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Spazio tempo

Simone ha sempre amato il proprio compleanno, nonostante sia cresciuto con l'immagine di tutti tristi intorno a lui durante quel giorno.

Fino a quasi due anni prima, si è sempre chiesto il motivo, la ragione per cui, di norma, suo padre spariva nel nulla durante tale occasione, mentre sua madre e la nonna Virginia indossavano dei falsi sorrisi al fine di farlo stare bene, ma si vedeva sempre che l'unico loro desiderio era che la giornata finisse il prima possibile, come se quel giorno tanto bello per lui non dovesse durare ventiquattro ore - anzi, sembrava facessero il conto alla rovescia affinché arrivasse l'indomani.

Due anni prima, tuttavia, ha scoperto e realizzato il perché certe cose accadessero, quelle che non è mai riuscito a spiegarsi, che agivano al pari di una puntella al centro esatto del cuore, al fine di spaccarglielo.

Il motivo che ha anche un nome: Jacopo.

Jacopo Balestra, che è il medesimo nome che sta osservando in quel momento, scritto a lettere in rilievo su una croce di pietra, con sotto riportate delle date troppo vicine tra di loro - che stonano, che non dovrebbero essere così vicine, che è assurdo come un'esistenza intera possa essere racchiusa in due date separate da un trattino.

La vita di qualcuno non dovrebbe limitarsi solo a quel dannato trattino.

È seduto a terra, sul manto erboso e secco, reduce dall'inverno, che pian piano si avvia a rifiorire con l'avvento della primavera; tiene le ginocchia flesse al petto, le mani attorno alle gambe per sostenerle e lo sguardo si sposta da quella scritta ai fiori finti rosa e bianchi che sono lì da un intervallo di tempo eccessivo - forse dovrebbero cambiarli, ha persino avuto l'istinto di comprarli da un fioraio mentre si recava in quel luogo, poi ha desistito; ha preferito portare al fratello soltanto uno dei pupazzi che tiene sopra la mensola della propria stanza.

Quest'anno, ha optato per uno a forma di giraffa - il quale, ovviamente, si chiama Miss Giraffe; è lo stesso che ha sistemato vicino alla croce.

A volte pensa a come sarebbe stata la propria vita se il suo gemello fosse ancora vivo: fantastica sul carattere che avrebbe avuto, probabile uno agli antipodi rispetto a lui; sul modo in cui avrebbe portato i capelli o si sarebbe vestito, magari li avrebbe fatti lisci e col ciuffo, oppure lunghi e ricci e avrebbe indossato sempre tute larghe e magliette bucate.

Presuppone che, magari, non si sarebbe ammalato di depressione e ansia se suo fratello fosse stato vivo, se gli avessero concesso il lusso di elaborare quella perdita con i giusti tempi, se gli avessero permesso di abbracciare il dolore, invece che evitarlo e rimuoverlo.

Invece, si è ritrovato a diciassette anni ad affrontare una perdita che non credeva di aver avuto, ad avere una mancanza inspiegabile, un posto vuoto nell'anima che, adesso, non sa come riempire.

Pensa che, se avesse affrontato le fasi del lutto da piccolo, forse, ora, starebbe meglio.

Forse.

E se...

Sono tutte ipotesi che lasciano il tempo che trovano.

Non ne ha idea ed è impossibile tornare indietro.

Ciò nonostante, è pressoché sicuro che avrebbe amato in modo incondizionato quel fratello, la metà mancante del proprio essere e che la sua vita sarebbe stata un briciolo migliore.

Soprattutto, è certo che a Jacopo sarebbe piaciuto un sacco Manuel.

Magari gli avrebbe dato persino qualche consiglio per gestire meglio determinate situazioni.

Magari sarebbe arrivato alla realizzazione che gli piacciono i ragazzi con meno difficoltà, magari si sarebbe mosso a piccoli passi senza rompere ogni cosa durante il cammino.

Magari.

La vibrazione del telefono che ha riposto nella tasca posteriore dei jeans lo distrae da quei pensieri. Indugia qualche secondo prima di sollevarsi appena e raccattare l'apparecchio.

Non lancia neppure un'occhiata allo schermo per accertarsi di chi lo stia chiamando, risponde diretto: «Pronto?».

«Simó?».

La voce dall'altra parte della cornetta la riconosce nell'immediato e il velo di un sorriso gli si dipinge sulle labbra.

«Stai là?».

Quel non viene specificato, non viene data una definizione troppo ampia poiché sanno entrambi che significa, a cosa si riferiscono.

Seppur sia passato poco tempo, è divenuta una sorta di tradizione quella.

Festeggiamo insieme, Jacopo, no?

Simone annuisce come se ciò bastasse come risposta; realizza solamente dopo che - in effetti - non può essere visto e si dà dello stupido da solo. «Sì» risponde. «Sto qua».

«Ah».

Breve pausa.

«Senti, ma— Poi torni a casa subito?».

«Passo da Leo che più tardi usciamo».

«Da Leo?».

«Eh, sì. Non sei l'unico che si è impuntato a farmi festeggiare per forza il mio compleanno». Gli sfugge una risata. «Ma nulla di che. Andiamo a bere qualcosa fuori, torno presto».

«Ah» sopraggiunge per la seconda volta, al che Simone aggrotta le sopracciglia e «Tutto bene?» domanda; che poi dei comportamenti strani li ha notati nelle ultime due settimane, come la difficoltà estrema dell'altro ragazzo a inventarsi palesi scuse, il fatto che, ogni qualvolta che gli arrivava un messaggio, si dileguava - giura di averlo sentito borbottare in bagno riguardo a glassa e cioccolato.

Insomma, piccole cose a cui Simone ha fatto caso e ringrazia il fatto di aver trattenuto e controllato le paranoie che, di solito, lo attanagliano, senza costruire castelli di carta che gli farebbero solo male.

Grazie, dottoressa Morozzi.

«Sì, sì, uhm— Ci vediamo a casa allora».

La chiamata viene chiusa prima che lui possa aggiungere qualcos'altro - ma va bene perché gli avrebbe fatto ulteriori domande alle quali l'altro non avrebbe risposto, anche se sarebbe stato divertente assistere ad una nuova scusa priva di senso inventata di sana pianta.

Simone si rimette in piedi con leggera fatica e ripone il telefono dove lo ha preso. Osserva la croce di marmo, legge per l'ultima volta il nome del fratello.

«T'avrebbero fatto una bella festa anche te, Ja» sussurra, con un mezzo sorriso che gli si delinea sulle labbra, prima di fare un passo indietro e abbandonare il cimitero.


**


Manuel chiude la chiamata e ripone il cellulare nella tasca posteriore dei jeans blu scuro che indossa. Alza gli occhi al cielo a notare l'ennesimo palloncino color avorio che viene gonfiato e sale in aria fino a toccare il soffitto. Gli amici - da un'idea di Martina - hanno deciso di utilizzare l'elio per evitare che vengano scoppiati tempo zero dal gatto, il quale tenta comunque di afferrarli tramite la cordicella di plastica che da essi scende.

È una scena buffa, ad ogni modo, e a Manuel un po' viene da ridere.

«Martì, non te sembra de esagerà?».

Sono soltanto loro due nel grande salotto della villetta Balestra.

Martina gonfia un palloncino blu tramite una bombola d'elio che ha noleggiato - nessuno sapeva si potesse fare, tra parentesi - e lo lascia andare finché anche quello non tocca il soffitto. «M'hai dato l'incarico» replica. «Mó non te lamentà».

Ha ragione.

Fosse stato per lui, al limite avrebbe preso una torta e detto a Matteo di mettere la musica - per quanto i suoi gusti siano opinabili e diametralmente opposti ai propri.

Adesso, invece, la casa è piena di festoni blu e argento che vanno da una parete all'altra e si trovano in salotto, in cucina e nella veranda; è pressoché convinto ci siano anche al piano superiore, ma non ha verificato.

Sua madre gli ha già inviato una dozzina di messaggi sul non fare troppo casino e, soprattutto, di farle trovare ogni cosa in perfetto ordine al ritorno, in seguito a quel weekend romantico fuori porta che è stata costretta ad organizzare - non che le sia dispiaciuto, per inciso.

«Oh, ma che c'hai?» domanda Martina, ad un tratto, notando l'amico sovrappensiero. Appoggia entrambe le mani sui fianchi e inclina il capo su di un lato, lasciando per un momento in pausa i preparativi.

Manuel corruccia le labbra in una smorfia. «Niente» borbotta e scrolla le spalle.

«Seh, ce sto a crede» commenta lei. «Sei teso, sembra che stai pe' annà ar patibolo».

Il ragazzo vorrebbe quasi dirle che è così, che si sente proprio in quel modo e non sa come spiegarlo.

Il punto è che sta ancora scendendo a patti con le nuove sensazioni che sta sperimentando e ogni volta pare andare peggio. Persino a compiere i gesti più semplici si sente stupido e sì che l'amica lo ha persino avvisato del fatto che innamorarsi un po' rende stupidi.

Solo che non credeva in modo così esagerato.

È davvero troppo ed è una delle ragioni per le quali fa un passo in avanti e almeno cinque indietro.

È il principale motivo per cui, nei giorni passati, con Simone non è successo niente, nonostante lo volesse tanto.

Hanno dormito nello stesso letto, si sono abbracciati, c'è stato qualche leggero e insignificante contatto tra le loro labbra, ma poi null'altro.

Ed è una fase di stallo che non riesce più a sopportare, nonostante duri da decisamente poco tempo.

«No, sto bene» sussurra e abbassa lo sguardo, mentre si lascia cadere di peso seduto sui cuscini morbidi del divano di finta pelle. «Stavo a pensà a delle cose».

«Ah, addirittura» Martina lo sbeffeggia. Lascia da parte il palloncino che ha appena gonfiato, che risale fino a toccare il soffitto insieme agli altri dodici. Muove qualche passo, lento, fino a che non è in grado di accomodarsi accanto all'amico. «E a quali cose pensi?».

Manuel sospira sommessamente, con lieve nervosismo, e prende a giocherellare con un filo di cotone sfuggito dalla cucitura dei jeans. «A— Com'era la situazione prima» bofonchia. «E a come è adesso».

«Che intendi?».

Tutto e niente.

«Che— Boh, fino a qualche mese fa, io impazzivo al pensiero dei... Fidanzatini in giro, no? Davo proprio di matto, no?». Ride, con un briciolo di isterismo. «Perché ero fissato con cosa la gente potesse pensare, anche se, alla fine, la gente è troppo concentrata su sé stessa per occuparsi di quel che faccio io».

«E...?».

«E niente!» sbotta e scrolla le spalle. «Pensavo solo a questo».

Martina aggrotta le sopracciglia. Non crede di aver compreso del tutto il suo discorso. «Quindi— Mó lo faresti?».

«Cosa?».

«Er fidanzatino in giro».

In realtà, quella domanda Manuel se l'è posta più di una volta. Non ha ancora una risposta certa, però. Per cui «Boh, magari sì» replica, con tono impastato e a stento percettibile. «Ma non so manco a che punto stamo».

«Beh, a me pare piuttosto chiaro».

«Ma che» scuote il capo con rassegnazione. «Ce semo baciati un paio di volte e nulla di più».

«Questo è andarci piano, Manuel» Martina interviene subito. Allunga una mano, andando a fermare il gesto nervoso e ripetitivo che il ragazzo ha cominciato a compiere con il filo chiaro. In tal modo, gli fa alzare la testa e i loro sguardi possono incrociarsi.

«La prima volta avete bruciato le tappe - letteralmente - e non è andata bene» spiega. «Adesso - è diverso, no? Tu sei diverso, già solo nel modo in cui ne parli».

«Come ne parlo?».

«Con assoluta devozione» sorride, rassicurante. «Prima 'sta cosa non l'avevi ed è bello».

«Non è patetico?».

«Non userei proprio questa parola». Martina non demorde e continua a tenere le labbra curvate all'insù - non accenna a dispiegarle. «E poi, se vuoi capì a che punto siete, il tuo regalo de stasera é davvero un ottimo punto». Ridacchia e con un balzo si rimette in piedi.

Manuel alza gli occhi al cielo. «Me lo tira in faccia» biascica.

«Non credo» la ragazza posa le mani sui fianchi. Le sta provando tutte per infondergli almeno un po' di entusiasmo, ma delle volte risulta alquanto difficile. È pressoché sicura, tuttavia, che non ce ne sarà più bisogno, da quella sera in poi. 


**


Leonardo ha voluto per forza portarlo in un locale - per citare - superfigo, devi assolutamente provarlo.

Sarà, ma Simone non ci vede nulla di eccezionale in quel posto, anzi, gli sembra identico a mille altri in zona Trastevere, ammassati insieme coi tavoli per le strade che si confondono tra loro. È ad uno rotondo e di metallo al quale sono seduti, con due boccali di birra mezzi vuoti davanti.

Che poi, sono le nove e mezza di sera e c'è ancora poca gente in giro.

Simone resta incollato alla sedia, i gomiti appoggiati sui braccioli sottili e le gambe allungate in avanti per quanto gli è possibile.

La conversazione con l'amico va avanti da all'incirca venti minuti in modo unilaterale, ossia lui parla di qualcosa e l'altro risponde a monosillabi; soprattutto, osserva con fare maniacale il telefono, controllando l'orario e si affretta ad eliminare qualunque notifica appaia sullo schermo.

Simone cerca di non fargli notare che si è accorto di qualcosa, che lo ha fatto da oltre una settimana, ma decide che è più divertente fingere di non averci fatto caso; perlomeno, trova buffo come chi gli è davanti, insieme a Manuel a casa e di sicuro anche Chicca e Matteo abbiano cercato in qualunque modo di tenerlo all'oscuro di quella festa di compleanno a sorpresa.

Non hanno fatto i conti con il suo essere paranoico su ogni fronte e sul suo indagare su tutto ciò che gli accade intorno così da non essere colto impreparato.

Ecco, una sorpresa a Simone Balestra è difficile da organizzare senza che sia lui a permetterlo.

Ma in quel caso manco sarebbe più una sorpresa...

Beh, insomma.

«Stai bene?» domanda, con un mezzo ghigno sulle labbra.

Leonardo butta giù un grande sorso di birra. Poi annuisce e spalanca gli occhi. «Certo» esclama e lancia l'ennesimo sguardo al cellulare sul tavolo, con lo schermo rivolto verso l'alto.

Nessuna nuova notifica.

«Só qui col mio migliore amico, il giorno del suo compleanno, voglio dire» allarga le braccia con fare plateale. «Chi sta meglio di me?».

«Ah, nessuno» ridacchia Simone. «Perché già pensavo a tipo— Una festa da qualche parte, magari in uno di questi locali».

Gli occhi di Leonardo sono ancora spalancati, mentre le sue labbra si serrano e lui scuote il capo. «Ma va» bofonchia. «Cioè— Hai detto che non volevi festeggiare, no? Sono molto attento a queste cose». È talmente attento che in quel preciso istante gli arriva una notifica di un messaggio su Whatsapp e, con uno scatto, gira il telefono in malo modo tanto da rischiare di farlo cadere a terra.

A Simone viene quasi da ridere - per quanto l'altro ragazzo si stia sforzando di mantenere la copertura. «Ah-ah» lo prende in giro e con i polpastrelli sfiora il vetro spesso del boccale di birra.

«Ah-ah, cosa?».

«Niente».

«Non è vero».

Simone sostiene il suo sguardo, per quanto gli è possibile - sebbene torni l'impulso di ridere e stavolta addirittura più forte.

Il punto è che, ad una gara a guardarsi in faccia senza scoppiare, Leonardo non ci è affatto abituato, pertanto perde e in malo modo, sbuffando: «Almeno puoi fingere di essere sorpreso?».

Sulle labbra di Simone si delinea un sorriso soddisfatto. Non sottolinea che sapeva della festa da almeno una settimana, che ha palesemente visto il nome di Leo Simo apparire sullo schermo del cellulare di Manuel, così come lo ha sentito parlare del ripieno di una torta mentre era chiuso in bagno.

Ecco, forse se fosse stato meno sospettoso e paranoico rispetto a tutto ciò che lo circonda, la sorpresa non se la sarebbe rovinata.

Che poi manco la vede come una effettiva sconfitta, anzi, il contrario.

«Farò finta di non sapere nulla».

«Eh, ecco, perché se Manuel sa che t'ho spifferato qualcosa...».

«Ah, s'é fatto sgamare prima lui, t'assicuro» commenta e gli sfugge l'ennesima mezza risata. Pur non dandolo a vedere, ne è davvero felice. In fondo, per lui che si è sempre sentito invisibile agli occhi di tutti, il fatto che più di una persona si sia preoccupata di fargli gli auguri, di organizzargli una festa, di dedicargli del tempo...

Beh, si sente un po' meno invisibile, adesso.

«Era lui?».

«Chi?».

«Il telefono» spiega. «Quello che stavi per lanciare a terra».

Sì, nonostante le buone intenzioni, alla fine Leonardo ha realizzato che è davvero pessimo a mantenere segreti: tipo che le orecchie gli diventano rosse, inizia a sudare dietro al collo e sulla schiena e balbetta.

Un disastro, in pratica, ragion per cui stavolta manco ci prova a deviare il discorso o inventarsi qualche frottola e «Seh» borbotta.

«Che dice?».

«Nemmeno un po' di sorpresa vuoi? Sei un guastafeste. Letteralmente».

«Ti ho detto che fingerò di non sapere nulla, scusa».

Leonardo sbuffa. Avvicina il bicchiere alla bocca per buttar giù l'ultimo sorso di birra ormai calda - che gli fa pure un po' schifo. «Tra mezz'ora dovremmo essere lì» borbotta. «Ricordati de fa' finta de niente».


**


Non pensa la casa sia mai stata addobbata così tanto, nemmeno a Natale: ci sono festoni blu e argento ovunque, appesi alle pareti, persino a terra lungo lo zoccolino - non ha capito a che servano messi lì, ma non ha posto ulteriori quesiti- palloncini gonfiati ad elio del medesimo colore; poi c'è un sacco di cibo posto su di un tavolo ricoperto di tessuto bianco, tra pizzette al pomodoro e mozzarella, salatini vari, olive verdi e nere, biscotti con le scaglie di cioccolato, spiedini di frutta.

Insomma, Manuel pensa che Martina un briciolo abbia esagerato - ancora - però adesso si dovrebbe mettere contro Chicca e Matteo, giunti a villetta Balestra da pochi minuti.

Di fatto, non hanno invitato molta gente, non tutta la classe: a parte loro, sono presenti Laura, che per quella sera indossa un abito rosa cipria con la gonna in tulle, Luna, la quale, invece, ha optato per dei pantaloni a sigaretta neri e un top bianco con dei brillantini sulle bretelle, Giulio e Aureliano.

Ricorda di aver mandato l'invito anche a Monica, che ha declinato all'ultimo, non sa perché.

Come non sa il motivo per il quale sta analizzando il modo in cui gli altri si sono vestiti.

Forse perché lui ha passato ore - vabbè, giorni, chi vuole prendere in giro - a pensare cosa mettersi, cosa abbinare.

Si è sentito altamente stupido pure in quel momento poiché il suo unico pensiero era devo mettermi qualcosa che piace a Simone.

Dio, si prenderebbe a pugni.

Martina gli ha suggerito - se non quasi imposto - di mettere una camicia bianca e un pantalone nero; sembrava un'ottima idea, ma non si vede bene con abiti del genere, non li sente suoi.

Quindi, alla fine, ha indossato comunque un paio di jeans scuri e sopra una maglietta a maniche corte della medesima tonalità, corredata da una catenella argentata al collo che ha ritrovato in un cassetto in camera - probabilmente, neppure gli appartiene.

Ha fatto la barba- lasciandone un lieve accenno - ha cercato di aggiustare i capelli al meglio, sebbene siano cresciuti parecchio e dovrebbe tagliarli e persino fare qualcosa per i ricci che hanno perso forma e definizione.

Vabbè, si vede uno schifo allo specchio, solo che ormai è tardi per cambiarsi ancora.

Gli è arrivato un messaggio da parte di Leonardo quindici minuti prima, dove gli annunciava che stanno arrivando.

Giura che il cuore gli è battuto appena più forte nel petto quando ha letto quella frase.

Spera che tutto vada bene.

Spera di aver combinato qualcosa di decente - finalmente - e di non averlo deluso ancora.

Manuel è in piedi, con la schiena appoggiata allo stipite della porta di legno. Osserva gli amici raccolti in salotto, alcuni accomodati sul divano - su sedili e braccioli - altri in piedi, che chiacchierano, ridono, scherzano.

La distanza è poca, irrilevante, e l'ambiente è piuttosto piccolo, eppure non riesce a scandire bene le loro parole tanto da intrufolarsi in qualche loro discorso. Tanto al momento non avrebbe nulla di interessante da dire, a parte che è agitato.

E appunto «Sei agitato?» sopraggiunge la domanda di Martina che pare leggergli i pensieri - come sempre.

Se la ritrova davanti, mentre gli porge un calice lungo pieno di vino bianco frizzante - sì, c'è pure il vino.

Manuel ringrazia con un mezzo sorriso e raccoglie il bicchiere dalle sue mani, buttando giù un piccolo sorso del liquido che esso contiene. «No, ma va» mente. «Poi io non ho fatto niente. Se va male, è colpa vostra» ridacchia.

Martina corruccia le labbra in una smorfia e incrocia le braccia al petto. «Beh, certo» commenta. «Ma andrà bene. Só 'n fenomeno in 'ste cose». Fa una breve pausa, guardandosi attorno. «Sta arrivando?».

Manuel annuisce. «Seh» replica. «Dieci minuti, traffico permettendo».











Il traffico non permette, piuttosto toglie tempo; ha questo enorme potere di rubare minuti preziosi.

Venticinque, per l'esattezza, che non sono manco troppi, ma rimangono tanti.

Tanti di sicuro per Manuel, dato che si sta crogiolando nell'apprensione.

Al ventiseiesimo minuto, tuttavia, essa cede e crolla, nell'esatto momento in cui le luci della casa vengono spente e ogni cosa sprofonda nell'oscurità.

Non sa nemmeno chi sia effettivamente l'artefice dell'ultimo gesto e non ha la concreta occasione per verificarlo, tanto non ha molta importanza.

Cerca di imitare gli altri presenti, nonostante la scarsa - se non nulla - visuale della stanza, che si nascondono dietro al rientro di una delle pareti o alla porta o alla struttura del divano.

Crede di apparire stupido in tal frangente, dato che non sa dove e come mettersi; alla fine, occupa uno spazio minuscolo dietro una colonna rettangolare del salotto, non molto funzionale come nascondiglio.

Da quella posizione, tuttavia, può scorgere l'ingresso del salotto e lo spiraglio di luce che lo precede, segno che qualcuno è entrato in casa; lo capisce dai rumori di sottofondo, dal sopraggiungere di una voce che sta diventando parecchio familiare.

Si morde piano il labbro inferiore, prende un respiro profondo come a prepararsi ad una lunga apnea.

Cretino, è una festa, mica vai in guerra, la propria coscienza lo rimprovera e ah, gli è addirittura mancata: nell'ultimo periodo quella presenza mistica pareva essersi dissolta nel nulla, lasciandolo senza una vera guida - una sorta di guida, insomma.

A mente, conta fino a dieci, ma a tale traguardo non ci arriva: le luci vengono accese quando è ancora al sette, per cui si perde l'attimo in cui tutti i presenti abbandonano il loro nascondiglio improvvisato e all'unisono esclamano: «Sorpresa!».

Nella confusione, tra tutte quelle persone che paiono essersi moltiplicate fino a divenire miliardi.

Confusione tra miliardi di persone.

Nelle orecchie di Manuel, piuttosto del chiacchiericcio degli amici, delle loro risate, degli «Auguri!» sommessi, suona una melodia delicata, una canzone leggera, sussurrata, con note delicate.

Tutto si muove piano, lento, come la scena di un film nel quale è stato, in qualche modo, catapultato.

Risulta magico e incantato il momento in cui le ombre degli altri danno l'impressione di diramarsi, di aprirsi davanti a lui al pari delle tende di velluto di un palcoscenico di teatro, lasciandolo di fronte al vero spettacolo che, ai suoi occhi, risulta essere il volto di Simone con ancora la giacca di jeans addosso, le labbra curvate in un sorriso e l'espressione serena e felice.

Sì, è lo spettacolo più bello del mondo.

Simone. Felice.

Così quel sorriso coinvolge anche lui, in maniera più tenue, lieve, un minuscolo assaggio che si fonde con le note che gli rimbombano in testa e che vanno a scemare, poco dopo, lasciando lo spazio a voci e chiacchiere rinnovate.

Lo scorrere del tempo torna normale quando Manuel viene distrattamente urtato da Matteo che si accinge ad illustrare e presentare ogni allestimento della stanza, raccontando di dove si sono procurati i festoni e della lunga discussione avuta con Chicca sui due colori da comprare.

Manuel lo ascolta senza reale interesse - poiché quel racconto lo ha già sentito e mezza discussione l'ha già assimilata - fingendo un colpo di tosse; tanto le sue parole non le comprenderebbe bene, dal momento che è distratto da Simone e la sua contentezza.

E Simone ci è immerso in essa. È una sensazione strana, del resto, non saprebbe spiegarla bene.

Avendo scoperto prima della festa - soltanto perché è un paranoico assurdo - ha creduto di prenderla con tranquillità, di essersi in qualche modo preparato a controllare le emozioni e, invece, si sente come un bambino che viene portato per la prima volta alle giostre, seppur si tratti di una cosa semplice, una festa in casa, con festoni, palloncini e pizzette.

Non è nulla di che, eppure sembra essere ogni cosa.

Forse quella frase retorica che recita che la felicità sta dentro le piccole cose non è poi così tanto una cazzata.

La serata trascorre con i presenti riuniti e seduti chi sul divano, chi sulla poltrona, chi, come Manuel, a terra, sul tappeto, con una gamba allungata in avanti e una flessa al petto, mentre una musica pop a basso volume fa loro da sottofondo.

C'è stato un discorso, poco prima, su un ipotetico viaggio della maturità, con una meta non ancora stabilità. A lui mettono piuttosto angoscia quei discorsi, sia perché l'esame delle superiori lo spaventa sia perché ha il terrore di quel che accadrà dopo.

Non lo sa.

A stento fatica a vivere il presente.

Pensare al futuro, alla vita da adulti, con università, lavoro e via discorrendo—

Preferirebbe una tortura fisica, almeno a quel tipo di ferite si può porre rimedio in qualche modo.

L'angoscia costante per l'avvenire, invece, non si riesce a combattere.

Ad ogni modo, per sua fortuna, è un argomento che rapidamente trova il suo declino - poiché, a detta di Laura, seduta su uno dei grandi cuscini del divano: «Dai, raga, è presto, poi ci pensiamo».

E Manuel non può che darle ragione, ringraziando in silenzio.

Anche se, col senno di poi, magari sarebbe stato meglio continuare il discorso sul viaggio della maturità, considerando ciò che sopraggiunge poco dopo.

Comincia con una semplice domanda posta da Giulio, che ha preso posto sul bracciolo di sinistra del divano, più verso la finestra, con un calice di vino mezzo vuoto in mano: «Ma Monica? Come mai non è venuta?».

Monica, che è la ragazza che ha frequentato per un periodo tra la fine della terza superiore e l'inizio della quarta, con cui è rimasto scottato e che non ha davvero mai superato.

Luna gli é vicino, sul cuscino grande accanto a Laura. Pure lei regge un bicchiere, il suo è ancora pieno, però. «Ah, avrà avuto da fare co' Andrea» spiega.

Basta sentir pronunciare quel nome affinché Manuel alzi di fretta lo sguardo e lo faccia guizzare verso Simone: vuole scorgere una sua possibile reazione, qualunque cosa. Di fatto, non dovrebbe: Andrea non dovrebbe essere un ostacolo, un problema, considerando gli ultimi momenti che hanno trascorso insieme.

Insomma, lui e Simone dormono nello stesso letto la maggior parte delle notti, parlano e si abbracciano; stanno effettivamente costruendo qualcosa, quindi non ha senso tenere quello che si accinge ad essere il passato.

Ciò nonostante, Manuel non è in grado di scacciare via quella radicata paura, non è capace di disinnescare la bomba ad orologeria che ha all'interno della propria gabbia toracica, quel timore onnipresente che lo conduce a pensare che Simone può avere di meglio, che lui è soltanto un egoista a volerlo con sé dopo tutto il male che gli ha fatto, che Simone merita qualcuno che lo tratti coi guanti, che lui non è all'altezza.

Per cui sì, la presenza di Andrea la teme ancora, lo farà sempre, come un fantasma che non può scacciare, un demone che non può esorcizzare.

Sul viso di Simone non scorge nulla, comunque: sono lontani solo qualche metro, entrambi seduti sul pavimento; lo vede abbassare lo sguardo e mordersi piano il labbro inferiore, soprattutto quando Luna aggiunge, rivolgendosi proprio a lui «Ah, carcola che da quanno l'hai mollato, pe' Monica è stata l'occasione giusta pe' dargli 'na spalla su cui piangere, che poi— Mica solo 'na spalla vorrebbe dargli».

Di nuovo, Manuel tenta di analizzare il viso di Simone, per capire se la notizia appena avuta - da prendere con le pinze, dal momento che sopraggiunge da una come Luna - lo tocca o sconvolge in qualche modo.

Tuttavia, stavolta non ha l'occasione di poter leggere il linguaggio del suo corpo che Martina, la quale ha occupato il bracciolo di destra del divano, scatta in piedi, esordendo con: «Vabbè, non stamo a perde tempo in cose inutili. Vogliamo aprì i regali?».

Ecco.

Mentalmente, Manuel sta ringraziando l'amica e tira un lungo sospiro di sollievo.

Certo, pensa, sui discorsi spinosi doveva quantomeno prepararsi, non può evitarli per sempre.

Non può essere sempre caramelle e zucchero filato, non sarebbe reale, del resto.

«Seh, seh! Me pare n'ottima idea» è Leonardo a parlare, che dalla poltrona si alza con un movimento fluido e allarga le braccia con fare plateale. «Io v'avverto, il mio si apre per ultimo perché non vorrei farvi sfigurare».

Il grazie di Manuel va anche a lui.

Il momento dei regali è piuttosto tranquillo: Simone scarta ogni pacchetto piano, sorridendo, seppur ciò che trova all'interno magari non rientra nei propri gusti, ma non lo fa troppo notare - ad esempio, la felpa bordeaux con la scritta Lakers in bianco e il cappuccio offerta da Laura e Luna sa che non la metterà mai, però ne è lo stesso riconoscente; sa che userà l'orologio smart che gli hanno comprato Chicca, Matteo, Giulio e Aureliano insieme, poiché quello che aveva prima si è rotto - almeno è qualcosa di utile.

Uno degli ultimi da scoprire - dato che Leonardo ci tiene tanto che il suo sia proprio l'ultimo - è quello di Martina, che, con un ampio sorriso stampato sul volto, porge a Simone, ancora seduto a terra, una busta bianca e rettangolare.

«Je hai regalato n'assegno, Martì?» è il commento che sopraggiunge da parte di Matteo, che si è alzato in piedi e sposta il peso del corpo da un piede all'altro, buttando giù un sorso di vino bianco.

«Decisamente meglio» replica la ragazza, appoggiando una mano sul fianco.

Simone non sa cosa di grandioso possa contenere una semplice busta bianca, per cui la apre con fare curioso, sbirciando dentro; come prima cosa, nota un cartoncino spesso, della medesima tonalità dove spicca una scritta a penna blu. È lo stesso che tira fuori e legge in silenzio:

"Sperando che possiate tornarci con occhi diversi, buon compleanno al gattaro.

Marti"

Soltanto dopo aver letto, Simone nota la presenza di qualcos'altro all'interno della busta, un altro foglio piegato in tre parti, quello che, in seguito, tira fuori e apre, producendo un leggero fruscio.

Sgrana gli occhi a scrutarne il contenuto e «Sei pazza» gli esce di bocca. Non è una domanda, piuttosto un'affermazione, tra incredulità e contentezza.

Martina abbozza una risata. «Eh, volevo avere quelli fighi, ma purtroppo non facevano la spedizione, quindi ho dovuto stamparli».

Manuel è rimasto fermo al proprio posto. Del regalo dell'amica non sa nulla, per cui aggrotta le sopracciglia alla sua spiegazione. Vorrebbe saperne di più, però non fa in tempo a chiedere che Simone gira il foglio in modo da permettergli di leggerne il contenuto.

«Ma sei scema?» esclama Manuel e la sua voce si fa stridula. «Un concerto?!».

«No» precisa lei. «Un concerto a Madrid. Per tutti e due». Sì, c'è scritto il nome di entrambi su quel foglio stropicciato.

«Ma a me manco piace questo» fa notare Manuel. In realtà, la preoccupazione maggiore è che quei biglietti siano costati tanto - troppo - e di sicuro la ragazza poteva puntare a qualcosa di più economico. Però lo sa che lei è così: grandi gesti, enorme significato.

«Beh, a Simone sì, gli fai compagnia» squittisce Martina. «E comunque è tra un anno, hai tutto il tempo di fartelo piacere».

Manuel non crede proprio: si tratta di musica pop inglese, qualcosa di lontano anni luce dai suoi gusti - lui che ascolta prevalentemente brani italiani, moderni o anni Ottanta e Novanta.

Insomma, robe diverse.

E quanto li ha pagati?

Pazza, pazza, Martina.

Non continua a lamentarsi in maniera eccessiva poiché nota che Simone ha apprezzato - pure parecchio - quel regalo e fissa le scritte impresse in nero e giallo sul foglio con gli occhi che scintillano.

Decide che, alla fine, quel sacrificio può pure farlo.

Ma poi, chi è questo Harry Styles?


**


È quasi mezzanotte.

Le chiacchiere in salotto non si sono quietate e non sono sopraggiunti ulteriori argomenti spinosi e scomodi - per fortuna, o meglio, per la vigilanza costante di Martina e pure un po' di Leonardo, che, alla fine, ha ritenuto il regalo della ragazza di gran lunga migliore rispetto al proprio e, quindi, ha chiesto all'amico di aprirlo da solo, in camera, al buio.

Hanno riso entrambi. Poi Simone non lo ha ascoltato e ha scartato lo stesso il pacchetto, scoprendo un intero set di giochi e comodità per un gatto e un biglietto con su scritto: "Per te e Biscotto, per divertirvi insieme. P.s. Nerino sarà per sempre geloso. Leo".

Ha apprezzato pure quello - e di sicuro lo ha fatto anche il felino bianco che si accucciato tranquillo in un angolo del salotto, nonostante la presenza di estranei e la confusione derivante.

Simone cerca di parlare un po' con tutti - del resto, sono lì per lui.

Si è spostato sul divano, appoggiando il fondoschiena sul bracciolo del divano. Sta ascoltando un racconto di Chicca su come Matteo le ha chiesto di uscire la prima volta, a novembre dello scorso anno e come lei abbia esclamato a gran voce un clamoroso finalmente.

Quella storia la conosce già, ma la trova alquanto divertente, per cui non gli scoccia seguire nuovamente quelle parole.

Tuttavia, la sua attenzione viene ben presto catturata dalla figura di Manuel, che un briciolo si è isolato, è in disparte, vicino alla finestra, seduto in malo modo sul davanzale di marmo, una bottiglia di birra in mano e lo sguardo che si sposta dagli amici al giardino fuori.

Gli viene spontaneo, allora, scusarsi con gli altri con un cenno del capo, permettendo loro di proseguire la conversazione, mentre lui si alza in maniera lenta e percorre quei pochi metri che lo separano dall'altro ragazzo.

Lo raggiunge in quattro passi, forse cinque. Si appoggia anche lui al davanzale, stringendosi nelle spalle. «Tutto okay?» chiede - ed è una domanda che, in fin dei conti, gli fa molto spesso, specie nell'ultimo periodo.

Manuel si limita ad annuire, rigirando tra le dita la bottiglia di vetro. Sono pressoché distanti dagli amici, ma non abbastanza per parlare a gran voce e non essere sentiti, per cui, quando emette fiato, si ritrova a sussurrare: «T'é piaciuta la festa?».

«Mh-m. I festoni soprattutto».

«Eh, quello è opera de Martina e un po' pure Matteo».

«I maghi delle feste».

«Già». Accenna un lieve sorriso, che subito frena e fa sbiadire, mordendosi il labbro inferiore. È assurdo come faccia fatica a guardarlo in faccia, a sostenere il suo sguardo. La sensazione è un po' quella di una prima frequentazione, con quell'imbarazzo lì che non ha molte spiegazioni.

Non dovrebbe funzionare in quel modo.

No, con Simone ci è andato a letto molteplici volte, conosce a memoria il suo corpo, saprebbe disegnare ad occhi chiusi i nei sulla sua schiena.

Quindi non ha idea da dove nasca la tensione che gli irrigidisce il collo e gli smorza il respiro, che gli fa puntare gli occhi su qualsiasi cosa non sia il suo profilo.

«Uhm» balbetta. «Comunque te l'ho preso pure io un regalo».

«Ah, sì?».

«Seh. Sta de sopra».

«E perché non me l'hai dato insieme agli altri?».

Eh. Manuel scuote leggermente il capo, distratto. «Boh, non me andava lo aprissi davanti a loro».

«Oh».

Ecco, per un attimo ha il timore di aver sbagliato, di aver fatto intendere un motivo non vero per il quale non vuole che il regalo venga scartato in salotto con gli amici. Pertanto, si appresta a rimediare, a tranquillizzarlo sul fatto che le ragioni sono diverse, che—

Viene preceduto da Simone che, serio, esclama: «Perché non prevede vestiti addosso?».

Manuel la nota la sua espressione per nulla scherzosa - il contrario - e quasi stenta a crederci. Adesso lo guarda, sbatte le palpebre e «Che?» biascica.

Allora Simone ridacchia. «Il regalo» spiega. «Non posso aprirlo qui per quello?».

Inconsciamente, Manuel tira un sospiro di sollievo - okay, non ha fatto danno. Sfugge anche a lui una risata fiacca. «No» replica. «Cioè— Magari dopo?».

«E cos'è?».

«Cosa?».

«Il tuo regalo».

«Niente de che, lo vedi dopo».

Simone non è molto propenso ad un ipotetico dopo e sa essere insistente, se si impegna. «Mancano sette minuti e non sarà più ufficialmente il mio compleanno» fa presente. «Porta sfiga dare i regali dopo».

«Ma da quando?».

«Beh, da sempre». Sgrana gli occhi. Non aggiunge ulteriori parole, piuttosto prende a scrutare l'altro ragazzo, a fissarlo fino a farlo cedere e arrendersi: «Vabbè, de sopra».

Simone sorride soddisfatto. Si rimette in piedi con un movimento fluido e si avvia verso le scale, ogni tanto gettando lo sguardo indietro per accertarsi che Manuel lo stia seguendo.

Ovviamente Manuel lo sta seguendo, un briciolo impacciato e rischiando di inciampare nei propri piedi, girando il capo verso gli amici riuniti attorno al divano che a loro non sembrano badare - sembra, in realtà Martina e Chicca se ne accorgono e ne sono addirittura contente.

Ad ogni modo, a metà scala, Manuel supera l'altro ragazzo con un leggero scatto, soltanto per potergli fare strada - non che non conosca casa, ma deve recarsi in camera propria - pertanto lo precede, in quel corridoio poco illuminato da una luce fioca e arancione; ci sono festoni blu e argento anche lì, in pratica le uniche zone risparmiate dell'intera abitazione sono state il bagno e la stanza di Dante e Anita.

Manuel prende un respiro profondo prima di varcare la soglia del nuovo ambiente e premere l'interruttore di corrente che è posto accanto alla porta.

La camera è in disordine, il letto sfatto e vestiti di sicuro non puliti sono buttati alla rinfusa sulla sedia davanti alla scrivania, sul materasso e una felpa grigia è abbandonata addirittura a terra.

Fa niente.

Si dirige verso una scatola quadrata con un fiocco verde e sgargiante sopra che ha posto su un angolo del letto: in origine, era un pacchetto fatto decisamente male con della carta arancione piena di pieghe; poi ha trovato una scatola rigida con un coperchio e gli è sembrata un oggetto migliore.

Deve regolarizzare l'aria che incamera nei polmoni anche nel momento in cui raccatta l'oggetto, lo percepisce sotto le dita e lo rigira tra le mani.

Gli sembra ancora una pessima idea, un'idea stupida, codarda, inutile, un regalo che di sicuro sfigura a confronto di un biglietto di un concerto.

Odia i paragoni, eppure non fa altro che farli con gli altri, sentendosi nettamente inferiore.

Si morde piano l'interno della guancia. «Uhm— T'oh» borbotta e gli porge il pacchetto.

Simone ha osato compiere soltanto qualche passo distratto all'interno della stanza. Ha ancora un sorriso stampato in faccia quando afferra la scatola. Non deve fare troppa attenzione a non rompere qualcosa - in pratica, è impossibile. Dentro quello spazio così piccolo ci sono diverse cose: la prima che tira fuori è un foglio piegato in quattro parti e incastrato lungo uno dei bordi rigidi. Lo apre piano, ci sono righe scritte a mano con inchiostro nero:


Mi vorrei sdraiare al tuo fianco
per capire se il mio cuore batte ancora
per capire che non è troppo stanco.
Mi vorrei sdraiare al tuo fianco
in un giorno di sole
a cercare le forme tra le nuvole che son come isole
in questo cielo azzurro che ci ricorda il mare.

Mi vorrei sdraiare al tuo fianco
per disinnescare le paure
che in me sono fitte e scure,
rischiano di scoppiare come una bomba
e io non so mai quale filo tagliare.

Mi vorrei sdraiare al tuo fianco
a contare le stelle
a vederle cadere.


Legge con attenzione quelle parole un briciolo tremolanti - se fosse per lui, il regalo potrebbe benissimo essere soltanto quello, sarebbe già abbastanza.

«L'hai scritta tu?» sussurra.

Manuel fa cenno di sì col capo, abbastanza nervoso. «Seh» borbotta. «Non è nulla de che». E manca un pezzo. Non lo ha inserito all'ultimo, ha rimosso la parte dove appariva la parola amore, dove si riferiva a lui con un simile termine.

Troppo.

«È bella, invece».

«Grazie, uhm— Non è solo quello, ovviamente».

Simone regge ancora il foglio scritto in mano, lo piega in due e torna alla scoperta del resto del regalo.

All'interno della scatola, trova cose diverse, come dei cioccolatini rettangolari avvolti con carta oro e verde metallizzato - per fortuna non si sono sciolti - e poi un altro foglio, appena più piccolo rispetto al precedente. Questo, una volta aperto, non ha nulla impresso a penna, ma inchiostro blu scuro stampato, su fronte e retro.

Manuel rimane teso, come sempre si sente un perfetto idiota - che forse poteva fare qualcosa di più, che quello non compete nemmeno lontanamente con un pianoforte. Così tenta già di correre ai ripari quando osserva il ragazzo che è di fronte immobile, a fissare ciò che tiene tra le dita e non mostra alcuna reazione.

Bene, missione fallita.

«Seh, non è— Cioè, non te piace, okay, era soltanto un'idea, puoi anche mandarmi a quel paese, non...».

La sua frase non trova una effettiva fine poiché viene interrotta prima, preceduta da un gesto che, di solito, manda Manuel in tilt.

Il che succede pure stavolta, senza riserva alcuna.

Accade quando Simone, rischiando di far cadere la scatola e i fogli sul pavimento, con uno scatto lo attira a sé e lo stringe in un abbraccio.

Manuel non ci è abituato - agli abbracci senza preavviso, a quel contatto intimo che li spinge cuore contro cuore. Ricorda quella volta che è capitato nella doccia, insieme, ed è stato uno dei primi momenti in cui la propria anima ha vacillato.

Adesso, tuttavia, le sensazioni sono diverse: amplificate, appena più stabili, più chiare, più nitide.

Ci impiega qualche secondo a reagire, percependo perfettamente il respiro dell'altro ragazzo infrangersi sul proprio collo, le sue braccia cingerlo e tenerlo fermo, in una dolce prigionia dalla quale non vuole essere liberato.

Solleva le braccia a stento, le va ad appoggiare sulla sua ampia schiena; sfiora i suoi muscoli tesi oltre il tessuto morbido del maglione bordeaux che indossa - troppo caldo e pesante per l'inizio della primavera, ma Simone è freddoloso e ciò non lo sorprende.

Manuel socchiude le palpebre, inspira a fondo l'odore che si insinua delicato nelle sue narici - sa di borotalco. Preme la bocca sulla spalla del compagno.

Sta bene.

Non crede esista qualcosa di diverso da poter essere chiamato casa.

La casa in un abbraccio.

Se glielo avessero detto soltanto qualche mese prima, non ci avrebbe creduto.

Che una persona potesse essere casa.

Casa nel senso più profondo del termine, quel luogo dove sentirsi al sicuro, protetto, dove il resto del mondo potrebbe crollare, collassare, sparire e non avrebbe importanza.

Ed è assurdo e paradossale ritrovare tutto ciò in un singolo individuo.

Gli esseri umani non possono essere così potenti.

Eppure è ciò che accade.

Rimangono in una simile posizione per dei minuti che sanno di eterno, dondolando su loro stessi, spostando il peso del corpo da un piede all'altro. Non c'è musica all'interno di quella stanza, però una melodia suona lo stesso.

La mezzanotte è passata e non è più il compleanno di Simone.

È quest'ultimo che si distacca per primo - ma non troppo, considerando che il contatto tra loro persiste.

Manuel si ritrova il viso dell'altro a qualche centimetro di distanza. Si bagna le labbra - improvvisamente diventate secche - con la punta della lingua. «Quindi t'é p—». Per la seconda volta, non fa in tempo a concludere la frase, quella domanda di cui vuole conoscere la risposta.

Viene bloccato dalla bocca di Simone che si preme sulla propria.

È un bacio lieve, delicato, sono due respiri che si mescolano.

Niente di eccessivo, niente di troppo spinto.

Solo un ritrovarsi, solo avere un contatto che piano mormora io sono qui e voglio rimanerci.

La scatola vuota sfugge dalle mani di Simone, infrangendosi sul pavimento; lui mantiene tra le dita soltanto quel foglio stampato su ambo i lati e le braccia piegate attorno al busto del compagno, il quale i palmi non sa dove appoggiarli - li ha mantenuti sulla sua schiena, ha preferito non muoversi.

Le loro labbra non sono più unite, tuttavia i loro visi sono ancora abbastanza vicini da far sfiorare le punte dei nasi.

«Lo prendo come un » mormora Manuel, con voce rauca.

Simone annuisce. Non dice niente, in risposta si sporge soltanto nella sua direzione, con l'intento di far scontrare di nuovo le loro bocche. Prima che ciò possa avvenire, «Oh, regà!» la voce di Matteo irrompe nella stanza, producendo un tonfo sordo. A Simone viene istintivo tirarsi indietro, interrompere ogni contatto con Manuel in maniera persino un po' brusca - che sì, lo sa che Matteo sa, ma un conto è sapere, un altro è vedere e non ha idea fino a che punto si possa far vedere.

Quello non l'hanno ancora chiarito.

Non hanno chiarito un sacco di cose, per cui non ha ben chiaro fino a che punto può spingersi, quanto spazio può prendersi.

«Ce sta la torta, venite?» Matteo sembra tranquillo, anche se li ha visti appiccicati e ha notato pure il modo in cui il più alto si è distaccato con frenesia e ora lo fissa con occhi smarriti. Cerca di abbozzare un sorriso rassicurante.

Come ovvio, anche Manuel si accorge di quel suo gesto improvviso e disperato. Non ci rimane male, anzi, lo comprende: del resto, si è tirato indietro talmente tante volte che della confusione è persino lecita.

Vuole rimediare.

Non è certo sufficiente un singolo episodio per sanare mesi e mesi di mancanze, ciò nonostante è un ennesimo piccolo passo.

Dunque, in maniera fluida e spontanea, allunga una mano, la va ad appoggiare sul fianco del ragazzo che ha di fronte.

Simone crede di poter morire in quel momento, per una svariata serie di motivi: perché Manuel sta facendo quello davanti a Matteo, in camera sua, con la luce accesa. Ogni fibra del suo corpo trema.

«Sì, Matté. Mó arriviamo» esclama Manuel, che rivolge lo sguardo all'amico soltanto per una frazione di secondo, distratto; poi, la sua attenzione è completamente catturata dal volto di Simone, dai suoi occhi grandi che paiono due pozze scure e profonde.

Fermo sulla soglia della porta, Matteo non ha levato il sorriso. Schiocca la lingua sul palato. «V'aspettiamo» esclama e fa un passo indietro. «Oh, comunque c'avevo ragione: visivamente siete mejo voi».

Si congeda in tal modo, sparendo poi nel chiaroscuro del corridoio.

Simone aggrotta le sopracciglia all'ultimo commento che non comprende. Manuel, invece, lo capisce eccome e trattiene una mezza risata.

«Che— Che vuol dire?» gli viene chiesto.

Scuote il capo, in cenno di diniego. «Niente» borbotta. «Robe nostre».

«Che robe?».

Manuel accenna una risata: non ha intenzione di rivelargli nulla, almeno non in quel frangente. «Non ce potemo perde la torta» cambia discorso. «Poi Martina me ammazza». Si sporge un'ultima volta nella direzione dell'altro ragazzo, depositando un bacio lieve e rapido sull'angolo della bocca.

È solo a quel punto che, suo malgrado, si allontana.

Compie solo qualche passo, sufficiente a raggiungere la porta lasciata aperta. Lì si ferma, con una mano sopra lo stipite. «Oh, Simó?».

«Mh-m?».

«Buon compleanno».


**


La torta prescelta è di forma circolare, alta, ricoperta di glassa di zucchero bianca e una scritta di cioccolato fondente che recita un semplice Buon compleanno, Simone.

Manuel avrebbe voluto aggiungerci dell'altro, ad un certo punto, ma ha lasciato perdere all'ultimo.

Sopra di essa sono state posizionate due candeline azzurre: non ci sono numeri a rimarcare l'età, sono semplici e lineari.

Simone osserva le due fiammelle accese davanti a sé, mentre nelle orecchie gli entra la canzonicina dei tanti auguri che gli amici intonano all'unisono. Quando finisce, qualcuno - non capisce bene chi - gli intima: «Ricorda d'esprimere 'n desiderio».

Ed è frattanto che una frase simile viene esclamata che il suo sguardo cerca e trova quello di Manuel, poco distante, dalla parte opposta del tavolo: è lui che mantiene nel proprio campo visivo quando si china e soffia sulle candeline al fine di spegnerle.

I desideri non si dicono a voce alta, ma tutti - più o meno - in quella stanza sanno quale sia stato espresso.

Non è difficile da indovinare, del resto.

In quel momento di assoluta leggerezza, con la musica che ancora aleggia nell'aria, scattano delle foto: in gruppo, tutti insiemi, separati, svariati selfie con il festeggiato - costringono anche Manuel e Simone a farne una insieme, sebbene essa venga fuori fuoco, con loro due alquanto tesi e imbarazzati, con Matteo che commenta: «Visivamente bellissimi!»

Ad un tratto, Simone nota addirittura Martina che tiene in braccio il gatto, attorno al collo del quale spunta un fiocco di nastro verde; immagina l'idea sia stata sua - chi se no - e gli viene da sorridere.

Non è abituato a tutto quell'affetto incondizionato che sta ricevendo: forse perché i suoi compleanni hanno sempre avuto quel velo di tristezza e malinconia che gli ha impedito di godersi a pieno quel giorno.

L'unico un briciolo diverso è stato quello festeggiato a scuola, nonostante i danni, i casini, le incomprensioni.

Però ricorda cosa è successo proprio in tale occasione, qualcosa che ha dato inizio ad ogni cosa.

Così adesso è spettatore degli amici che ridono, scherzano, giocano addirittura col gatto. Lui è distante solo qualche metro, con il capo inclinato su di un lato.

«Alla fine glielo ha messo er fiocchetto» sussurra Manuel.

Simone non ha bisogno di voltarsi per capire che l'altro ragazzo lo ha affiancato. «È carino».

«Sì, un po' è carino».

Abbassa lo sguardo. Sta trattenendo il respiro, per una lunga serie di motivi.

Sarà che sono uno accanto all'altro, in quella posizione che tante volte li ha visti protagonisti: vicini, con le spalle che si sfiorano. Allora è un naturale istinto che non si sforza più di trattenere quello con cui allunga l'indice e il medio, va a sfiorare con i polpastrelli il dorso della mano del compagno.

Manda giù a fatica della saliva, aspettando qualcosa - qualunque cosa: una possibile reazione, persino un suo scansarsi andrebbe bene.

Ma Manuel non si scansa.

No, il contrario: lui tiene lo sguardo dritto davanti a sé, su Martina che solleva Biscotto, sorride e si fa scattare una foto da Chicca; su Leonardo che conversa con Laura in modo molto interessato e le poggia un palmo sul ginocchio.

La realtà si svolge e sviluppa davanti a loro, che intanto si sfiorano una mano, che intanto fanno intrecciare tre dita - medio, anulare e mignolo; agganciano le loro falangi in modo innocente, delicato, senza guardarsi, senza che i loro occhi si incontrino.

Non ce n'è bisogno, del resto.

In meno confusione, tra persone che non sono miliardi - sono poche, le loro persone - Simone e Manuel si stringono la mano, anche se qualcuno potrebbe vederli.

E Simone si ritrova a pensare nuovamente al fratello in quel preciso istante.

A Jacopo, al quale quella festa sarebbe piaciuta un sacco e immagina avrebbe voluto avere le candeline rosa.

Immagina di nuovo quelle cose che, delle volte, paiono scontate e invece non lo sono.

A Jacopo, che avrebbe, di sicuro, fatto una foto con Biscotto.

A Jacopo che si sarebbe voltato e gli avrebbe sorriso, notando il loro gesto.

Immagina che, da qualche parte, magari in un differente universo, questo stia accadendo.

Per quel che vale, a lui va bene anche quello, di universo.

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