6. Medius
Chiamare padre colui che mi ha dato la vita non mi è mai piaciuto, perché a differenza di mia madre è stato anche colui che ha firmato per sottrarmela, il giorno della Venuta. Più cresco e più lo biasimo per aver troncato la mia umanità quando non avevo ancora avuto modo di viverla; più studio gli esseri umani e più mi rendo conto di quanto mi è stato strappato e di quello che mai potrò essere.
Nella mia famiglia, però, il rispetto è una virtù sacra e mai potrei accusarlo apertamente o fargli un torto: mi limito a fingere, come mi è stato insegnato per tutti questi anni al DAQU, e lui non si preoccupa di smascherare le mie menzogne. D'altronde, in una Città costruita su bugie e omissioni, il suo comportamento è del tutto plausibile.
Quando arrivo nella stanza dove mio padre passa la maggior parte del suo tempo quasi non lo riconosco, tanto è diventato un tutt'uno con ciò che lo circonda: la pelle riverbera del colore argentato che decora sia le pareti che i pezzi d'arredamento, i capelli corvini sono pettinati perfettamente, come se l'essere fuori posto fosse un delitto, e la schiena è rigida, mentre le braccia seguono la linea della poltrona sulla quale è accomodato. Appena mi vede mi fa cenno di sedermi, senza realmente guardarmi. Sono anche io un pezzo d'arredamento, penso. Magari uno dei più importanti e costosi, ma pur sempre un oggetto che sfrutta a suo piacimento.
«Il DAQU mi ha consegnato i tuoi risultati. Eccellenti» si limita a dire, non accennando nemmeno a togliere l'attenzione dalle informazioni che gli scorrono davanti agli occhi. Se mi sforzo un po' posso riuscire a leggere le parole che gli passano sulla retina, retroilluminata da un leggero alone azzurrognolo. Sono i miei dati e sta palesemente sopperendo alla mancanza di attenzioni per sua figlia con una lettura approfondita della mia cartella, proprio mentre sono qui davanti a lui. Come fossi un cliente comune. Avrà accumulato un bel po' di informazioni, visto che è da settimane che non lo vedo, quindi attendo pazientemente che finisca di apprendere dati su di me, prima che torni a parlarmi.
«Tra poco sarai pronta per essere inserita nel Programma e per andare sul campo, a quanto vedo. Spero che tua sia impaziente quanto lo sono io.» Sarebbe un'affermazione davvero incoraggiante, per i suoi standard, se non l'avesse detta con quel tono totalmente privo di alcuna inclinazione emotiva. Da quando ho conosciuto Viktor, un vero umano, sto capendo che quello che insegnano al DAQU è riduttivo rispetto alla realtà, ma sto anche comprendendo quanto sia finto un volto svuotato dalle sensazioni, o una voce piatta e metodica.
«Già, non sai quanto» rispondo allo stesso modo, sperando che non legga il pizzico di disprezzo che ho usato. Chiude gli occhi e, quando li riapre, si concentra finalmente su di me, scrutandomi con quello sguardo dal taglio a mandorla che rivedo su me stessa ogni mattina allo specchio.
Che cosa sta aspettando, che me ne vada? Che lo ringrazi per aver letto i miei file?
«Amanda, c'è qualcosa che devi dirmi?»
Controllo il battito del cuore, mantenendolo costante: non può leggere i miei pensieri, ma può avvertire i cambiamenti fisiologici del mio corpo. Temperatura, battito cardiaco, addirittura un aumento della frequenza con cui sbatto le palpebre sono spie nemiche, che da sempre ho imparato a gestire per non risultare agli altri un libro aperto. Sono solo una pagina bianca, priva di sentimenti, priva di vita.
«No.» Per mia fortuna al DAQU insegnano anche qualcosa di utile: per quanto possa essere immorale, lì ci insegnano a mentire. E si dà il caso che io abbia risultati eccellenti.
«Che cosa stai facendo, nelle ultime settimane? Non sei quasi mai a casa.»
Ipocrita.
«Nemmeno tu.»
«Io lavoro, Amanda.»
«Anche io.»
Mio padre non capisce perché le mie risposte non corrispondono al mio linguaggio del corpo, che di solito alleno anche in presenza altrui, così da aumentare le mie competenze umane. Se fossi umana, infatti, dovrei essere irritata, muovermi sulla sedia, arrossire per la rabbia. Invece rimango composta e uso un tono monocorde. Mi comporto per quello che sono: una Medius, un simulacro.
«Penso che dovresti passare un po' più tempo lavorando a casa. Con gli ultimi avvenimenti la situazione si è fatta scomoda, non vorrei che fossi implicata in qualcosa di più grande di te.»
Quindi è questo il motivo per il quale mi ha chiamata? Sa delle mie passeggiate al trentesimo piano? Lo hanno avvertito che ho incontrato il Dottor Viktor? Perdo un battito, ma recupero subito la mia facciata. Sto per ribattere, quando lui interviene prima di me.
«Il Rievocatore non è davvero felice di come ti sei comportata... Lasciare trapelare le tue emozioni davanti a tutti. E in più quel commento sugli umani. Via, Amanda, non farmi rimpiangere quello che ti consento di fare. È meglio se, per i prossimi giorni, tu eviti di uscire. Lascia calmare le acque.»
Sospiro in modo impercettibile. Allora è questo: è solo stato informato di quel che è successo al Dibattito. Mi alzo in piedi: «Lascerò calmare le acque.»
Ma mio padre è di nuovo preso dai suoi affari e non dà segno di avermi sentita, già consapevole che obbedirò ai suoi ordini. Senza salutarlo esco dal suo ufficio che, senza che me ne fossi accorta, aveva iniziato a opprimermi. Rimango per un attimo fuori dalla porta, indecisa su cosa fare, poi mi dirigo all'ascensore.
Le acque non si possono calmare, se non c'è qualcuno che metta fine alla tempesta.
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L'ultima volta che ho visto il dottor Viktor, più di un mese fa, mi ha spiegato cosa stesse progettando. Si è aperto con me come se avesse bisogno di parlare con qualcuno, di esternare i suoi dubbi e i suoi dilemmi. Di liberare la sua anima da un peso troppo grande per una persona sola e io, a mio discapito, mi sono ritrovata a prendermene carico. È stato difficile guadagnare la sua fiducia in una sola sera, ma gli occhi nascosti dei Medius sono anche negli angoli più bui e, la maggior parte delle volte, non ci sfugge niente. Per questo era fondamentale avere quante più informazioni possibili in un solo incontro, per poi fissarne un altro ogni nuovo mese a venire.
In realtà, Viktor mi ha rivelato tutto e niente. Sta creando qualcosa che può aiutare gli umani, ma non mi ha detto cosa; i Ribelli verranno a prendersela, ma non mi ha svelato quando; gli serve un aiuto interno, ma non mi ha spiegato come. So che lavora al trentesimo piano e so degli esperimenti fatti sugli umani: fare due più due non è stato difficile, considerando che tutti conosciamo la leggenda dei Vitae, ma non voglio arrivare a conclusioni affrettate, non prima che sia Viktor stesso a mostrarmi la sua opera.
Controllo mentalmente che ore siano – 13:53, 12 Luglio – prima di dirigermi verso il piano proibito. Non è la data in cui dovrei incontrare Viktor, manca ancora qualche giorno, ma so che se mio padre mi ha imposto un ordine di restrizione non lo posso non rispettare, altrimenti rischio di insospettirlo troppo. Non ho intenzione di trattenermi a lungo, voglio solo avvertire il dottore che sparirò per un po'. Non dovrò nemmeno girovagare a lungo per i corridoi, visto che nelle settimane prima di conoscerlo ho notato che alle 14:00 in punto passa sempre davanti al bagno maschile, forse per iniziare la pausa pranzo. Grazie alle mie incursioni precedenti so che dall'ascensore al bagno c'è una sola telecamera: se faccio in modo di percorrere la strada di spalle non c'è nemmeno il problema della mia possibile identificazione. Prima di dirigermi all'ascensore giusto estraggo dalla borsa il camice che mi sono procurata tempo fa. Aspetto che manchino tre minuti alle 14:00, per poi salire al trentesimo piano.
Quando arrivo, mancano due minuti. Attendo che altri umani passino davanti all'ascensore, poi mi accodo a loro, con la testa bassa. Tra una svolta ci sarà la telecamera. Conto cinque passi e giro l'angolo, dando le spalle alla spia rossa e lampeggiante, e senza preavviso svolto a destra, nel corridoio che precede la porta del bagno. Da un momento all'altro dovrebbe passare Viktor.
Aspetto tre minuti, poi cinque, ma lui non si fa vedere. D'altronde, non era un incontro programmato, è possibile che abbia avuto un imprevisto o che abbia fatto un altro percorso. Faccio un respiro profondo e decido di rischiare e continuare a camminare, tenendo presente la direzione delle telecamere e dando loro sempre le spalle. Prima di lasciare il punto cieco, controllo che il dottore non sia in bagno: tutte le cabine sono vuote. Effettivamente, in cinque minuti non è passato proprio nessuno. Non mi preoccupo più di tanto, è l'ora di pranzo e il corridoio serve solo per portare al bagno o all'ascensore. Esco allo scoperto e mi dirigo a sinistra: il percorso si allungherà leggermente, ma voglio evitare che ci siano riprese con il mio viso.
Sto per girare l'angolo quando lo avverto: lo spostamento d'aria arriva prima della detonazione. Poi giunge anche quella, quando io ormai sono in caduta libera verso il pavimento. Non penso a coprirmi il volto o le orecchie, né ad allungare le mani per evitare l'impatto con le mattonelle, perché nella mia mente vortica incessantemente solo una consapevolezza: l'atto terroristico di cui un mese fa mi sono preoccupata non è più un caso isolato. I Ribelli sono qui, e ne sono sicura perché solo gli umani potrebbero essere tanto infidi da assaltare un luogo popolato con un'esplosione, incuranti delle vite che potrebbero danneggiare.
Passano dieci secondi prima che io mi riprenda e riesca a rimettermi in piedi, e sento rimbombare ognuno di essi nelle tempie, mentre le orecchie fischiano portando con loro ogni battito del cuore. Nel frattempo sento un'altra esplosione, ovattata e decisamente più lontana, forse una decina di chilometri dal Cyberpalast.
Mi aiuto con il muro per portarmi in posizione eretta. Il corridoio è diventato spettrale, vuoto e silenzioso, decorato da leggeri fiocchi scuri che, volteggiando senza gravità, sembrano neve: la cenere svolazza nell'aria immobile, creando volute a spirale e posandosi sui miei capelli, sul camice e le scarpe. Le pareti argentate riflettono il fuoco dai colori caldi e vivaci, che si avvicina con le sue lingue taglienti ricordandomi quello che io stessa ho generato per mettere fine a tutti i miei resti umani. Il suo odore acre mi raggiunge con intensità e io vedo solo i miei organi annerirsi e scomparire, la gente acclamare, mio padre incoraggiarmi.
Scuoto la testa, sforzandomi di tornare al presente, e non appena le orecchie smettono di fischiare mi rendo conto di ciò che sta accadendo: il fuoco è sempre più vicino, anche se non sembra stia provocando troppo danni, ma devo spostarmi da qui. Inizio a correre con passo malfermo verso l'ascensore, l'unico modo per andarmene, poi mi rendo conto che l'esplosione deve essere avvenuta da quella parte, visto che sono caduta di faccia, quindi cambio direzione repentinamente.
Non mi curo più delle telecamere, ma porto un braccio davanti al viso per proteggerlo dalle esalazioni e dalla cenere: nessuno riuscirà mai a identificarmi con tutto questo fumo. Mi sforzo per continuare a muovermi mentre ripenso alla struttura del piano, che ho memorizzato mesi fa, e ricordo che vicino al bagno dove mi trovavo c'è un passaggio latente. Non penso sia segreto, visto che c'è sempre una guardia, ma sicuramente è riservato solo al personale selezionato e, considerando l'entità dell'esplosione, spero che sia stato disattivato. In ogni caso, passaggi come quello portano a luoghi ad alta sicurezza e, solitamente, questi luoghi hanno delle scale o delle uscite d'emergenza.
Dopo aver sbagliato direzione per due volte, a causa del fumo, riesco finalmente a trovare il punto esatto. Senza una guardia davanti sembra davvero irriconoscibile, ma mi muovo con cautela, strisciando la mano destra sul muro per non perdere l'orientamento. Arrivo di fronte alla parete bianca e sporgo il braccio: questo vi passa attraverso, confermando i miei ricordi, e ringrazio che i comandi di sicurezza siano stati disattivati dall'esplosione.
Senza lasciarmi prendere dalla gioia attraverso il passaggio e giungo dall'altra parte. Come me, anche il fumo è passato, ma qui è più rado. Resto un attimo incantata a guardare l'ambiente che si cela dietro un semplice passaggio mimetico: è una grande struttura di almeno tre piani, perimetrata da passatoie e ponti in metallo collegati tra loro da scale infinite.
Seguo la passerella che costeggia le pareti, affrettandomi per raggiungere la prima rampa di scale, ma tra il ticchettio delle mie scarpe mi accorgo del rumore di passi che provengono da alcuni metri sotto di me. Mi sporgo sul parapetto e vedo un gruppo di guardie sulle scale che collegano i diversi camminamenti, probabilmente anch'esse consapevoli che questa è l'unica via di fuga. Ma, a differenza mia, loro stanno salendo. Cerco in un'istante una soluzione, poi mi ricordo che sono un Medius e che, nella confusione generale, non possono certo preoccuparsi del perché io sia qui. Sono solo un gruppo della sicurezza, di sicuro non faranno domande. Mi affretto quindi a scendere le scale, due scalini alla volta, dirigendomi verso la loro direzione.
«Fermo là!» grida all'improvviso uno di loro. Dei colpi iniziano a rimbombare tra le scale in metallo e io mi appiattisco alla parete sulla mia destra, pur consapevole che un loro proiettile non potrebbe ferirmi più di tanto. Non mi hanno forse riconosciuta a causa del mio aspetto umano? Prima che possa rivelare loro la mia natura di Medius mi blocco: perché mai delle guardie dovrebbero avere delle armi da fuoco, innocue per noi?
Mi guardo intorno, cercando di prestare attenzione a ciò che vedo al di là di scale e passerelle. Celle. Prigioni, mi correggo. Rimango impietrita, guardando ciò che si protrae davanti ai miei occhi: ai Medius non servono celle, perché tra noi non c'è criminalità, ma quelle non sono per noi. Sono celle per umani ed è a loro che sono destinate anche le armi da fuoco.
Mentre rimango ferma nella mia posizione sento i passi affrettarsi: le guardie si sono separate per dirigersi in due direzioni diverse e, sulla passerella sopra di me, sento una terza persona correre giù per le scale, proprio dove mi sono paralizzata io.
Mi riscuoto quando un'altra serie di colpi parte, così ricomincio a correre, non so se per sfuggire a chi sta percorrendo la mia stessa via o al rumore intenso della violenza. Alla fine della rampa di scale scorgo delle guardie che imbracciano le armi, puntate su di me. O, meglio, puntate sugli umani. È a loro che stanno dando la caccia, come a degli animali.
«Sono Amanda Reedan» annuncio, quando iniziano a sparare scalfendo la mia pelle solo in superficie e provocandomi leggeri pizzicotti nelle parti scoperte. Una delle guardie dà il comando di cessare il fuoco, per poi rivolgersi a me in tono allarmato.
«Signorina, deve andarsene da qui!»
Lo guardo, frustrata dalla sua stupidità: secondo lui che cosa starei facendo?
«Me ne sto an-»
Prima che possa finire la frase, vengo stretta alla vita da dietro e l'impatto mi toglie il fiato dai polmoni. Sono trascinata addosso a un corpo più alto del mio e, senza che me lo possa impedire, il mio cervello registra ogni dato: venticinque centimetri di differenza, un metro e novanta, ottantanove di chili, uomo. Vedo le guardie sollevare di nuovo le armi e, più di ogni altra cosa, le vedo inorridire. Le loro sono microespressioni che disegnano terrore sul loro volto, esternando un sentimento di debolezza di fronte al pericolo che si cela alle mie spalle.
Cerco di ricordarmi le lezioni di autodifesa, ma a noi Medius, anche quelli del DAQU, non viene insegnato il combattimento: si prediligono intelligenza e astuzia.
L'umano che mi tiene rinforza la presa e inizia a indietreggiare, senza però farmi troppo male. Con l'altro braccio mi stringe il collo e io porto entrambe le mani su quello, per evitare che me lo torca inavvertitamente, mentre non posso fare altro che indietreggiare con lui. Mi ha presa alla sprovvista e, con mia sorpresa, è decisamente più forte di un essere umano medio.
«La lasci andare! La lasci subito o sparo!» grida una delle guardie. Si vede che è un umano: un Medius non si sarebbe mai fatto prendere dal panico a quel modo. L'uomo che mi stringe non intende allentare la prese e io continuo a cercare un modo per liberarmi: gli assesto una gomitata nello stomaco, poi inizio a divincolarmi, ma niente sembra scalfirlo e io smetto per paura che mi possa davvero rompere il collo. La situazione è in stallo. Una delle guardie, la più anziana del gruppo, abbassa l'ama da fuoco e si fa avanti di un passo.
«Umano, lascia immediatamente quella Medius, o saremo costretti a sparare.»
«Permettetemi di andare e non le farò niente. La lascerò appena fuori dall'edificio.»
Sento le sue parole riverberare nella sua cassa toracica e attraverso la mia schiena. La voce è dura e controllata, ma la guardia scoppia a ridere: naturalmente nemmeno io mi fiderei di lui, è un umano. Ma, piuttosto che rischiare di essere stritolata, preferisco che si salvi e mi lasci fuori dal Cyberpalast, visto che sta iniziando a mancarmi l'aria. Non arriveranno soccorsi, non per un solo umano sfuggito dalle loro celle.
«Fate come dice» riesco ad articolare. L'uomo si accorge che mi sta stringendo troppo e molla un po' la presa. Dovrei avere fiducia in quello che ha detto alle guardie? Come posso fidarmi di chi, probabilmente, è membro della ribellione? Poi mi ricordo di Viktor e della sua gentilezza, e mi ricordo anche che io non sono come mio padre. Non sono come chi adombra ogni briciolo di umanità.
«Signorina, usi quello che sa fare, la Forza o la Suggestione. Si liberi!»
Se fosse così semplice lo avrei già fatto, ma non si nasce già in grado di suggestionare la gente. E, inoltre, mi manca l'aria, per la stretta e per il fumo che mi è entrato nei polmoni. C'è qualcosa, però, che posso fare: mentire, per salvare me, l'umano e anche le guardie.
«Sta dicendo la verità, lo leggo nella sua mente» asserisco. Non so leggere il pensiero, non è questa la mia Specialità e, così giovane, non potrei nemmeno averla ottenuta. Ma loro non lo sanno.
«Buttate le armi» ordina l'uomo alle mie spalle. Dopo un po' di esitazione, le guardie eseguono gli ordini. «Ammanettatevi l'un l'altro, viso verso il muro.»
Le guardie, avendo ricevuto un cenno da parte mia, eseguono ciò che è stato loro ordinato. Per la prima volta dopo molto tempo sento una nota di panico impossessarsi di me: è leggera e sussurrata, il suono di un violino che spezza un silenzio ormai decennale e si insinua tra i mei pensieri. Non so che intenzioni abbia l'uomo che ancora mi stringe la gola: probabilmente non mi lascerà andare e mi porterà dai Ribelli appena ne avrà la possibilità. Non ho alcuna certezza alla quale aggrapparmi.
Ma voglio dare fiducia all'umanità.
Voglio calmare la tempesta.
NdM. Questo è uno dei vecchi capitoli che ho revisionato poco, e infatti mi fa altamente schifo, ma spero di migliorarlo, più avanti, a una seconda revisione.
Anticipazione: il prossimo pov è da parte di un personaggio di cui non avete ancora letto nulla, sono super felice di farvelo incontrare!
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