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3. Un F.?

A L., il Gabriele di questa storia.


Se il sabato sera era finito male, la domenica era iniziata anche peggio. Alle prime luci dell'alba Luca non aveva ancora preso sonno, mentre le parole di Elia continuavano a risuonargli in testa. E tu chi sei? È un tuo amico? Non credo, no. E poi quella battuta oscena, rivolta al fratello, ma in realtà indirizzata a lui. L'aveva detto per provocarlo, dimostrargli che non aveva paura di lui, ma su Luca aveva avuto tutt'altro effetto. Quanto avrebbe voluto dimenticarsene, o almeno circoscriverla al contesto in cui era stata detta e lasciarla lì. Invece la sua testa aveva ritagliato Elia da quel parcheggio (senza nemmeno scomodarsi a pulirgli il sangue dal viso) per incollarlo nella sua stanza, in ginocchio davanti a lui, impegnato in un'attività che, mentre per Luca era un miraggio irraggiungibile, per l'altro era una cosa del tutto normale. Come se non fosse già abbastanza patetico, durante la notte si era masturbato due volte su quell'immagine mentale.

La prima volta in cui aveva immaginato Elia nudo era stato del tutto involontario, si era trattato di un bellissimo ed eccitante sogno che lo aveva lasciato scombussolato per i giorni seguenti. Al risveglio si era sentito in colpa, ma non abbastanza da evitare di ripercorrere mentalmente quanto appena sognato e riviverlo da lucido. Il senso di colpa, dopo, era aumentato; ma anche in quel caso, non abbastanza da non farlo più.

Si sentiva come se le sue fantasie potessero macchiare l'idea che si stava costruendo di Elia, un timido e delicato ragazzo, riservato, e con ogni probabilità illibato (termine che piaceva molto alla madre di Luca, che gli augurava sempre di trovare una ragazza con questa specifica prerogativa). Ma di volta in volta, insieme alla vergogna per sé stesso, aumentavano anche i dettagli delle sue fantasie e si dilatava il contesto precedente all'atto in sé. Era come se, da un certo punto in poi, la sua immaginazione avesse iniziato a girare anche le scene dei video porno che di solito si saltano per arrivare al clou.

Non era proprio come violare l'intimità di qualcuno o fare qualcosa contro il suo volere, se accadeva nella sfera teorica, giusto? Eppure, faticava ad alzare lo sguardo sul suo viso, quando lo incrociava nei corridoi della scuola. Si sentiva sporco e sbagliato. Sporco perché ciò che faceva gli sembrava una cosa da viscido maniaco. Come avrebbe potuto fare finta di nulla e parlargli, un giorno, se nella sua testa avevano già fatto tutto quello che era possibile fare a letto? E sbagliato... beh, perché era così che nella sua famiglia venivano definite da sempre le persone come lui.

Nonostante tutti i sentimenti di vergogna non era mai riuscito a smettere di pensare a Elia in quel modo. Aveva provato ogni tipo di categoria porno, ma anche con le parole chiave più accurate non aveva mai trovato sullo schermo un attore che lo intrigasse quanto lui. Ogni volta che i suoi occhi si socchiudevano nel momento in cui iniziava a darsi da fare, i volti e i corpi sullo schermo perdevano definizione, in favore di un'immagine ben nitida di Elia.

Rientrando a casa dopo il loro disastroso incontro si era convinto che la versione del ragazzo incazzata, violenta, sboccata e un po' acida, lo avrebbe aiutato a liberarsi della sua stupida cotta. Era ora di voltare pagina, dimenticarsi di lui, dei suoi stupendi occhi verdi e di qualsiasi cosa gli facesse fare scena muta in sua presenza. Elia aveva detto chiaramente che no, non erano amici (e come potevano, considerato che non si erano mai parlati prima?). Lo aveva sottilmente deriso per la reputazione che aveva a scuola. Lo aveva classificato come omofobo tanto quanto i suoi amici. Lo aveva liquidato senza nemmeno un "ciao". Aveva finto di non conoscerlo. Gli aveva dato una gomitata per liberarsi da una presa che in realtà serviva a proteggerlo. E, come se non bastasse, gli aveva mostrato un lato della sua personalità che strideva terribilmente con tutto ciò che Luca trovava piacevole in lui. Non erano tutti motivi più che sufficienti per lasciar perdere? Teoricamente sì, nella pratica gli erano bastati quel breve contatto fisico e quella battuta, quella dannata battuta, per sprofondare di nuovo nelle sue inconfessabili e sporche fantasie. "Un'ultima volta", aveva pensato quando ormai era già troppo tardi per tornare indietro, quando seguendo il filo dei suoi pensieri, il corpo gli si era acceso, "poi volterò pagina".

A quell'ultima volta ne era seguita un'altra e ore dopo era ancora lì, a fissare il soffitto nella semioscurità della sua stanza, consumato in parte da sé stesso e in parte dai suoi dubbi; per un po' aveva messo a tacere le voglie, ma non le domande che riguardavano Elia.

Per prima cosa era curioso di sapere perché avesse litigato con quello che credeva essere il suo ragazzo. Cos'era successo? Un litigio come un altro o si erano lasciati? Non che lui avrebbe avuto delle chances, in quel caso, però doveva ammettere che sarebbe stato felice di sapere che avevano rotto. C'era anche la questione dell'arrivo del fratello, davvero troppo tempestivo, come se fosse già dietro l'angolo o se qualcuno l'avesse avvisato prima ancora che lui gli scrivesse. Ma il suo dubbio più grande restava il modo in cui si era comportato: perché, con la stessa prontezza di spirito mostrata nel mordere un orecchio o rispondere a tono a qualcuno, non si era mai difeso a scuola? Forse non reagiva perché sapeva che si trovava in minoranza e avrebbe solo peggiorato la situazione? Ripensò alla frase esatta, rivivendo per l'ennesima volta tutta la scena: "Vorresti vedere come mi fanno il culo, eh, segaiolo?", aveva detto a Yuri, senza sapere che in realtà il vero segaiolo era Luca. Lo stesso, oltretutto, che avrebbe voluto seriamente fargli il culo. A quel pensiero decise che era il caso di alzarsi, prima di sprofondare ulteriormente nelle sue fantasie sempre più disperate.

La domenica per Luca era il peggiore dei giorni. Fino a mezzogiorno di solito era tutto tranquillo, troppo tranquillo. La casa era avvolta da un silenzio innaturale, che sembrava sempre preannunciare tempesta, e invasa da odori di cibo sin dalle prime ore del mattino, come un promemoria sensoriale del pranzo che più tardi avrebbe riunito la famiglia.

La madre di Luca iniziava le preparazioni prima di uscire e al suo rientro, un paio d'ore dopo, riprendeva da dove aveva lasciato, come se non si fosse mai allontanata dalla cucina. Più o meno alla stessa ora rientravano il fratello di Luca, Matteo, con il padre, sporchi e sudati per la corsa o la partita, o qualsiasi altra attività sportiva avessero deciso di svolgere quella mattina, senza ovviamente coinvolgerlo.

Il nonno era sempre l'ultimo ad arrivare, salutava sua figlia (la mamma di Luca) con un bacio sulla guancia e il resto della famiglia con un cenno della mano, poi si sedeva sul divano, dove intanto suo genero si era messo a guardare qualche programma sul calcio. Matteo non si presentava mai in sala da pranzo prima che fosse ora di mangiare, e al nonno toccava chiacchierare con il minore dei suoi nipoti, con evidente disagio. Così, chiedeva a Luca come andasse la scuola, se quella settimana avesse giocato (e quindi vinto o perso) qualche partita, se c'erano delle ragazze all'orizzonte e, da un anno a quella parte, se avesse deciso la facoltà in cui iscriversi. Quella domenica non fece eccezione e Luca si ritrovò a rispondere che a scuola era tutto ok, che avevano giocato e vinto giovedì sera, che no, non c'erano ragazze all'orizzonte e che no, non aveva ancora deciso la facoltà per l'anno dopo, ma aveva ancora un po' di tempo. Suo padre sembrò ascoltare le risposte di Luca senza distogliere lo sguardo dal televisore. Fece giusto un verso di disapprovazione sull'ultima parte del discorso, prima che venissero invitati a sedersi a tavola. A quel punto, come da copione, Matteo scese le scale e si unì a loro.

Se andava bene, di solito la conversazione si manteneva leggera e poco impegnativa: qualche pettegolezzo, il resoconto sui lavori di manutenzione della casa in montagna, ricordi di famiglia o aneddoti sui nuovi vicini di casa del nonno. A volte i discorsi viravano pericolosamente sulla vita privata dei due ragazzi e allora Luca iniziava a pregare che il pranzo finisse il più in fretta possibile. I convenevoli scambiati in soggiorno erano per lui il massimo che potesse raccontare di sé prima di fare trasparire la sua infelicità. Mostrare infelicità in quella casa era sinonimo di depressione, e depressione significava una chiacchierata d'obbligo, non con uno psicoterapeuta, ma con Don Piero. Sia Luca che Matteo prestavano la massima attenzione a non farsi mai scivolare dal viso la maschera del giovane più spensierato e felice possibile, anche se Luca sospettava che quella del fratello non fosse una farsa come la sua.

Quando andava male, però, andava male davvero. Se si toccavano i temi sociali o politici la sola cosa da fare era tenere duro fino alla fine del pranzo, che a quel punto sembrava interminabile.

Una volta seduto a tavola, Luca sperò, più delle altre volte, che quella domenica rientrasse nel primo caso e che tutto filasse liscio, in modo da potere tornare a nascondersi dal mondo nella sua stanza non appena finito di mangiare. Ovviamente non fu così.

«Stai meglio?» gli chiese subito sua madre, mentre riempiva i piatti con degli antipasti che Luca non fece nemmeno lo sforzo di mettere a fuoco. A cosa si riferiva? Sentì subito il panico iniziare a salire. Lei sembrò cogliere la sua confusione e aggiunse: «Questa mattina fuori dalla chiesa ho incontrato Teresa, mi ha detto che ieri sera sei tornato a casa presto perché non stavi bene. Io non ti ho proprio sentito arrivare, mi ero addormentata davanti alla TV. Stai meglio adesso?»
Teresa, madre di Yuri, amica di sua madre, moglie del collega di suo padre, pettegola di professione.

«Ah sì,» si riscosse appena, «avevo un po' di mal di testa e al locale suonavano dal vivo, non avevo voglia di restare e farlo peggiorare, visto che oggi devo studiare. Sono rientrato prima di mezzanotte.»

A quel commento sul rinunciare a una serata per un sano pomeriggio di studio il giorno successivo, suo padre sembrò fare un cenno di approvazione con la testa e Luca credette di scorgere una punta di orgoglio nel suo sguardo.

«Oh, peccato, se ti avessi sentito avremmo potuto guardare Sanremo insieme, mi avresti tenuta sveglia almeno» rispose dolcemente sua madre. Luca le sorrise, promettendole che avrebbero visto la TV insieme un'altra volta e pensando che forse per quel giorno sarebbe stato salvo. Sanremo, canzoni, look, nulla di più frivolo e leggero come argomento, no? No. Divenne tutto confuso nel giro di un paio di commenti, che inizialmente arrivarono dal nonno, poi da sua madre, suo padre, ma poco dopo le voci intorno a lui si fusero diventando indistinguibili l'una dall'altra, come in un coro della chiesa.

Schifezza... in prima serata... spiegano i genitori ai bambini...
Deglutì qualsiasi cosa stesse mangiando, poi bevve un lungo sorso d'acqua.
Per moda tra i giovani... quando andavo a scuola io queste cose... tutti normali...
Fissò l'orologio a muro della sala da pranzo.

Don Piero... peccato... amore... ostentazione...
Le 12.10.
Esibizionismo...
Fissò il piatto per ricordarsi cosa stesse mangiando, il cibo non aveva più sapore: erano al primo.

Diplomato io, non era così... scuola di Luca quattro o cinque...
Si pulì la bocca, giusto per avere qualcosa da fare con le mani, che iniziavano a sudargli.

«Luca?» Sua madre cercò il suo sguardo e lui la fissò come attraverso uno spesso strato di plexiglass.

«Cosa?»

«È vero, Luca? E tu li conosci, ci parli?» chiese la madre.
No, non ci parlava, anche sapendo chi fossero, non era interessato a entrare in una specie di club speciale per schifosi-non-normali-solo-per-moda. E con l'unico che gli interessava aveva avuto una sola disastrosa conversazione. Scosse semplicemente la testa, incapace di formulare una risposta sensata. Ripensò ancora Elia, alla fierezza e al coraggio con cui, ferito e nel bel mezzo di un parcheggio semideserto, aveva reagito alle offese di uno stupido omofobo, pronto a difendere il suo diritto di essere semplicemente sé stesso davanti a chi, quel diritto, provava a negarglielo per pura ignoranza. Al suo confronto si sentì ancora più piccolo e patetico. Altro che salvarlo da un pestaggio, non era nemmeno in grado di affrontare i due cinquantenni bigotti, il ventenne con risorse intellettive limitate e il vecchio nostalgico di una società mai esistita seduti a tavola con lui.

Tra loro lui era comunque il peggiore: si sentiva il re degli ipocriti, seduto ad annuire mentre moriva dentro ogni volta che suo padre e suo fratello pronunciavano una di quelle parole che iniziano con F., che lui odiava con tutto sé stesso.

Una F. era lui, e avrebbe voluto urlarlo in faccia a tutti, lì dentro, prima di spaccare tutto, prendere le sue cose e andarsene per sempre.

Come l'altra F. (diversa parola ma significato identico) erano le persone per cui provava attrazione. F. era un ragazzo a cui non riusciva a smettere di pensare.

F., parola al femminile questa volta, ancora diversa dalle prime due, ma altrettanto odiosa per Luca era anche come suo fratello definiva le donne, la cosa che di loro sembrava interessargli più di tutte. Ne era praticamente ossessionato. Ma da che pulpito poteva giudicarlo? Non si era interessato a Elia per il suo aspetto fisico, prima di tutto? Non si era masturbato pensando a lui nudo (due volte solo quella notte)?

«...ai... ene?» la voce di sua madre gli arrivò da ancora più lontano rispetto a prima, coperta da un brusio di fondo in cui continuavano ad alternarsi frasi, epiteti, battute e luoghi comuni che conosceva a memoria, ma che facevano sempre male, ogni volta.

«Cosa?»

«Stai bene, Luca? Sei pallido e hai gli occhi lucidi, mi sa che oltre al mal di testa ti sei preso qualcosa, forse è il caso che ti provi la febbre?»

Riconobbe la sua via d'uscita e ci si aggrappò come un uomo in fondo a un pozzo afferra una fune lanciata in suo aiuto. Si alzò di scatto e barcollò appena sul posto. «Sì, forse è meglio che vada a stendermi, potrebbe essere qualche tipo di virus intestinale, ho anche un po' di nausea.»

«Che schifo, stai lontano e vai a metterti subito in quarantena allora!» scherzò Matteo.

Ti terrò in quarantena per un mese,
ripensò lui, immaginando un altro tipo di fratello maggiore, uno che sarebbe stato dalla sua parte, anche davanti ai dettagli più intimi della sua attività sessuale.

Salutò tutti e salì nella sua camera, dopo essersi scusato. Non per essersi sentito male, né per essersi alzato da tavola prima di aver finito di mangiare; a loro insaputa, si era appena scusato per ciò che era, perché sapeva che anche se ci avesse provato non sarebbe mai stato nulla di diverso da quei F. che gli altri uomini della famiglia deridevano e disprezzavano così tanto. Persino tutto quello che era stato fatto a Gabriele, ne era sicuro, con lui non avrebbe funzionato. Era sicuro anche che loro ci avrebbero provato comunque e per questo aveva giurato a sé stesso che non glielo avrebbe mai permesso, non avrebbe mai abbassato la guardia, sarebbe stato attento.

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