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L'asciugacapelli

Certo, se Momo non avesse investito quel maledetto gatto, ora non mi sarei ritrovato qui nel tentativo di ammazzare il tempo per arrivare a sera. Piani saltati per un ammasso di pelo su quattro zampe! Pfeh. Sepolto un gatto, se ne fa un altro, no?
E Giamba... che è da due settimane che sbrodola dietro quella cagna della tabaccaia: sta a vedere... è la volta buona che inizia a fumare!
Amici...

"Avrei alcune cose da fare, stasera" rispondo, corrugando leggermente la fronte.
"Non fare il cretino!" tenta di convincermi uno schiaffetto dolce sulla guancia. Amo quel profumo e quella sua pelle nivea, di dicembre.
"Dico davvero, dai, meglio se rimandiamo a domani" ...e già sento i suoi occhi investigare nella mia mente.

Nemmeno so il perché di ciò che sto dicendo: lei è la mia linfa e senza di lei spesso mi perdo.
Volto lo sguardo oltre il finestrino. Il palazzetto sportivo mi si para di fronte, ostentando una compiaciuta imponenza.
E una voce irritata mi congeda, affrettandosi nel roteare con decisione la chiave: "I miei omaggi!"

Ma posato il piede sul selciato del parcheggio, in questo spento pomeriggio di dicembre, la sensazione che mi pervade è alquanto strana: mi chiedo se il mio rapporto con gli altri sia frutto di qualcosa di genuino o se sia dettato solo da un'arbitraria rappresentazione della mia coscienza.

Il puzzo del gas di scarico pare colpirmi al cuore, mentre osservo disilluso l'auto gialla allontanarsi e scomparire all'orizzonte.

Eppure sento pulsare qualcosa dentro il petto.
Tuf Tuf
Tuf Tuf

Tuuufff... Infrango il vitreo pavimento delle mie intimità profonde, volando lieve in dimensioni sommerse, dove la vita è un solipsismo etereo ed eterno. Fino a che il sangue conservi ossigeno in cuore.

Alchè, riemergo.

E rivedo luci, riodo voci, ravvedo sagome tremanti rimescolarsi veloci; il ciabattare a bordo vasca, quel caldo umido impestante, l'odor del cloro.

Il ritorno ad una vita che da sempre adoro.

Ma disperso in quel gran gorgoglio di flussi, com'eremita in un cammino di speranza, sentii la pace e la serenità nel cuore; cuor che batteva sol perché lo deve a me; senza il pensiero di dover qualcosa ad altri; senza dover giustificarne il suo rumore.

Il tempo scorre un po' più lento lì sul fondo e non v'è posto per urlar parole al vento. Sbroccare, solo accorcerebbe quel momento in cui piango lacrime, al mondo indifferenti. Stille disperse in un cemento trasparente che mi immobilizza, fossilizzando ciechi istanti.

Quelle ombre fluide che mi serpeggiano di fronte, dai poco nitidi e ingannevoli contorni, sembrano estranee alla vita che le attraversa; una bracciata dietro l'altra e dietro le onde che mi sospingono inerme in mezzo al vuoto. Leggero è il senso dell'oblio che cresce in grembo. E quelle serpi luccicanti che s'insinuano dietro ai miei lobi mi sussurrano parole deliranti, trasumanano i miei pensieri in dolci incanti, rendono il senso del valore di quest'enclave.

Quello è il momento più epico: in cui trascino la mia anima fuori dai canoni, fuori dai limiti del cosmo. Quello è il momento non in cui solo io sono; ma sono io solo e sono solo io.

Nulla di più vero. Vero quanto un dogma.

Sulla mia isola, sì, c'è posto anche per altri: a tempo debito... e per il tempo che voglia conceder loro. Solo o solo in compagnia di quanti sappiano attendere sull'uscio rimettendosi al mio invito.

Cemento trasparente. Ho eretto il mio castello in quella vasca; ho edificato il mio palazzo di cristallo che nessun vede e che al primo impatto, al primo scherno, sarà infranto. Affogheranno, dentro un vaso, tutte le mie elucubrazioni.

Sarà uno scoglio a frantumar le mie illusioni? Uno tsunami, dirompente sul mio atollo, a sconquassar le mie emozioni?

"Ma sei cretino!?", la parola non mi suona affatto nuova e giunge guizzante dal lato opposto della corsia, da un gracile polso dolorante appena un po' contuso. Il mio sguardo, confuso. Il suono ovattato di quella ninfea voce. I miei occhi rapiti da una cuffietta rosa e da quelle labbra sottili che si aprono e richiudono come a volermi mordere un po'.
Schivo la murena e mi aggrappo alla scaletta. Salvo. Salgo.

Oblitera, la mente, ogni figura di passaggio che fluttua sopra il pavimento lungo il bordo vasca. Brividi di freddo sulla pelle. Il mio accappatoio semi-allacciato accarezza le fughe di un rugiadoso grès in finto legno.

Il calore della doccia mi si squaglia in testa. Getto la spugna sulla nuca e raggiungo la scapola, poi l'altra;  la ravvivo di calore e tampono i miei occhi spersi, affossandoli nelle insenature di quel corpo molle di fondale; m'inebrio dei profumi degli abissi...

Fragranze ancestrali d'inestimabile eleganza avviluppano e avvinghiano consumati relitti di dubbio valore umano. E' la sagra degli uomini nudi. Niente ornamenti e orpelli. Dei propri tersi, flaccidi e avvizziti corpi spogli. L'archetipo dell'eleganza: madidi penduli che dettano il tempo scandendone i passi.

Trascino le ciabatte inzuppate che annaffiano i miei talloni scucchiaiando ad ogni passo schifose pozze semi-schiumose dai rivoli di scolo dei piatti-doccia: sensazione odiosa.
Si racconti ai posteri dell'umana impresa: far reindossare i calzini sgualciti, riesumati dal borsone, a raggrinziti e permalosi umidi piedi spettinati.

Ed è l'epopea di tante gloriose ed eroiche gesta che riecheggia per la stanza, senza pudore; cantate in coro da una mandria di batacchi deformi e altisonanti, il cui ruggente canto trabocca ridondante e se ne fa sfoggio fuor dalle mura del palazzetto; poi straripa fra le file del parcheggio; su per le vie del quartiere; fino a inondare i brulicanti bar del centro...

Sentirsi soli in quest'urticante scorticamento di animalesche pelli umane; immonde pelli limpide e fecciose.
Contingenti e luride adiacenze. Bleah.

Non bramar neppure la pelle tersa e vellutata su cui  la rugiada luccicava iridata e baciava lacrimante, che sagomava quei due gemmei glutei incertamente posati sul muretto di sostegno della vetrata di separazione dalle gradinate obnubilata dal vapore acqueo. Non bramar quella sensazione di piacevole stupore nell'ammirarne il momento in cui scomparivano fieri sotto la superficie dell'acqua. Non bramarne neppure la gioia di saper chiamarli per nome sotto le lenzuola di una fortuita serata alticcia e peccaminosa, da dover celare. Sentirsi soli.

Volersi, soli.

Un caminetto acceso, un calice macchiato, un libro inebriante, stropicciato, impugnato a due mani. La luce un po' soffusa, parole riflesse sugli occhi, l'inchiostro che irrora l'anima, l'odore dei fogli vecchi. E una penna sui polpastrelli, a tracciare segni graffianti, su un blocco note che ne sa già troppe, lo smartphone scarico scollegato a rete. "Saper sopportare la solitudine e ricavarne piacere, è un dono enorme" suggeriva il goliardico Shaw.

L'asciugacapelli a gettoni che soffia stanco e non dura mai quanto basta. L'affronto ultimo alle mie fatiche.

La vita che adoro mi attende fuori dagli spogliatoi.
Stasera: solo.

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