piccola dose per calmarsi e prepararsi ad attendere la crisi d'astinenza successiva.
«Va bene», acconsente alla fine, anche se non le sembra di avere altra scelta. O il sangue o la follia e le crisi, i tremori lungo il corpo, il bisogno perenne di vomitare qualsiasi altro cibo. E se si astiene, se quell'agonia si prolunga, i denti cominciano a cadere uno alla volta, marciscono. È una maledizione senza via d'uscita.
Edvin sorride – forse è più un ghigno, e ostenta malcelata dannazione. Il volto di una bestia intrappolata in un corpo all'apparenza umano, ma che non funziona secondo le corrette e vecchie leggi. «Vieni con me, qui non siamo al sicuro.»
La supera, ma viene fermato da Ayar appena appoggia le dita sul pulsante per aprire la porta. «Questo è l'unico posto in cui siamo al sicuro.»
Edvin le rivolge uno sguardo ipotermico. «Non più.»
Non le lascia chiedere informazioni, svolta in corridoio e Ayar rimane immobile per un istante, indecisa e paranoica; infinite possibilità pessimistiche le si aggrovigliano in testa in una disordinata matassa. Respira, si sforza di farlo – anche se non ne ha più bisogno. Il suo corpo è morto.
Poi le sue gambe si muovono da sole. Lo segue, non può lasciarsi scappare l'opportunità di avere del sangue. È l'unica cosa di cui ha bisogno, e lui può dargliene un po' il prima possibile.
Lo raggiunge, sospira. «Dove stiamo andando?»
«Non posso dirtelo, non puoi vedere come ci si arriva.»
«Perché?»
Quell'idea non le piace. Non è come lo immaginava, le fa venire l'ansia.
«Se ti scoprono e guardano nei tuoi ricordi riusciranno a risalire a me. Non sapere dove vivo mi farà guadagnare tempo.»
Il respiro di Ayar si ferma. Edvin sembra aver pianificato tutto e lei si chiede come sia possibile che ci sia riuscito in un lasso di tempo tanto breve. Non poteva sapere che qualcuno avrebbe accettato, perché è scorretto e perché alle persone non piace. È troppo pericoloso. Ormai sono tutti abituati a sopravvivere da soli, senza nessuno. I legami vengono distrutti, è impossibile sfuggirgli. Prima o poi lo scopriranno, loro scavano nelle menti e ne analizzano i contenuti.
Ayar non ha un piano di riserva, ma ha bisogno di sangue e non le importa delle conseguenze. Non si farà scoprire, sarà solo una piccola violazione e la rimuoverà presto dai suoi pensieri.
Escono dall'edificio in silenzio, non si rivolgono la parola in presenza delle guardie. Sanno quanto è sbagliato e nessuno deve venirne a conoscenza.
Appena l'aria fredda invernale le investe la pelle, Ayar rabbrividisce e si stringe un po' di più nel suo cappotto vecchio. L'interno è stato rattoppato più volte, la lana che continuava a squarciare il tessuto e a uscire è stata infilata di nuovo al suo posto e continua a scaldarla.
Camminano per un po', non troppo vicini, e Ayar si guarda intorno e si chiede dove stiano andando, finché non raggiungono l'automobile di Edvin.
I veicoli hanno solo un posto, oltre al bagagliaio, e comprende in fretta come farà a raggiungere il luogo in cui devono andare senza imparare la strada.
«Ah, fantastico», commenta con sarcasmo. «Non ci entro neppure lì dentro!»
È uno spazio piccolo, claustrofobico.
«Sì che ci entri, devi solo stringerti un po'. Non ci metteremo molto ad arrivare, quindi fai la brava ed entra subito. Non devono vederci.»
Ayar sospira e decide di sbrigarsi. Edvin ha ragione, devono fare attenzione. Non possono mettersi a litigare per quella decisione.
In fondo Ayar ha accettato di stare al gioco, e la partita è appena iniziata.
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